La Corte Costituzionale sui poteri del Giudice di promuovere la dichiarazione di fallimento
La Corte Costituzionale risponde al Tribunale Milano sui dubbi di legittimità costituzionale sollevati in merito ai poteri di richiesta di fallimento da parte del magistrato che abbia conoscenza dello stato di insolvenza

Con sentenza numero 184 depositata il 9 luglio 2013 la Corte Costituzionale ha respinto come non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 4 del D.Lgs. 9 gennaio 2006 n. 5 sollevata dalla Sezione Fallimentare del Tribunale di Milano con ordinanza del 31 maggio 2012, nella parte in cui, andando a sostituire il precedente articolo 6 del Regio Decreto 267/1942, ha eliminato la facoltà del Giudice di dichiarare "d'ufficio", ove sussistano i presupposti, il fallimento .
Il dubbio che il Tribunale di Milano ha posto al vaglio della Corte scaturisce da una domanda ( rectius istanza) di fallimento presentata dai membri del Collegio Sindacale di una società per azioni e a nome e per conto della società stessa in liquidazione, in surrogazione del liquidatore in carica inerte; istanza che, ad opinione del Tribunale, sarebbe viziata da inammissibilità per carenza di potere rappresentativo in capo al Collegio Sindacale, rappresentanza che competerebbe, quanto alla società, al solo liquidatore fino a che durano le procedure di liquidazione ovvero sino alla revoca del medesimo.
Prima di procedere al rigetto dell'istanza, il Tribunale solleva questione di legittimità della citata norma che impedirebbe, come nella fattispecie, al Tribunale stesso investito della procedura, di dichiarare d'ufficio il fallimento, di fronte ad istanza inammissibile e valutati i presupposti. Secondo il Tribunale rimettente il sospetto di costituzionalità della novella del 2006 andrebbe riferito all'articolo 77 della Costituzione e al "tenore letterale e logico della legge delega" (Legge 14 maggio 2005 n. 80 in cui si conferiva delega legislativa al Governo, tra l'altro, di procedere alla riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali) per le seguenti ragioni:
- anche a voler interpretare in maniera estensiva il contenuto della legge delega, nella stessa non sarebbe dato rinvenire alcuna volontà del legislatore delegante di rimuovere il potere concesso al Tribunale di dichiarare d'ufficio il fallimento, giusta disciplina previgente;
- l'abrogazione non sarebbe giustificata da ragioni pratiche di snellimento del procedimento nè la previsione del potere officioso sarebbe in contrasto con norme di rango costituzionale, come già chiarito in precedenza dalla medesima Corte;
- l'abrogazione neppure sarebbe giustificata da motivi di riordino sistematico, posto che il potere officioso di apertura della procedura non si porrebbe in contrasto con la gestione della stessa da parte del medesimo organo giurisdizionale, come comproverebbe, ad esempio, la permanenza di detto potere nella procedura di amministrazione straordinaria;
- non varrebbe neppure, a giustificare la soppressione, fare richiamo al potere restante in capo al Pubblico Ministero, essendo in discussione non la discrezionalità del legislatore delegato bensì la sola legittimità formale di attribuzione in capo allo stesso di una facoltà (l'abrogazione) che non è dato rinvenire nella legge di delega.
Si costituiva nel giudizio, per la Presidenza del Consiglio dei Ministri, l'Avvocatura dello Stato la quale, in prima battuta, eccepiva l'inammissibilità della questione sollevata dal Tribunale rimettente per due distinti, anche se connessi, motivi: il primo, per la mancata sussistenza di rilevanza in una scelta discrezionale operata in sede di attuazione della delega, il secondo per non avere indicato il giudice rimettente, quale parametro costituzionale di riferimento, anche l'articolo 76 della Costituzione, andando nell'ordinanza a sindacare un supposto "eccesso di delega" e non soltanto una "carenza assoluta di delega". Nel merito, l'Avvocatura comunque riteneva non fondata la questione obiettando come rientri nei poteri di riordino conferiti dal legislatore delegante anche quello di rivedere il potere officioso del Tribunale in sede di instaurazione della procedura, ancorché detto potere fosse stato giudicato conforme alla Costituzione in epoca anteriore; di guisa che, in oggi, sarebbe perfettamente conforme al dettato costituzionale la previsione operativa secondo cui il Tribunale, ove riscontrasse i requisiti per una dichiarazione di fallimento, dovrebbe fare rinvio, come ogni giudice civile, degli atti al Pubblico Ministero, organo investito del potere di formulare la richiesta di fallimento (potere non compromesso dalla novella).
La Corte, in motivazione, superando le eccezioni di inammissibilità avanzate dall'Avvocatura, respinge come non fondata nel merito la questione sollevata movendo dall'analisi, operata in "parallelo" tra la norma delegante e la norma delegata, da interpretarsi, questa, secondo i principi e i criteri indicati dalla prima e tenendo conto della ratio della riforma e di eventuali limiti, possibili, alla discrezionalità del legislatore delegato, in un'ottica di "sistema" (potremmo dire di "ordinamento")..
Osserva la Corte come il legislatore delegante, nel fissare i principi direttivi riguardo alla futura applicazione della delega, aveva previsto, fra gli altri compiti,quello di " realizzare il necessario coordinamento con le altre disposizioni vigenti ".
Alla luce di questo compito la Corte ritiene che sia perfettamente coerente, in una logica di sistema e di coordinamento, l'abrogazione del potere officioso operato dalla novella in quanto in linea con il principio cui è ispirato tendenzialmente il nostro processo civile " ne procedat judex ex officio" , principio che sarebbe vulnerato dalla previsione di un potere di impulso del Tribunale in via autonoma.
Anche se, sempre secondo la Corte, l'eventuale previsione di un potere officioso non sarebbe di per sè, in casi particolari e transitori, violativo del principio richiamato (principio "tendenziale" e non "assoluto") , nella fattispecie il legislatore delegato aveva piena facoltà, nel riordinare, come ha fatto con altre disposizioni, l'intero sistema delle procedure concorsuali, optare, per ragioni di coerenza, per la sottrazione di siffatto potere, come già previsto, lasciandolo a parti diverse dall'organo giudicante.