Migliorie alla casa coniugale a spese del marito: in caso di separazione, niente rimborso

Le migliorie apportate da un coniuge alla casa familiare, di proprietà esclusiva dell’altro, rientrano nei bisogni della famiglia e non sono ripetibili. Cassazione Sentenza n. 10942/15

- di Avv. Marcella Ferrari
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Migliorie alla casa coniugale a spese del marito: in caso di separazione, niente rimborso

La Suprema Corte si è più volte trovata a rispondere al seguente quesito: le somme investite da uno degli sposi nella ristrutturazione della casa familiare, una volta cessato il rapporto di coniugio, sono ripetibili?

Prima di affrontare il tema centrale della presente disamina occorre una premessa.
Quando interviene la separazione personale tra i coniugi si scioglie anche la comunione legale, vale a dire il regime patrimoniale legale della famiglia (art. 191 c. 1 c.c.).
La legge dispone che ciascun coniuge sia tenuto a rimborsare all’altro le somme prelevate dal patrimonio comune ed impiegate per fini diversi dal soddisfacimento dei bisogni familiari (art. 192 c.c.). In particolare, con il sintagma “bisogni familiari” si fa riferimento alle spese per il mantenimento della famiglia, per l’istruzione e l’educazione dei figli, oltre che per ogni obbligazione contratta, anche separatamente, nell’interesse della famiglia (art. 186 c.c. lett. c). Del pari, l’art. 192 c. 3 c.c. ammette il diritto al rimborso delle spese impiegate nel patrimonio comune e prelevate dal patrimonio personale. Vediamo ora come si applicano queste norme nel caso in cui, durante il matrimonio, uno degli sposi abbia apportato migliorie, addizioni e finanche ristrutturazioni alla casa familiare allorché essa sia di proprietà esclusiva di uno solo di loro.

La giurisprudenza più recente1 esclude l’esistenza di un diritto del coniuge non proprietario del bene ad ottenere un’indennità per i lavori eseguiti a proprie cure e spese2. Infatti, secondo il percorso argomentativo seguito dai giudici di legittimità, le opere per le quali si chiede il rimborso sono, in realtà, «finalizzate a rendere più confacente alle esigenze della famiglia l'abitazione messa a disposizione» da uno dei due coniugi ed impiegata come casa comune; pertanto, le spese sostenute da uno di essi devono ritenersi compiute per il soddisfacimento dei bisogni familiari. Inoltre, si precisa che qualora l'effettuazione della spesa oggetto del contendere sia avvenuta in adempimento dell'obbligo di contribuzione ex art. 143 c.c. non sussiste il diritto al rimborso3. Invero, secondo altra giurisprudenza4, nel caso in cui tali esborsi abbiano aumentato il valore patrimoniale dell’immobile del coniuge esclusivo proprietario, l’altro coniuge ha il diritto ad un equo indennizzo, ai sensi dell’art. 1150 c.c., quale compossessore (nel caso dell’altrui piena proprietà).5
Orbene, al lume di quanto sin qui esposto, emerge come sia necessario realizzare un contemperamento tra due diverse norme: da una parte l’art. 143 c.c. che impone l’irripetibilità degli esborsi effettuati e dall’altro l’art. 1150 c.c. che ammette il diritto del possessore al rimborso per le riparazioni, miglioramenti ed addizioni eseguiti.

Le pronunce più recenti hanno ritenuto prevalente il dovere di contribuzione materiale ex art. 143 c.c. ed hanno tralasciato l’applicazione delle norme afferenti allo scioglimento della comunione, come il sopra citato art. 192 c. 3 c.c. il quale, invece, parrebbe ammettere la ripetizione degli esborsi avvenuti in costanza di matrimonio. La preminenza dell’art. 143 c.c. sulle altre norme è da ravvisarsi nel regime patrimoniale primario ed inderogabile, giustificato dal principio solidaristico. Infatti, da una parte la moglie ha messo a disposizione il proprio immobile e dall’altra il marito ha destinato delle somme al suo miglioramento. Pertanto, alla luce di ciò, gli importi personali investiti per il soddisfacimento di un bisogno comune perderebbero il connotato di personalità necessario al fine di ottenere la loro ripetizione. Si ritiene, dunque, sussistente una sorta di presunzione di destinazione delle somme impiegate per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia. Nondimeno qualora una parte dimostri che vi sia stato un ingiusto arricchimento dell’altra, la prima ha il diritto di ottenere una cifra pari all’incremento di valore arrecato all’immobile ai sensi dell’art. 1150 c.c., in materia di possesso. Il coniuge non proprietario dell’abitazione, infatti, ne è compossessore e, se di comune accordo con l’altro ha apportato delle migliore, ha titolo per ottenerne un’indennità corrispondente all’aumento di valore conseguito per effetto dei miglioramenti (art. 1150 c. 3 c.c.).
In conclusione, al coniuge-non proprietario non spetta l’integrale restituzione delle somme versate, ma una mera indennità da valutarsi alla luce dei parametri indicati dall’art. 1150 c.c., purché dimostri che tali esborsi non siano avvenuti per il mero soddisfacimento di un interesse familiare.

Avv. Marcella Ferrari
Avvocato del Foro di Savona

 

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1 In tal senso, Corte Cass. 17 settembre 2004, n. 18749; da ultimo vedasi Corte Cass., Sez. I, 27 maggio 2015, n. 10942.

2 Nella fattispecie concreta oggetto della sentenza 10942/2015 sopra richiamata, il marito, non proprietario dell’immobile, aveva realizzato su di esso interventi edilizi grazie ai quali si era ricava una sola unità abitativa dai due appartamenti contigui esistenti in origine; egli, inoltre, aveva finanziato il rifacimento degli impianti di riscaldamento e di impermeabilizzazione, la sostituzione dei pavimenti ed altro ancora. In buona sostanza, si trattava di un cospicuo intervento migliorativo – che aveva incrementato il valore dell’abitazione – e per il quale la Suprema Corte non gli ha riconosciuto alcuna indennità.

3 In tal senso vedasi Corte Cass. 17 settembre 2004 n. 18749. Nel caso esaminato dalla citata pronuncia del 2004 la Corte aveva escluso il diritto della moglie alla ripetizione delle somme impiegate per la ristrutturazione della villa di proprietà esclusiva del marito, in quanto espressione di partecipazione alle esigenze del nucleo familiare.

4 Corte Cass. 26 maggio 1995, n. 5866; Corte Cass. 9 giugno 2009, n. 13259; Tribunale Modena 13 aprile 2012, n.623.

5 In tal senso vedasi Tribunale Modena 13 aprile 2012, n. 623 che ha giudicato su di una fattispecie in cui la moglie era nuda proprietaria dell’abitazione e la suocera usufruttuaria. In quel caso, non trattandosi di piena proprietà, il marito era mero detentore e non poteva applicarglisi l’art. 1150 c.c. (norma eccezionale e non estensibile analogicamente) ma l’art. 2041 cc. in tema di arricchimento senza causa.

 

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Di seguito il testo di
Corte Cassazione Sentenza n. 10942 del 27/05/2015:

 

Svolgimento del processo

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