Piero Calamandrei e la Costituzione
Il prof. Piero Calamandrei e la Costituzione. Discorso sulla Costituzione agli studenti di Milano del 26 gennaio 1955, altri scritti e reperti video
Intervento all'Assemblea Costituente 4 marzo 1947 seduta pomeridiana - parte 1
Piero Calamandrei
INTERVENTO
ALL'ASSEMBLEA COSTITUENTE
4 marzo 1947, seduta pomeridiana
Presidente. È iscritto a parlare l'onorevole Calamandrei. Ne ha facoltà.
Calamandrei. Onorevoli colleghi, parlare in quest'aula con quei banchi vuoti dà un senso di disagio. Non c'è il Governo; non si può dir male del Governo...
Una voce. È quello che manca.
Calamandrei. Pare quindi che ci manchino i temi di conversazione...
Ma, d'altra parte, questo dà anche un certo senso di serenità, e direi quasi di raccoglimento familiare.
D'ora in avanti le invettive, le polemiche, le contumelie saranno riservate alle sedute antimeridiane. Nelle sedute pomeridiane potremo parlare tranquillamente, in una atmosfera in cui non si tratterà di criticare un progetto presentato dal Governo e di votargli contro per arrivare a farlo respingere; ma saremo, invece, qui a fare una specie di esame di coscienza, poiché, in sostanza questo progetto di costituzione, sul quale siamo chiamati a discutere, esce da noi, è creato da noi, non dal Governo. Le critiche che noi rivolgeremo ad esso saranno critiche rivolto a noi stessi; dovranno dunque essere, critiche costruttive. È una specie di esame di maturità, che la democrazia deve dare attraverso questa Costituzione. Dobbiamo tutti quanti industriarci a far sì che questo esame, se non con pieni voti e lode, sia almeno approvato con pieni voti legali.
Ora, onorevoli colleghi, se noi leggiamo questo progetto con quest'animo di critica positiva, di critica costruttiva, di critica accompagnata sempre dalla proposta che tende a suggerire il meglio, dobbiamo, alla prima lettura riconoscere che esso non è un esempio di bello scrivere: manca di stile omogeneo, direi quasi che manca di qualsiasi stile.
Voi ricorderete certamente che nel 1801 Ugo Foscolo, il capitano Ugo Foscolo, fu incaricato dal Ministero della guerra della Repubblica Cisalpina di preparare un progetto di Codice penale militare; e di questo progetto egli fece la relazione introduttiva col titolo di «Idee generali del lavoro», nella quale egli si proponeva, testualmente, di compilare tutta l'opera «in uno stile rapido, calzante, conciso, che non lasci pretesto all'interpretazione delle parole, osservando che assai giureconsulti grandi anni e assai tomi spesero per commentare leggi confusamente scritte. Si baderà ancora a una religiosa esattezza della lingua italiana»
Ecco: questo progetto di Costituzione si sente che non è stato scritto da Ugo Foscolo...
Ma questa è una questione di secondaria importanza.
Si troverà sempre qui e fuori di qui = e probabilmente il nostro Presidente Ruini ci avrà già pensato = chi riesca a dare una forma più «pulita e finita a questo progetto ancora grezzo. Noi abbiamo già nei lavori preparatori della Costituzione esempi di equilibrio e di armonia stilistica. Basti ricordare la bella, equilibrata, armoniosa relazione scritta dal nostro Presidente Ruini; e non bisogna dimenticare = proprio è doveroso in questa prima seduta di discussioni sulla Costituzione = non bisogna dimenticare anche, tra i precedenti di questo progetto, i vari volumi, e specialmente il primo, dei lavori della Commissione di studio costituita dal Ministero della Costituente, che sono veramente un esempio di chiarezza e di compitezza, il cui merito risale principalmente a quel grande giurista, a quel grande maestro di diritto pubblico, a cui mando un saluto in questo momento, che è il professor Ugo Forti, Presidente di quella Commissione. Ma, vedete, questa mancanza di stile, questa eterogeneità di favelle che si ravvisa in molte disposizioni di questo progetto, non è soltanto una questione di forma: è anche una questione di sostanza. Deriva dal modo con cui questo progetto è nato; questo progetto, come voi sapete, non è nato di getto, tutto insieme; non è stato concepito in maniera armonica, unitaria. Il lavoro di questo progetto si è dovuto svolgere necessariamente nell'interno di diverse Sottocommissioni e delle sezioni di esse, e di più ristretti Comitati; in tante piccole officine, in tanti piccoli laboratori, ciascuno dei quali ha preparato uno o più pezzi di questo progetto.
Questi vari pezzi sono stati portati poi al Comitato di coordinamento e lì la macchina è stata rimontata nel suo insieme, soprattutto per le intelligenti cure del Presidente Ruini; e solamente oggi qui per la prima volta la possiamo vedere messa in ordine e valutarla nella sua interezza e coglierne certe disarmonie ed accorgerci che i vari pezzi non hanno tutti lo stesso stile. Ci sono in questi ingranaggi ruote di legno e ruote di ferro, pezzi di veicoli ottocenteschi e congegni di motore da aeroplano. C'è confusione di stili e di tempi: e sta a noi qui, in questa discussione introduttiva e in quelle che continueranno sulle varie parti del progetto, di ridare a questo meccanismo, correggendone i difetti, le contraddizioni e le disformità, quell'armonia che oggi esso sembra non presentare in maniera uniforme.
Le osservazioni che io farò avranno tutte quante carattere generale. Esse cercheranno appunto di contribuire a tale riesame complessivo del meccanismo costituzionale, che oggi si presenta tutto insieme. E se mi avverrà, in questa disamina dei suoi caratteri generali e del metodo con cui esso è stato concepito, di citare qualche articolo, e di ricordare qualche questione concreta, sui quali poi si dovrà tornare nella discussione speciale, ciò avverrà soltanto a scopo di esempio, per illustrare certi caratteri generali del progetto, dei quali cercherò qui di cogliere gli aspetti più tipici e più rilevanti.
Le ragioni fondamentali di questa impressione di eterogeneità che il progetto dà in qualche sua parte derivano, come voi sapete, da due cause storiche, che sono state ripetutamente citate durante le nostre discussioni.
La prima è questa: che questo progetto di Costituzione non è l'epilogo di una rivoluzione già fatta; ma è il preludio, l'introduzione, l'annuncio di una rivoluzione, nel senso giuridico e legalitario, ancora da fare. E la seconda ragione è quest'altra: che sugli scopi, sulle mete, sul ritmo di questa rivoluzione ancora da fare, i componenti di questa Assemblea, i componenti della Commissione dei 75, i componenti delle singole Sottocommissioni, non erano e non sono d'accordo. Vedete, io ho sentito ricordare anche poco fa da un collega di questa Assemblea, col quale conversavo, lo Statuto albertino. Lo Statuto albertino fu fatto in un mese, dal 3 febbraio ai 4 marzo 1848. Diceva quel collega: «Guardate come era semplice e sobrio; ed ha servito a governare l'Italia per quasi un secolo. E qui è tra poco un anno che lavoriamo e ancora non siamo riusciti, come appare da questa apparenza ancora confusa e grezza del progetto, a preparare qualche cosa che si avvicini per concisione a quello Statuto». Ma l'esempio non calza; perché lo Statuto albertino fu una carta elargita da un sovrano il quale sapeva fino a che punto voleva arrivare; i suoi collaboratori, coloro che furono incaricati da lui di redigere quello Statuto, sapevano perfettamente quello che il sovrano voleva: non avevano da far altro che tradurre in articoli di legge le istruzioni già dosate da quell'unica volontà di cui lo Statuto doveva essere espressione.
Per questo il paragone non calza; perché invece qui, in questa Assemblea, non c'è una sola volontà, ma centinaia di libere volontà, raggruppate in diecine di tendenze, le quali non sono d'accordo su quello che debba essere in molti punti il contenuto di questa nostra Carta costituzionale; sicché essere riusciti, nonostante questo, a mettere insieme, dopo otto mesi di lavoro assiduo e diligente, questo progetto, è già una grande prova, molto superiore a quella che fu data dai collaboratori di Carlo Alberto, in quel mese di lavoro semplice e tranquillo che essi poterono agevolmente compiere sulla guida data loro dal sovrano al quale obbedivano.
Un altro esempio che si è citato è quello della Costituzione russa, specialmente della Costituzione staliniana del 1936. Si dice: «Vedete come in quella Costituzione tutto è preciso; quei diritti sociali che sono affermati in quella Costituzione, trovano in ogni articolo, in un apposito comma, la specifica indicazione dei mezzi pratici che ogni cittadino può esperimentare per ottenere la soddisfazione concreta di quei diritti».
Ma anche qui il paragone non calza; perché la Costituzione russa del 1936 ha dietro di sé una rivoluzione già fatta. È molto semplice, quando è avvenuto un rinnovamento fondamentale, una rivoluzione, insomma, di carattere sociale, in cui le nuove istituzioni sociali vivono già nella realtà, in cui la nuova classe dirigente è già al suo posto, prendere atto di questa realtà e tradurre in formule giuridiche questa realtà. I giuristi vengono, buoni ultimi, a mettere i loro cartellini, le loro definizioni su una realtà sociale che vive già per suo conto.
È molto facile trovarsi d'accordo nel dare, a cose fatte, queste definizioni e queste formule. Noi invece ci troviamo qui non ad un epilogo, ma ad un inizio. La nostra rivoluzione ha fatto una sola tappa, che è quella della Repubblica; ma il resto è tutto da fare, è tutto nell'avvenire.
Proprio per questo, noi ci siamo trovati ad avere una Costituzione che ha gli stessi caratteri del Governo, quantunque il Governo in questo momento sia assente in quest'aula. È una Costituzione tripartitica, di compromesso, molto aderente alle contingenze politiche dell'oggi e del prossimo domani: e quindi poco lungimirante.
Indubbiamente, nel progetto di Costituzione vi è una parte positiva. Ma è inutile che io vi parli di essa: è inutile che stiamo qui a farci complimenti fra noi, compiacendoci di quella parte buona e proficua di lavoro che abbiamo compiuto.
La parte positiva della nuova Costituzione, voi lo sapete, si chiama Repubblica, si chiama sovranità popolare, si chiama sistema bicamerale, si chiama autonomia regionale, si chiama Corte costituzionale. Tutto questo è chiaro. Sono istituti che potranno essere perfezionati nei particolari, ma insomma, su questi punti, in cui i tre partiti che costituiscono il nucleo di questa Assemblea si sono trovati d'accordo, il lavoro è stato facile ed è stato fecondo. Vi è però la parte negativa, quella in cui i partiti non sono riusciti a trovarsi d'accordo con sincerità nella sostanza: ed è questa la parte che, secondo me, pecca di genericità, di oscurità, di sottintesi. Molte volte si sente che si è cercato di girare le difficoltà, anziché affrontarle, di mascherare il vuoto con frasi messe per figura. Ognuno ha cercato insomma, nella discussione degli articoli, di togliere la paroletta altrui che gli dava noia. Chi ha partecipato alla discussione delle Commissioni sa che molte volte, per una parola, si è discusso intere giornate; e che in questa contesa di correnti diverse, più che cercare di far prevalere la propria tesi, tutti hanno cercato d'impedire che prevalessero le tesi degli avversari.
È un po' successo, agli articoli di questa Costituzione, quello che si dice avvenisse a quel libertino di mezza età, che aveva i capelli grigi ed aveva due amanti, una giovane e una vecchia: la giovane gli strappava i capelli bianchi e la vecchia gli strappava i capelli neri; e lui rimase calvo. Nella Costituzione ci sono purtroppo alcuni articoli che sono rimasti calvi. (Ilarità).
Ora, vedete, colleghi, io credo che in questo nostro lavoro sopratutto ad una meta, noi dobbiamo, in questo spirito di familiarità e di collaborazione cercare di ispirarci di avvicinarci. Ricordate il famoso motto di Silvio Spaventa, da cui nacquero le sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato: «giustizia nell'Amministrazione». Il nostro motto dovrebbe esser questo: «chiarezza nella Costituzione».
Varie parti di questo progetto non hanno quella chiarezza cristallina che dovrebbe riescire a far capire esattamente che cosa si è voluto dire con questi articoli, quali sono le mete verso le quali si è voluto muovere con quelle disposizioni. Si riaffaccia qui la questione che è stata già sollevata oggi dai due precedenti oratori, e che si può chiamare la questione del preambolo, già sorta davanti alla Commissione dei settantacinque. Voi sapete che nella nostra Costituzione, ad articoli che consacrano veri e propri diritti azionabili, coercibili, accompagnati da sanzioni, articoli che disciplinano e distribuiscono poteri e fondano organi per esercitare questi poteri, si trova commista una quantità di altre disposizioni vaghe, che si annidano specialmente fra l'articolo 23 e l'articolo 44 (rapporti etico-sociali e rapporti economici), le quali non sono vere e proprie norme giuridiche nel senso preciso e pratico della parola, ma sono precetti morali, definizioni, velleità, programmi, propositi, magari manifesti elettorali, magari sermoni: che tutti sono camuffati da norme giuridiche, ma norme giuridiche non sono.
Allora, davanti ai Settantacinque già si sollevò questa questione. E si ricordò allora che in altre costituzioni sorte dopo l'altra guerra, in quella di Weimar, in quella della Repubblica spagnola, furono inseriti accanto ai diritti politici di libertà risalenti alla rivoluzione francese, questi nuovi diritti che si sogliono ormai denominare «diritti sociali» ma ci si accorse, poi che essi lasciarono inalterata la realtà sociale, nella quale essi non avevano rispondenza.
L'enunciazione dei cosiddetti «diritti sociali» non ebbe nessun risultato pratico, come la storia di questo ventennio ha dimostrato: sicché parrebbe per noi più prudente, invece di travestire questi desideri e questi programmi in apparenze normative, collocarli tutti quanti in un preambolo nel quale sia detto chiaramente che queste proposizioni non sono ancora, purtroppo, norme obbligatorie, ma sono propositi che la Repubblica pone a sé stessa, per trovare in essi la guida della legislazione futura.
Quando io feci questa infelice proposta (dico infelice perché dei Settantacinque mi pare che ricevesse soltanto il voto dei rappresentanti del Partito d'Azione che, come sapete, non sono molti) (Ilarità), quando io feci questa proposta, mi furono fatte due obiezioni: una di carattere strettamente giuridico, dal collega e amico Mortati, il quale mi disse che anche queste norme di carattere programmatico possono avere il loro significato giuridico, perché rappresentano impegni che il legislatore prende per l'avvenire, direttive e limiti alla legislazione futura; e quindi non si può dire che si tratti di disposizioni giuridicamente irrilevanti, perché anche esse hanno la loro efficacia giuridica.
Questo argomento del collega Mortati non mi convinse molto, almeno per certe disposizioni, troppo vaghe e generiche per costituire un qualsiasi impegno. Ma, allora, chi seppe trovare le vie del mio cuore fu l'onorevole Togliatti, il quale capì che il miglior modo per convincere un fiorentino è quello di citargli qualche verso di Dante. Togliatti mi disse che noi preparatori della Costituzione, dobbiamo fare «come quei che va di notte, = che porta il lume dietro e a sé non giova, = ma dopo sé fa le persone dotte».
Non dobbiamo curarci della attuazione immediata di queste pseudo norme giuridiche contenute in questo progetto: dobbiamo pensare ai posteri, ai nipoti, e consacrare quei principi che saranno oggi soltanto velleità e desideri, ma che tra venti, trenta, cinquanta anni diventeranno leggi. Dobbiamo così illuminare la strada a quelli che verranno.
Ho ripensato molto a questi versi di Dante e mi sono pentito di essermi lasciato troppo sedurre dalla poesia, non solo perché = come mi suggerisce un collega che mi interrompe = anche Stalin, citato dal presidente Ruini nella sua relazione, afferma che le costituzioni non possono essere programmi per il futuro; non solo perché non è stato felice l'esperimento fatto dalla «carta del lavoro» e dalla «carta della scuola» che, anch'esse, non erano leggi, ma direttive per le leggi future = ma soprattutto per un'altra ragione, che è la seguente. Ammettiamo, cioè che in una Costituzione si possano utilmente inserire principi precisi per la legislazione futura, che siano veramente lumi, capaci di rivelare un sentiero verso l'avvenire. Ma se io leggo nel progetto di Costituzione il testo di queste norme che dovrebbero avere una siffatta efficacia illuminante mi accorgo che in molte di esse è assai difficile rendersi conto esattamente della direzione verso la quale esse tendono; è assai difficile che in questi lumi i nostri posteri possano trovare un sicuro orientamento.
Prendo l'articolo 1 che dice questa bellissima cosa: «La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro». È una bellissima frase; ma io che sono giurista = questa d'altronde è la mia professione ed ognuno di noi bisogna che porti qui la sua esperienza e le sue attitudini, perché è proprio da questa varietà di attitudini e di esperienze che deriva la ricchezza e la pienezza di questa Assemblea = io come giurista mi domando: quando dovrò spiegare ai miei studenti che cosa significa giuridicamente che la Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro, che cosa potrò dire?
Dovrò forse dire che in Italia la massima parte degli uomini continueranno a lavorare come lavorano ora, che ci saranno coloro che lavorano di più e coloro che lavorano di meno, coloro che guadagnano di più e coloro che guadagnano di meno, coloro che non lavorano affatto e che guadagnano più di quelli che lavorano? Oppure questo articolo vorrà dire qualche cosa di nuovo, vorrà essere un avviamento che ci porti verso qualche cosa di nuovo? Mi accorgo allora che c'è un altro articolo, il 31, il quale dice che la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto. Ma c'è anche un dovere del lavoro, e infatti il capoverso dice che ogni cittadino ha il dovere ai svolgere un'attività: dunque diritto di lavorare ma anche dovere di lavorare. Debbo pensare che si voglia con ciò imitare quell'articolo della costituzione russa, nel quale è scritto il principio che chi non lavora non mangia? Ma se leggo più attentamente questo capoverso dell'articolo 31, vedo che esso dice precisamente così: «ogni cittadino ha il dovere di svolgere un'attività (e fin qui si intende che parla di lavoro) o una funzione che concorra allo sviluppo materiale o spirituale della società, conformemente alle proprie possibilità e alla propria scelta...» Dunque c'è chi svolge un'attività e c'è chi svolge una funzione. Questa funzione può essere anche una funzione spirituale; sta bene: ammetto che quella dei religiosi sia effettivamente una funzione sociale. Ma io penso a qualche altra cosa; penso agli oziosi, penso a coloro che vivono di rendita, a coloro che vivono sul lavoro altrui. Nella Repubblica italiana, dove c'è il dovere di compiere un'attività o una funzione, coloro che vivono senza lavorare o vivono alle spalle altrui, saranno ammessi come soggetti politici? Ho paura di sì: ho paura che saranno ammessi e che essi diranno che il vivere senza lavorare, il vivere di rendita, non sarà un'attività, ma è certamente una funzione. (Si ride). E siccome ognuno può dedicarsi, dice l'articolo, alla funzione che meglio corrisponde alle proprie possibilità e alla propria scelta, essi hanno preferito la funzione di non lavorare, e quindi hanno pieno diritto di cittadinanza nella Repubblica Italiana... Si noti che in quest'articolo c'è un ultimo capoverso il quale dice che «l'adempimento di questo dovere è condizione per l'esercizio dei diritti politici»; ora questo è un capoverso che non corrisponde a verità: quale è infatti la sanzione di questo capoverso? Per l'esercizio dei diritti politici non è detto affatto in nessun altro articolo, né in nessuna legge elettorale, che sia condizione l'esercizio di un'attività o di una funzione. Ecco intanto qui una di quelle disposizioni in cui a ben guardare si annida una... (come la devo chiamare?) sì, una bugia; perché non è vero che l'adempimento di questo dovere sia condizione per l'esercizio dei diritti politici.
Ma vi è di più. Quando si va a vedere, in materia economica, quali siano queste direttive le quali dovrebbero servire di guida e di lume per coloro che verranno dopo di noi, si incontrano numerosi articoli in cui sono commiste tendenze diverse e contraddittorie.