Lotta alla corruzione: prospettive di riforma a soli due anni dalla legge 190/2012
Lotta alla corruzione: come l'Europa ci guarda e come si tenta di migliorare l'impianto normativo.

Il 23 dicembre scorso è stato presentato alla Camera un corposo disegno di legge rubricato “riforma della prescrizione, delle pene per la corruzione, dell’udienza preliminare, del regime delle impugnazioni e altro ancora”. Il testo è il frutto del lavoro svolto dalla Commissione Ministeriale di studio sulle possibili riforme del codice di procedura penale (istituita dal Ministero della Giustizia nel giugno del 2013) presieduta dal Dr. Giovanni Canzio, oltre che di quello dei gruppi ministeriali di studio per una proposta di revisione del sistema penale di cui è a capo il Prof. Antonio Fiorella e, infine, del progetto elaborato da un’altra commissione di studi per la riforma del codice di procedura penale del Prof. Giuseppe Riccio. Un’opera monumentale di riforma, quindi, vista l’ampiezza e la delicatezza dei temi da affrontare, nella quale si prospettano novità anche in materia di corruzione a distanza di poco più di due anni dall’entrata in vigore della L. 190/2012 che ha modificato incisivamente il sistema.
Sappiamo, tuttavia, che nel nostro Paese il tema della corruzione è quanto mai attuale e scottante, anche alla luce della recentissima cronaca giudiziaria e dello scandalo che ha colpito il governo della capitale, e sappiamo anche quali conseguenze in termini di credibilità internazionale (e prima ancora europea) questa condizione comporti.
Nella Relazione dell’Unione sulla lotta alla corruzione, presentata a Bruxelles il 3 febbraio 2014, da un lato viene delineato un quadro di generale apprezzamento per gli sforzi fatti dal nostro Paese, non solo per l’adozione della nuova legge anticorruzione, ma anche per la ratifica a giugno del 2013 della convenzione penale e della convenzione civile sulla corruzione del Consiglio d’Europa.
D’altro canto, tuttavia, si legge che la nuova normativa ha lasciato irrisolti una serie di problemi, quali la disciplina sulla prescrizione, la normativa penale sul falso in bilancio e sull’autoriciclaggio e la mancata introduzione di fattispecie di reato che puniscano il voto di scambio. Il nuovo testo, inoltre, avrebbe il demerito di frammentare le disposizioni su concussione e corruzione e non prevedrebbe sufficienti misure adatte a reprimere la corruzione in ambito privato, né tutele adeguate per il dipendente pubblico che segnala illeciti.
Analizzando punto per punto le critiche che l’Unione muove all’Italia, non si può che essere d’accordo sulla buona volontà di una riforma fin troppo attesa ma che, tuttavia, non ha avuto il coraggio o la capacità di affrontare alla radice profili essenziali per la repressione del fenomeno corruttivo.
La legge 190/2012 anzitutto modifica incisivamente il sistema dei delitti di corruzione, mantenendo pressoché inalterato l’art. 319 c.p., ovvero la corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio, ma sostituendo alla vecchia disciplina della corruzione c.d. impropria una nuova ipotesi di corruzione per l’esercizio della funzione (nuovo art. 318 c.p.), meno gravemente sanzionata, che punisce la condotta del pubblico ufficiale che riceve per sé o per altri la promessa o la dazione di denaro o altra utilità per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri.
Viene, poi, introdotto, di seguito al millantato credito rimasto immutato, un nuovo art. 346bis rubricato “traffico di influenze illecite” e riferito alla condotta di chi, fuori dei casi di concorso nella corruzione, indebitamente fa dare o promettere, per sé o per altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico agente per remunerarlo, in relazione a un fatto contrario ai doveri d’ufficio. La riforma del 2012 ha così delineato un sistema per così dire a scalare, partendo dall’ipotesi di minore offensività, ovvero la nuova figura di traffico di influenze illecite, punita con la reclusione da uno a tre anni, che mira a colpire le condotte di soggetti privati che creano il pericolo che dei pubblici agenti siano effettivamente corrotti e quindi il pericolo effettivo di asservimento della pubblica amministrazione ad interessi privati. Al livello intermedio si colloca la inedita fattispecie di corruzione per l’esercizio delle funzioni, punita con la reclusione da uno a cinque anni, che prevede il pericolo di una effettiva distorsione dell’attività amministrativa che potrebbe aversi nell’ipotesi in cui l’agente pubblico, riconoscente ai benefici del privato, gli restituisca il favore compiendo un atto contrario ai doveri del proprio ufficio, a beneficio appunto del privato. Al vertice della scala si pone, infine, la corruzione propria, punita più gravemente rispetto al passato con la reclusione da quattro a otto anni, contraddistinta dalla compravendita dell’atto contrario ai doveri d’ufficio e, quindi, dall’effettiva distorsione dell’azione amministrativa a beneficio del privato.
Per effetto della riforma si ha un generale inasprimento del trattamento sanzionatorio per entrambe le forme di corruzione, la possibilità di autorizzare intercettazioni di comunicazioni in fase di indagine, di disporre la misura della custodia cautelare in carcere, nonché un allungamento a dieci anni del termine di prescrizione per la corruzione propria, in ragione dell’innalzamento del massimo edittale. Si registrano, tuttavia, anche i limiti della nuova normativa che non consente l’utilizzo di intercettazioni e di custodia cautelare per il delitto di influenze illecite, peraltro, insieme al delitto di corruzione per l’esercizio di funzioni, soggetto al termine prescrizionale di sette anni e mezzo, di norma insufficiente per la formazione di un giudicato di condanna. Più in generale la nuova figura criminosa di traffico di influenze illecite, anche nelle ipotesi in cui si riesca ad arrivare ad una pronuncia di condanna prima dello spirare del termine di prescrizione, risulta sanzionato in maniera quasi irrisoria, se si considera che la pena della reclusione al di sotto dei tre anni sarà destinata ad essere eseguita con misure alternative alla detenzione, dal minimo contenuto afflittivo, come ad esempio l’affidamento ai servizi sociali.
I problemi più gravi della riforma, tuttavia, hanno riguardato la concussione, nonostante le numerose sollecitazioni internazionali ad eliminare questa anomalia, peculiare solo all’Italia, che rendeva non punibile il privato che paga il pubblico ufficiale per ottenere da lui un vantaggio, quando apparisse che il primo fosse stato costretto o indotto a tale pagamento versando in una situazione di svantaggio o soggezione psicologica da parte del pubblico agente. La scelta del legislatore del 2012 è stata quella di un pavido compromesso che mantiene in vigore la figura della concussione, ridotta però alla sola modalità commissiva e ristretta dal punto di vista del soggetto attivo al solo pubblico ufficiale (con un’ingiustificata esclusione quindi dell’incaricato di pubblico servizio). Per rispondere alle spinte internazionali viene introdotto il nuovo art. 319quater c.p., ovvero l’induzione indebita a dare o promettere utilità, caratterizzato dalla modalità commissiva dell’induzione e della punibilità sì anche del privato ma con un quadro edittale assolutamente più favorevole rispetto a quello previsto per il pubblico agente. L’esito finale è che fatti che nella quasi totalità degli ordinamenti internazionali contemporanei vengono considerati come inequivocabili ipotesi di corruzione, in Italia vengono qualificati come induzione indebita, attraverso il criterio – avallato anche dalla Corte di Cassazione – della soggezione psicologica del privato rispetto al pubblico funzionario, con conseguente assoggettamento del privato a regimi sanzionatori lievissimi e spesso vanificati dal maturare della prescrizione.
In questo quadro si innesta un nuovo tentativo di riforma della corruzione, seppure non nei termini generali e organici del legislatore del 2012, che mira innanzitutto ad un inasprimento del trattamento sanzionatorio per il delitto di cui all’art. 319 c.p., sostituendo l’attuale forbice edittale che prevede la reclusione da quattro a otto anni, con una nuova cornice da sei a dodici anni. Secondo la relazione della Commissione ministeriale la scelta otterrebbe il risultato di allungare il termine di prescrizione, di evitare che i procedimenti possano essere definiti con il rito del patteggiamento e di rendere residuali le ipotesi di concessione di benefici quali la sospensione condizionale della pena. Vengono, altresì, proposte l’introduzione:
- della c.d. confisca allargata già applicabile anche con riguardo ai delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione;
- di una specifica preclusione in ordine alla possibilità che la giustificazione della legittima provenienza dei beni si fondi sulla disponibilità di denaro provento o reimpiego di evasione fiscale;
- dell’ipotesi in cui si prevede che i terzi, titolari formali dei beni sequestrati di cui l’imputato risulti avere la disponibilità a qualsiasi titolo, debbano essere citati nel processo di cognizione al fine di garantire la tutela dei loro diritti di difesa;
- della confisca allargata anche in caso di estinzione del reato per prescrizione, amnistia o morte del condannato verificatesi successivamente alla pronuncia di condanna in uno dei gradi di giudizio.
Seppure le proposte di riforma siano certamente da salutare con favore, non basteranno alla risoluzione delle molteplici problematiche e criticità che la materia della corruzione presenta anche successivamente alla riforma del 2012. È la stessa Unione Europea a segnalare cifre preoccupanti quando – citando quale fonte la nostra Corte dei Conti – ci ricorda che i costi diretti totali della corruzione ammontano a circa 60 miliardi di Euro all’anno, pari circa al 4% del PIL nazionale.
Oltre a quelli già elencati, restano aperti problemi legati al lobbismo che la normativa italiana non disciplina neppure indirettamente e al whistleblowing, ovvero alla segnalazione degli illeciti. Se per la prima volta la riforma del 2012 introduce disposizioni volte alla tutela del dipendente pubblico che denuncia fatti di corruzione, queste disposizioni hanno carattere generico e non esaustivo, giacché non coprono tutti gli aspetti della segnalazione o tutti i tipi di tutela da concedere, restando, inoltre, del tutto escluso il settore privato.
Pur nell’apprezzamento degli sforzi finora profusi, non si può, dunque, che condividere l’invito che proviene dall’Europa e che dovrebbe informare i futuri e auspicabili interventi di riforma, ovvero:
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il rafforzamento del regime di integrità per le cariche elettive e di governo centrali e locali, con l’adozione di codici di comportamento completi e sanzioni dissuasive in caso di violazione, evitando l’adozione di leggi ad personam e regolando il piano attuativo e giuridico del finanziamento pubblico ai partiti;
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giungere a colmare le lacune in tema di prescrizione dei reati (anche escludendo le istanze di appello dai termini di prescrizione) e l’adozione di norme più efficaci sulla sospensione e l’interruzione;
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estendere i poteri e sviluppare la capacità dell’autorità nazionale anticorruzione (CIVIT) in modo che possa efficacemente svolgere funzioni ispettive anche in ambito regionale e locale;
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rendere più trasparenti gli appalti pubblici prima e dopo l’aggiudicazione.
Avv. Francesca Fioretti