Jobs Act: i contratti di lavoro modificati dal d.l. n. 34/2014
Il Jobs Act si applica ai rapporti di lavoro costituiti successivamente alla data di entrata in vigore del decreto medesimo, dal 21 marzo 2014: breve panoramica

Vista la deliberazione del Consiglio dei ministri del 12 marzo 2014 su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, Matteo Renzi, e del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, Giuliano Poletti, in data 20 marzo 2014 viene approvato e pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto legge n. 34/2014, recante Disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell’occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese, impropriamente e grossolanamente denominato Jobs Act.
Il provvedimento interviene nell’ambito del contratto a termine e del contratto di apprendistato, dei servizi per il lavoro e delle politiche attive, nell’ambito della verifica della regolarità contributiva (DURC) e nell’ambito dei contratti di solidarietà.
L’intervento della Camera dei deputati ha modificato notevolmente il testo normativo originariamente predisposto dal Consiglio dei ministri. Ora si attende l’esito in Senato.
Le disposizioni del d.l. n. 34/2014 si applicano ai rapporti di lavoro costituiti successivamente alla data di entrata in vigore del decreto medesimo, dal 21 marzo 2014.
Intanto, l’articolo 1, sul contratto a termine, dopo il vaglio della Camera, esordisce con l’aggiunta di una formula diplomatica “di conforto”: In considerazione della perdurante crisi occupazionale e nelle more dell’adozione di provvedimenti volti al riordino delle forme contrattuali di lavoro, al fine di rafforzare le opportunità di ingresso nel mercato del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione e fermo restando che il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro, al decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e successive modificazioni sono apportate le seguenti modificazioni, e così prosegue nell’elencazione delle norme modificate.
Dunque, in tal guisa, il legislatore, come comunemente si suol dire, lancia il sasso e nasconde la mano. Prima rassicura i destinatari del provvedimento della assoluta “transitorietà” di esso in attesa di un mai auspicabile riordino dei contratti di lavoro e poi, nei successivi punti, smantella per intero le ultime importanti garanzie rimaste nel contratto a termine, già modificato con la legge n. 92/2012, cd. Riforma Fornero.
Innanzitutto, l’acausalità e la fine delle ragioni giustificatrici dell’apposizione del termine divengono la regola generale, laddove finora erano un’eccezione. L’articolo 1 del d.l in commento riguarda sia il contratto a termine sia la somministrazione di lavoro a tempo determinato.
Dunque, il contratto a termine acausale può avere una durata massima di 36 mesi (prima 12 mesi), comprensiva di proroghe, per lo svolgimento di qualsiasi mansione. Le proroghe sono ammesse fino ad un massimo di 5 volte (nel testo originario erano previste proroghe per 8 volte), nell’arco di 36 mesi, indipendentemente dal numero dei rinnovi. Questa innovazione lascerà libero arbitrio ai datori di lavoro che intendano assumere con contratto a termine ferma la possibilità di indicare in ogni caso la ragione giustificatrice per evitare eventuali contenziosi. Detta ragione giustificatrice eventualmente apposta al contratto a termine discenderà da negoziazione individuale, non da norma inderogabile, come accadeva prima.
Rimane l’obbligatorietà del contributo addizionale INPS dell’1,4% mensile per finanziare l’ASPI, ad eccezione dei contratti stagionali e di quelli per ragioni sostitutive.
A fronte dell’eliminazione della causale, viene introdotto un “tetto” all’utilizzo del contratto a tempo determinato, stabilendo che il numero complessivo di rapporti di lavoro a termine costituiti da ciascun datore di lavoro non può eccedere il limite del 20% dei lavoratori a tempo indeterminato (ivi inclusi i dirigenti) in forza al 1° gennaio dell’anno di assunzione (criterio rivisto alla Camera e molto più restrittivo rispetto al “20% dell’organico complessivo” previsto nel testo originario del decreto-legge). Il superamento del limite comporta la trasformazione dei contratti stipulati oltre il limite del 20% in contratti a tempo indeterminato fin dalla loro costituzione, secondo la modifica della Camera. Per i datori di lavoro che occupano fino a 5 dipendenti è comunque sempre possibile stipulare un contratto a tempo determinato acausale. Il limite del 20% non trova applicazione nel settore della ricerca, limitatamente ai contratti a tempo determinato che abbiano ad oggetto esclusivo lo svolgimento di attività di ricerca scientifica, i quali possono avere durata pari al progetto di ricerca al quale si riferiscono.
Ai fini del computo dei 36 mesi si tiene conto sia dei periodi lavorati con contratto a termine sia dei periodi lavorati con contratto di somministrazione a tempo determinato con mansioni equivalenti.
Attraverso una disciplina transitoria (articolo 2-bis)) si prevede che (fermi restando comunque i diversi limiti quantitativi stabiliti dai vigenti contratti collettivi nazionali) per i datori che alla data di entrata in vigore del decreto-legge occupino lavoratori a termine oltre tale soglia, l’obbligo di adeguamento al tetto legale del 20% scatta a decorrere dal 2015, sempre che la contrattazione collettiva (anche aziendale) non fissi un limite percentuale o un termine più favorevoli.
Vanno esclusi dal computo dei lavoratori a tempo indeterminato per il rispetto del tetto del 20% tutti quei lavoratori che ordinariamente per legge sono esclusi anche per altri istituti lavoristici (apprendisti, lavoratori somministrati, LSU, assunti con contratto di reinserimento).
Infine, varie disposizioni sono volte ad ampliare e rafforzare il diritto di precedenza delle donne in congedo di maternità ex art. 16, c. 1, d.lgs. n. 151/2001 per le assunzioni da parte del datore di lavoro, nei 12 mesi successivi, in relazione alle medesime mansioni oggetto del contratto a termine.
Anche il contratto di apprendistato subisce delle modificazioni, come disposto all’articolo 2 del decreto in commento. Il piano formativo individuale può essere elaborato in formula sintetica con allegato a parte o all’interno del contratto di apprendistato, sempre scritto. Quindi, esso va scritto e consegnato all’apprendista contestualmente alla stesura del contratto, non più nei 30 giorni successivi all’assunzione.
Viene modificato l’obbligo di stabilizzazione degli apprendisti, già introdotto con la legge n. 92/2012 e molto stringente. In particolare, per i datori di lavoro che occupano almeno 30 dipendenti l’assunzione di nuovi apprendisti è subordinata alla prosecuzione a tempo indeterminato di almeno il 20% dei rapporti di apprendistato, stipulati nei 36 mesi precedenti. La norma dispone semplicemente il parametro di 30 “dipendenti”, senza alcuna precisazione ulteriore; pertanto, potrebbero rientrare nel computo anche i lavoratori assunti con contratto a termine.
Per quanto riguarda la formazione, qualora la Regione non provveda a comunicare al datore di lavoro, entro 45 giorni dalla comunicazione dell’instaurazione del rapporto, le modalità per usufruire dell’offerta formativa pubblica il datore di lavoro non è tenuto ad integrare la formazione professionalizzante con quella trasversale e di base. Inoltre, per l’aspetto retributivo, fatta salva l’autonomia della contrattazione collettiva, si prevede che, in considerazione della componente formativa del contratto di apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale, si debba tener conto delle ore di formazione almeno in misura del 35% del relativo monte ore complessivo. Per le ore lavorative la percentuale retributiva sarà al 100% quella derivante da CCNL.