Le SS.UU sul concorso dei reati di riciclaggio e ricettazione e il reato di associazione mafiosa

Sezioni Unite della Corte di Cassazione (25191/14) intervengono a dirimere un contrasto sul possibile concorso dei reati di riciclaggio e ricettazione con il reato di associazione di stampo mafioso

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Le SS.UU sul concorso dei reati di riciclaggio e ricettazione e il reato di associazione  mafiosa

Le Sezioni unite della Corte di Cassazione, Sezione Penale, con Sentenza n. 25191 depositata il 13 giugno 2014 intervengono a dirimere un contrasto sul concorso del reato di riciclaggio e di associazione di stampo mafioso.  La Corte copie un lungo excursus che delinea gli interventi normativi e giurisprudenziali in materia, richiamando le leggi speciali e l'introduzione dell'art. 648-ter ("Impiego di denaro, beni o altre utilità di provenienza illecita").

Secondo la Corte "la plurioffensività dei delitti disciplinati dagli artt. 648-bis e 648-ter cod. pen. costituisce uno dei profili che giustificano l'affermazione che il delitto di riciclaggio è speciale rispetto alla ricettazione".

La sentenza tenta di cogliere il nesso esistente tra le connotazioni assunte dai delitti di riciclaggio e reimpiego (quali desumibili dagli interventi legislativi in precedenza illustrati) e la clausola, contenuta nell'incipit delle due disposizioni, che prevedono entrambe l'impunità per tali reati nei confronti di colui che abbia commesso o concorso a commettere il delitto presupposto.

Il quesito di diritto che veniva posto alla Suprema Corte era "Se sia configurabile il concorso tra i delitti di cui agli artt. 648-bis o 648- ter cod. pen. e quello di cui all'art. 416-bis cod. pen., quando la contestazione di riciclaggio o reimpiego riguardi beni o utilità provenienti proprio dal delitto di associazione mafiosa".

L'associazione di tipo mafioso viene qualificata come tale in ragione dei mezzi usati e dei fini perseguiti. Il terzo comma dell'art. 416-bis cod. pen. individua il "metodo mafioso" mediante la fissazione di tre parametri caratterizzanti, vale a dire 1) forza intimidatrice del vincolo associativo, 2) la condizione di assoggettamento e 3) la condizione di omertà.

Secondo la Suprema Corte "occorre anzitutto verificare se il delitto di associazione di tipo mafioso possa costituire di per sé una fonte di ricchezza illecita suscettibile di riciclaggio o di reimpiego, indipendentemente dalla commissione di singoli reati-fine".

Su un piano letterale devono essere valorizzati la rubrica e il dato testuale dell'art. 416-bis cod. pen.
La significativa diversità tra la rubrica dell'art. 416 cod. pen. ("Associazione per delinquere") e quella dell'art. 416-bis cod. pen. ("Associazioni di tipo mafioso anche straniere") rispecchia la differenza ontologica delle due fattispecie, l'una preordinata esclusivamente alla commissione di reati, l'altra contraddistinta da una maggiore articolazione del disegno criminoso.

E afferma la Corte: "il Collegio, condividendo l'orientamento giurisprudenziale maggioritario, ritiene che il delitto di associazione di tipo mafioso sia autonomamente idoneo a generare ricchezza illecita, a prescindere dalla realizzazione di specifici delitti, rientrando tra gli scopi dell'associazione anche quello di trarre vantaggi o profitti da attività lecite per mezzo del metodo mafioso", citando la Corte le più recenti dinamiche delle organizzazioni mafiose, che cercano il loro arricchimento non solo mediante la commissione di azioni criminose, ma anche in altri modi, quali il reimpiego in attività economico-produttive dei proventi derivanti dalla pregressa perpetrazione di reati, il controllo delle attività economiche attuato mediante il ricorso alla metodologia mafiosa, la realizzazione di profitti o vantaggi non tutelati in alcun modo, né direttamente né indirettamente, dall'ordinamento e conseguiti avvalendosi della particolare forza d'intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne derivano.

Vi sono decisioni della Cassazione che si pronunziano in senso negativo sull'esistenza del rapporto di presupposizione tra il delitto di riciclaggio e quello di cui all'art. 416 cod. pen. e, così, negano l'operatività della clausola di riserva nei confronti del partecipe dell'associazione per delinquere chiamato a rispondere anche dell'imputazione di riciclaggio dei beni acquisiti attraverso la realizzazione dei reati-fine dell'associazione. In coerenza con tale impostazione, affermano che la partecipazione all'associazione di cui all'art. 416 cod. pen. non è autonomamente produttiva di proventi illeciti che possano essere oggetto del delitto di riciclaggio e che, pertanto, esiste un'impossibilità ontologica a far derivare i beni oggetto del delitto previsto dall'art. 648-bis cod. pen. dalla condotta associativa.

A conclusione del lungo argomentare, le Sezioni unite, risolvendo il contrasto insorto tra le Sezioni semplici della Corte di cassazione, hanno affermato che

"non è configurabile il concorso fra i delitti di cui agli artt. 648-bis o 648-ter cod. pen. e quello di associazione mafiosa, quando la contestazione di riciclaggio o reimpiego riguardi denaro, beni o utilità provenienti proprio dal delitto di associazione mafiosa. Nel medesimo contesto, le Sezioni Unite hanno altresì chiarito: - che il delitto presupposto dei reati di riciclaggio e di reimpiego di capitali può essere costituito dal delitto di associazione mafiosa, riconosciuto di per sé idoneo a produrre proventi illeciti; - che l’aggravante prevista dall’art. 416-bis, comma 6, cod. pen. è configurabile nei confronti dell’associato autore del delitto che ha generato i proventi oggetto di successivo reimpiego da parte sua; - che i fatti di autoriciclaggio e reimpiego sono punibili, sussistendone i presupposti normativi, ai sensi dell’art. 12-quinquies d.l. n. 306 del 1992, conv. con modificazioni dalla l. n. 356 del 1992".
 

 

Di seguito il testo della Sentenza n. 25191 depositata il 13 giugno 2014 Sezioni Unite della Corte di Cassazione

 

RITENUTO IN FATTO

1. L'11 marzo 2013 il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli emetteva nei confronti di Mario Iavarazzo ordinanza di custodia cautelare in carcere in ordine ai seguenti reati;
- reimpiego, in concorso con altre persone (artt. 81 cpv., 110, 648 ter cod. pen.), di ingenti capitali riconducibili all'attività delle associazioni di stampo camorristico denominate "clan dei casalesi" e "clan degli acerrani", aggravato ai sensi dell'art. 7 d.l. n. 152 del 1991, conv. dalla legge n. 203 del 1991, per avere commesso il fatto al fine di agevolare il sodalizio camorristico denominato "clan dei casalesi"; in relazione a tale condotta, il ricorrente veniva indicato, insieme con Mirko Ponticelli e Antonio Barbato, quale soggetto referente diretto del "clan dei casalesi" e, in particolare, di Carmine Schiavone e Nicola Schiavone, capi e reggenti dell'omonima famiglia, al vertice del sodalizio (capo 1);
- concorso nell'intestazione fittizia di società (artt.110, 81 cpv. cod. pen., 12-quinquies d.l. n. 306 del 1992, conv. dalla legge n. 356 del 1992) al fine di eludere le disposizioni in materia di misure di prevenzione patrimoniale, di sequestro preventivo e confisca dei beni frutto di reimpiego di capitali illeciti, aggravato ai sensi dell'art. 7 d.l. n. 152 del 1991, per avere commesso il fatto con le modalità previste daIl'art. 416-bis cod. pen e al fine di agevolare il sodalizio camorristico denominato "clan dei casalesi" (capo 5);
- partecipazione, con ruolo di promotore ed organizzatore, ad un'associazione per delinquere finalizzata alla cessione di sostanze stupefacenti del tipo eroina e cocaina (artt. 74, commi 1, 2, 3, 4, d.P.R. n. 309 del 1990); con l'ulteriore aggravante di cui all'art. 7 d.l. n. 152 del 1991, per avere commesso il fatto al fine di agevolare il sodalizio camorristico denominato "clan dei casalesi" (capo 6);
- acquisto, detenzione e cessione, in concorso con altri, di cinque chili di sostanza stupefacente di qualità non precisata (art. 110 cod. pen., 73 d.P.R. n. 309 del 1990); con l'aggravante di cui all'art. 7 d.l. n. 152 del 1991, per avere commesso il fatto al fine di agevolare il sodalizio camorristico denominato "cIan dei casalesi" (capo 10).
2. Il 30 aprile 2013 il Tribunale di Napoli, costituito ai sensi dell'art. 309 cod. proc. pen., rigettava, limitatamente ai capi 1 e 5 dell'imputazione provvisoria, la richiesta di riesame proposta da Mario Iavarazzo tramite il difensore di fiducia.
Dichiarava, con riguardo ai reati di cui agli artt. 74 e 73 d.P.R. n. 309 del 1990 (capi 6 e 10), l'incompetenza territoriale del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli e disponeva la trasmissione degli atti alla Direzione Distrettuale antimafia presso il Tribunale di Bologna, ravvisando la competenza dell'autorità giudiziaria di Rimini.
3. Il Tribunale, dopo avere ricostruito la genesi della vicenda processuale - riconducibile alle indagini finalizzate alla cattura del latitante Sigismondo Di Puorto, imputato dei delitti di associazione di stampo camorristico ed estorsione - illustrava gli elementi d'indagine (contenuto delle intercettazioni telefoniche e ambientali; dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Salvatore Laiso, Giuseppe Pagano, Giampiero Siciliano, Enrico Chierchiello, Raffaele Piccolo, Roberto Vargas, Massimo Venosa; dichiarazioni rese dalle persone informate sui fatti e dalle parti offese del delitto di cui all'art. 629 cod. pen. Michel Burgagni, Elena Shchegoleva; acquisizioni documentali) che integravano il quadro di gravità indiziaria nei confronti di Iavarazzo.
Ad avviso dei giudici del riesame, le risultanze investigative delineavano l'operatività del "clan dei casalesi", la relativa struttura associativa e organizzativa, i settori di attività controllati, i rilevanti profitti acquisiti mediante la gestione dei videopoker, alla vendita sul mercato estero di autovetture di grossa cilindrata acquistate in leasing e non pagate, alle estorsioni soprattutto in danno dei cantieri, cui veniva imposto l'acquisto di prodotti trattati da|l'organizzazione in regime di monopolio.
Le ingenti somme di denaro ricavate grazie alle suddette attività illecite, poste in essere in un ambito territoriale compreso tra le Marche, l'Emilia Romagna, la Repubblica di San Marino, venivano poi reimpiegate tramite una società (Fincapital s.p.a.), avente ad oggetto l'erogazione di credito al consumo.
Alla stregua della contestazione contenuta nel capo 1, Mario Iavarazzo e gli altri correi, "non avendo concorso nel delitto presupposto di cui all'art. 416-bis cod. pen.", si occupavano di reimpiegare ingenti capitali (pari ad almeno cinque milioni di euro, provento del delitto di associazione per delinquere di stampo camorristico) in quote della Fincapital s.p.a nella loro qualità di «soggetti referenti diretti di Schiavone Carmine e Nicola, capi e reggenti della famiglia Schiavone al vertice del "clan dei casalesi" e delegati a sovraintendere e dirigere l'attività di reimpiego e riciclaggio di patrimoni illeciti del predetto clan›> (testualmente in tal senso il capo 1 deIl'incolpazione provvisoria). I capitali venivano restituiti solo in parte al clan dagli amministratori della Fincapital s.p.a., mediante la cessione di un aliud pro alio e, in particolare, di un'autovettura Ferrari modello Scaglietti (di valore stimato non inferiore a trecentomila euro), e di cinque unità abitative situate nel comune di Montegrimano Terme, di proprietà della Imcapital s.r.l. (società immobiliare partecipata dalla Fincapital s.p.a.), anch'essa intestata a persone riconducibili al gruppo camorristico dei "casalesi".
L'ulteriore descrizione della condotta di reimpiego di capitali illeciti ascritta a Mario Iavarazzo (capo 1) conteneva il riferimento al suo ruolo di «esponente del clan dei casalesi» che si occupava, tra l'altro, dell'amministrazione della Publione s.a.s, destinataria di molteplici pagamenti, erogati a titolo di restituzione del capitale illecito investito in Fincapital s.p.a. dal suddetto sodalizio di stampo camorristico.
L'ordinanza del Tribunale di Napoli individuava proprio nel ricorrente Iavarazzo (oltre che negli altri due indagati Ponticelli e Barbato), l'esponente dell'organizzazione camorristica preposto alla direzione dell'attività di reimpiego e di riciclaggio del patrimonio illecito (f. 23 dell'ordinanza impugnata). In un altro passaggio motivazionale si osservava testualmente: "Iavarazzo Mario è [...] l'esponente dei casalesi, fazione Schiavone, preposto al controllo degli investimenti dei capitali provenienti dalla cassa del sodalizio» (f. 50). "Egli è inserito stabilmente e organicamente nella struttura organizzativa dell'associazione camorristica denominata "clan dei casalesi" e [...] prende parte alla stessa, ponendo in essere le condotte dinamiche e funzionalistiche contestategli, allineate all'effettivo ruolo e ai compiti affidatigli, per consentire al sodalizio il perseguimento dei suoi scopi" (f. 52).
Secondo l'impostazione accusatoria, le attività di reimpiego dei capitali illeciti venivano svolte, oltre che da Iavarazzo, da numerose altre persone, tra cui Francesco Vallefuoco, incaricato di fungere da referente del clan camorristico "degli acerrani", federato con quello dei "casalesi", e da emissario e fautore delle alleanze con quest'ultimo clan per l'attività di reimpiego dei capitali illeciti presso operatori finanziari operanti nella Repubblica di San Marino e nelle Marche e incaricato di verificare la redditività degli investimenti provento della illecita attività di svolgimento dell'associazione camorristica sia per conto del "clan dei casalesi" che per conto del gruppo degli "acerrani" (cfr. capo 1). Nelle attività illecite di reimpiego erano coinvolti anche altri prestanome di società riferibili interamente al gruppo camorristico dei "casalesi" o della Fincapital s.p.a., funzionali alle diverse condotte di reimpiego con corresponsione di utili ai gruppi criminali, nonché liberi professionisti (un avvocato e un notaio, alcuni assicuratori) che avevano il compito di porre in essere le operazioni legali idonee a realizzare gli scopi illeciti di reimpiego e di fornire, in generale, ausilio legale alle parti per consentire l'occultamento delle partecipazioni camorristiche nelle società e procurare il passaggio ai clan dei beni frutto del reimpiego dei capitali illeciti.
Il problema della configurabilità del concorso fra i delitti di cui all'art. 648- ter cod. pen. e quello di cui all'art. 416-bis cod. pen., nei casi in cui il reimpiego riguardi beni o utilità provenienti proprio dal delitto di associazione mafiosa, non veniva espressamente affrontato dal Tribunale, che, sul punto, operava un rinvio alle argomentazioni contenute nel provvedimento applicativo della misura cautelare personale, ritenute condivisibili. Secondo l'ordinanza applicativa della misura, il reato previsto dall'art. 648-ter cod. pen. non è configurabile quando la condotta di reimpiego riguardi denaro, beni o altra utilità, la cui provenienza illecita trova fonte nell'attività costitutiva dell'associazione mafiosa ed è rivolta ad associato cui quell'attività sia concretamente attribuibile (Sez. 6, n.25633 del 24/5/2012, Schiavone, Rv. 253010).
Il 28 novembre 2011 il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli emetteva nei confronti di Iavarazzo ed altri coindagati, nell'ambito di un diverso procedimento penale (denominato "il principe"), ordinanza di custodia cautelare in carcere in ordine al delitto di partecipazione ad associazione per delinquere di stampo camorristico- reato presupposto, fonte dei proventi illeciti - così formulato;
"a) [...] 110, 416-bis, I, II, III, IV, V, VI e VIII comma, cod. pen., perché, nella consapevolezza della rilevanza causale del proprio apporto, partecipavano - ovvero fornivano da concorrenti esterni al sodalizio, uno stabile e rilevante contributo - ad una associazione di tipo mafioso denominata "clan dei Casalesi", promossa, diretta ed organizzata, prima, da Bardellino Antonio (anni 1981- 1988), poi, da Francesco Schiavone di Nicola, da Francesco Bidognetti, da Iovine Mario e da De Falco Vincenzo (1988-1991), poi dai soli Francesco Schiavone di Nicola e da Francesco Bidognetti, infine da Guida Luigi, Setola Giuseppe, Schiavone Francesco di Luigi, Schiavone Nicola di Francesco e Zagaria Michele, anche in accordo con Bidognetti Francesco e Schiavone Sandokan (detenuti rispettivamente dalla fine del 1993 e dall'estate del 1998) che, operando sull'intera area della provincia di Caserta ed altrove, si avvale della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento ed omertà che ne deriva, per la realizzazione dei seguenti scopi: il controllo delle attività economiche, anche attraverso la gestione monopolistica di interi settori imprenditoriali e commerciali; il rilascio di concessioni e di autorizzazioni amministrative; l'acquisizione di appalti e servizi pubblici; l'illecito condizionamento dei diritti politici dei cittadini (ostacolando il libero esercizio del voto, procurando voti a candidati indicati dall'organizzazione in occasione di consultazioni elettorali) e, per tale tramite, il condizionamento della composizione e delle attività degli organismi politici rappresentativi locali; il condizionamento delle attività delle amministrazioni pubbliche, locali e centrali; ilreinvestimento speculativo in attività imprenditoriali, immobiliari, finanziarie e commerciali degli ingenti capitali derivanti dalle attività delittuose, sistematicamente esercitate (estorsioni in danno di imprese affidatarie di pubblici e privati appalti e di esercenti attività commerciali, traffico di sostanze stupefacenti, truffe in danno della C.E.E., usura ed altro); assicurare impunità agli affiliati attraverso il controllo, realizzato anche con la corruzione, di organismi istituzionali; l'affermazione del controllo egemonico sul territorio realizzata anche attraverso la contrapposizione armata con organizzazioni criminose rivali [...]; il conseguimento, infine, per sé e per gli altri affiliati di profitti e vantaggi ingiusti [...]. In particolare, Russo Massimo, latitante, Russo Antonio, Capasso Maurizio, Iavarazzo Mario, Martino Giuliano e Capasso Salvatore partecipavano al gruppo camorrista con compiti operativi nel settore delle estorsioni, del reinvestimento dei proventi illeciti, dei rapporti con il mondo politico, veicolando sul territorio ed eseguendo gli ordini provenienti dai congiunti detenuti [...]. In provincia di Caserta, a partire dall'anno 2000 (per il solo Russo dal 2005) con condotta perdurante».
Il Tribunale del riesame, nel menzionare questo secondo provvedimento limitativo della libertà personale emesso nei confronti di Iavarazzo, argomentava che la contestazione del reato di associazione di stampo camorristico, formulata nell'ambito del separato procedimento penale, non era ostativa alla configurabilità del delitto di reimpiego di capitali illeciti, oggetto della presente procedura, avuto riguardo al peculiare ruolo attribuito a Iavarazzo e agli altri correi, indicati non quali capi, promotori, reggenti del "clan dei casalesi" e di quello alleato dei Mariniello, bensì quali meri esecutori di direttive altrui.
5. Con riferimento ai rapporti tra i delitti di ricettazione (art. 648 cod. pen.), riciclaggio (art. 648-bis cod. pen.), reimpiego (art. 648-ter cod. pen.), il Tribunale osservava che le tre fattispecie sono accomunate dalla provenienza dei beni da delitto e si distinguono sotto il profilo soggettivo: la ricettazione richiede solo il dolo di profitto, mentre i reati previsti dagli artt. 648-bis e 648-ter cod. pen. richiedono la specifica finalità di far perdere le tracce dell'origine illecita; il delitto di cui all'art. 648-ter cod. pen. richiede, inoltre, che l'attività di reimpiego avvenga mediante l'impiego delle risorse di origine illecita in attività economiche o finanziarie. Pertanto il delitto di reimpiego è in rapporto di specialità con il delitto di riciclaggio e questo, a sua volta, con il reato di ricettazione (Sez. 2, n. 18103 del 10/01/2003, Sirani, Rv. 224394; Sez. 4, n. 6534 del 23/03/2000, Ascieri, Rv. 216733). La clausola di riserva contenuta nell'art. 648-ter cod. pen. comporta che tale disposizione non trovi applicazione nei casi di concorso nel reato presupposto e nelle ipotesi in cui risultino realizzate fattispecie diricettazione e riciclaggio. Il criterio d'interpretazione letterale dell'art. 648-ter cod. pen. deve essere integrato mediante canoni ermeneutici di tipo logico- sistematico alla cui stregua è possibile affermare che rientrano nell'ambito dell'art. 648-ter cod. pen. le condotte "poste in essere, con unità di determinazione finalistica originaria, dai soggetti che hanno sostituito o ricevuto denaro allo scopo di impiegarlo in attività economiche o finanziarie» (f. 51 ordinanza impugnata). Il criterio discretivo tra riciclaggio e reimpiego di capitali è, quindi, costituito dalla molteplicità ovvero dalla unicità di condotte e dalle sottese determinazioni volitive. Pertanto, se un soggetto sostituisce denaro di provenienza delittuosa con altro denaro ovvero altre utilità e poi impiega i proventi derivanti da tale operazione in attività economiche o finanziarie, la condotta così realizzata integra il delitto di riciclaggio (art. 648-bis cod. pen.), attesa la clausola di sussidiarietà contenuta nell'art.648-ter. Per converso, qualora il denaro di provenienza illecita sia direttamente impiegato in attività economiche o finanziarie, tale condotta integra il reato previsto dall'art. 648-ter cod. pen. Alla stregua di questa impostazione esegetica, le condotte contestate a Iavarazzo integrano, ad avviso del Tribunale, gli elementi costitutivi del delitto di reimpiego di capitali illeciti (art. 648-ter cod. pen.).
6. Avverso la suddetta ordinanza ricorre l'avv. Giuseppe Stellato, difensore di fiducia di Iavarazzo, che formula le seguenti censure.
Deduce violazione di legge e difetto di motivazione con riferimento al mancato accoglimento dell'eccezione preliminare di improcedibilità in relazione al reato di reimpiego di capitali illeciti (art. 648-ter cod. pen.). Evidenzia, in proposito, la sostanziale identità dei fatti contestati a Iavarazzo nei due distinti procedimenti penali. Il ricorrente risulta, infatti, contemporaneamente indagato per il reato di cui all'art.416-bis cod. pen. (con l'aggravante prevista dal sesto comma di tale disposizione) in un procedimento (denominato "il principe") non ancora definito, con l'accusa di avere partecipato ad un'associazione di stampo camorristico i cui proventi illeciti sono oggetto della contestazione di reimpiego ex art. 648-ter cod. pen., formulata nell'ambito della presente procedura.
Quanto al rilievo in base al quale il Tribunale del riesame aveva ritenuto compatibili le due contestazioni, la difesa rileva che dall'ordinanza applicativa della misura cautelare personale in ordine al delitto previsto dall'art. 416-bis cod. pen. (per il quale è in corso il giudizio abbreviato) si evince che Iavarazzo era un soggetto associato con compiti anche nel settore del reinvestimento dei capitali illeciti, stante il tenore del riferimento specifico contenuto nel capo d'imputazione relativo al capo sub a); "[...] Russo Massimo, latitante, Russo Antonio, Capasso Maurizio, Iavarazzo Mario, Martino Giuliano e Capasso Salvatore partecipavano al gruppo camorrista con compiti operativi nel settore delle estorsioni, del reinvestimento dei proventi illeciti, dei rapporti con il mondo politico, veicolando sul territorio ed eseguendo gli ordini provenienti dai congiunti detenuti».
Atteso che dalla lettera dell'art. 648-ter cod. pen. e, in particolare, dalla clausola di riserva in essa contenuta si evince che l'ordinamento esclude la sussistenza di ipotesi di autoriciclaggio, il reato in esame non è configurabile, quando la contestazione del reimpiego abbia ad oggetto denaro, beni o utilità provento del delitto di associazione di stampo camorristico ed essa sia riferita ad un soggetto che sia associato al medesimo gruppo sodalizio, specificamente dedito a tali attività di reinvestimento dei proventi delittuosi. Non è, quindi, ravvisabile un concorso tra il delitto presupposto ed il successivo reimpiego del provento dello stesso.
Il ricorrente, nel denunciare l'assenza di motivazione specifica sulla questione da parte del Tribunale del riesame, osserva che le argomentazioni sviluppate dal Giudice per le indagini preliminari (richiamate dal Tribunale) si fondano su un'interpretazione contra legem nella parte in cui si osserva che la clausola di sussidiarietà contenuta nell'art. 648-ter cod. pen. non si applica a coloro che, come Iavarazzo, hanno una posizione non apicale all'interno dell'organizzazione ex art. 416-bis cod. pen.
Il ricorrente lamenta, inoltre, violazione di legge e difetto di motivazione con riferimento ai canoni di valutazione della prova in ordine ai delitti di reimpiego (art. 648-ter cod. pen.) e di trasferimento fraudolento di valori (art. 12- quinquies d.l. n. 306 del 1992), entrambi aggravati ai sensi dell'art. 7 d.l. n. 152 del 1991. Osserva, in proposito, che non sono stati acquisiti elementi dimostrativi della sussistenza degli elementi costitutivi dei reati contestati e di un qualsiasi coinvolgimento specifico dell'indagato nelle condotte delittuose. il provvedimento impugnato non specifica in alcun modo le condotte asseritamente poste in essere da Iavarazzzo, le operazioni di reimpiego a lui riconducibili, il ruolo effettivamente avuto nella consumazione degli illeciti.
Denuncia, inoltre, difetto di motivazione in relazione alla contestata aggravante dell'art. 7 del d.l. n.152 del 1991.
Da ultimo lamenta violazione di legge e difetto di motivazione con riguardo alle esigenze cautelari, che non sono state oggetto di compiuta illustrazione nel provvedimento impugnato, oltre che nell'ordinanza genetica.
7. La Prima Sezione penale, cui il ricorso era stato assegnato ratione materiae, registrata l'esistenza di un contrasto di giurisprudenza sul tema centrale che ha formato oggetto del ricorso, con ordinanza del 1° ottobre 2013 (depositata il successivo 28 novembre), ha rimesso il ricorso medesimo alle Sezioni Unite, a norma dell'art. 618 cod. proc. pen.
7.1. L'ordinanza di rimessione osserva che, nella giurisprudenza della Suprema Corte, esistano due orientamenti interpretativi.
Il primo indirizzo, parte dalla considerazione che tra il delitto di riciclaggio e quello di associazione per delinquere non esiste alcun rapporto di "presupposizione" e non opera la clausola di riserva ("fuori dei casi di concorso nel reato") che qualifica la disposizione incriminatrice del delitto di riciclaggio dei beni provenienti dall'attività associativa. Pertanto, il concorrente nel reato associativo può essere chiamato a rispondere del delitto di riciclaggio dei beni provenienti dall'attività associativa sia quando il delitto presupposto sia da individuare nei delitti-fine attuati in esecuzione del programma criminoso dell'associazione (Sez. 2, n. 44138 del 08/11/2007, Rappa, Rv. 238311; Sez. 2, n. 40793 del 23/09/2005, Cardati, Rv. 232524; Sez. 2, n. 10582 del 14/02/2003, Bertolotti, Rv. 223689) sia quando il delitto presupposto sia costituito dallo stesso reato associativo di per sé idoneo a produrre proventi illeciti, rientrando tra gli scopi dell'associazione anche quello di trarre vantaggi o profitti da attività economiche lecite per mezzo del metodo mafioso (Sez. 1, n. 1439 del 27/11/2008, Benedetti, Rv. 242665). Sulla stessa linea, Sez. 1, n.
40354 del 27/05/2011, Calabrese, Rv. 251166; Sez. 2, n. 27292 del 04/06/2013, Aquila, Rv. 255712.
Tali principi opererebbero anche con riguardo al delitto previsto dall'art. 648-ter cod. pen.
In base al secondo indirizzo, una volta che il delitto associativo di tipo mafioso sia ritenuto potenzialmente idoneo a costituire il reato presupposto dei delitti di riciclaggio e di illecito reimpiego, non sono ravvisabili ragioni ermeneutiche per escludere anche per esso l'operatività della cosiddetta clausola di riserva "fuori dei casi di concorso nel reato", contenuta negli artt. 648-bis e 648-ter cod. pen. (Sez. 6, n. 25633 del 24/05/2012, Schiavone, Rv. 253010).
7.2. Alla luce del rilevato contrasto, la Prima Sezione penale, nel rimettere il ricorso alle Sezioni Unite, ha così formulato la questione di diritto: "Se sia configurabile il delitto di `riciclaggio' previsto dall'art. 648-ter cod. pen. nei confronti di un imputato al quale sia stato contestato anche il delitto previsto dall'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., nel caso in cui il reimpiego riguardi capitali provenienti dalla attività illecita svolta dalla stessa associazione mafiosa di appartenenza".
8. Con decreto del 14 dicembre 2013, il Primo Presidente ha disposto l'assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, così riformulando il quesito di diritto: "Se sia configurabile il concorso tra i delitti di cui agli artt. 648-bis o 648- ter cod. pen. e quello di cui all'art. 416-bis cod. pen., quando la contestazione di riciclaggio o reimpiego riguardi beni o utilità provenienti proprio dal delitto di associazione mafiosa".
Per la trattazione del ricorso è stata fissata l'odierna udienza in camera di consiglio.

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