La sindrome di alienazione parentale
La sindrome di alienazione parentale: l'evoluzione della giurisprudenza e la sentenza n. 6919 dell'8 aprile 2016 Corte di Cassazione
Evoluzione della giurisprudenza e la sentenza n. 6919 dell'8 aprile 2016 - Parte II
Da segnalare, anche per l’importante richiamo agli insegnamenti della Corte EDU, è il decreto del Tribunale per i Minorenni di Napoli del 1 aprile 2014, intervenuto in merito ad una annosa disputa giudiziaria per l’affidamento di un minore che aveva manifestato una patente avversione nei confronti della figura paterna, in ciò sospinto dalla condotta alienante della madre. Rifacendosi ai principi espressi nella sentenza della Corte EDU del 29.01.2013 (Lombardo c. Italia, r. n. 25704/2011) chiamata a pronunciarsi su una caso analogo, caratterizzato da sentimenti di avversione del figlio minore maturati nei confronti del genitore non affidatario, i giudici hanno sottolineato come i comportamenti auspicabili per facilitare lo sviluppo della vita familiare sono infungibili, né possono essere pretesi come adempimento di prescrizioni, richiedendo l’adesione degli interessati alle finalità perseguite dalla decisione. In tal senso, dunque, l’istituto dell’ascolto del minore deve essere considerato lo strumento chiave in materia, posto che il bambino non è un mero oggetto della potestà dei genitori e/o del potere officioso del giudice di individuarne e tutelarne gli interessi preminenti, ma un soggetto autonomo di diritto, titolare di un ruolo sostanziale e processuale autonomo. Alla luce di ciò, il Tribunale riteneva di dover confermare l’affidamento esclusivo alla madre, “con previsione di incontri con il padre rimessi al desiderio e alla volontà della minore che non può essere costretta con statuizioni dall’alto che si sono rivelate sterili se non addirittura controproducenti” e con prescrizione per il coniuge affidatario di partecipare alla soluzione del conflitto con il padre. I giudici di Napoli, inoltre, pronunciandosi sulla richiesta formulata dal padre ex art. 709 ter c.p.c.1, in ragione della accertata e reiterata condotta della madre, decidevano di ammonirla e di condannarla al risarcimento del danno non patrimoniale cagionato alla minore, nonché al padre. Lo strumento offerto dall’art. 709 ter c.p.c., infatti, secondo l’interpretazione fornita dal Tribunale per i minorenni di Milano (sentenza n. 529 del 14.6.2012) e ripresa dai giudici partenopei, è idoneo a salvaguardare il rapporto equilibrato tra il minore e i suoi genitori, proprio a tutela del diritto alla bigenitorialità, “essendo nota la difficoltà di eseguire coattivamente i provvedimenti nella materia relativa alle relazioni familiari, ma lasciando ampia discrezionalità al giudice sia sulla scelta del trattamento sanzionatorio, fornendo diversi strumenti alternativi, sia sulla necessità o meno di disporre sanzioni”.
Sulla base dei principi espressi dalla Cassazione nel 2013, si registra anche la netta chiusura del Tribunale di Milano che, con decreto del 13 ottobre 2014, dichiara l’inammissibilità di accertamenti istruttori in ordine alla PAS, “in quanto la c.d. sindrome di alienazione genitoriale è priva di fondamento, sul piano scientifico, così come si appura dallo sfoglio della letteratura scientifica di settore (…), e il comportamento che sia alienante può dunque rilevare sotto altri e diversi profili ma non come patologia del minore (non comprendendosi, peraltro, perché se litigano i genitori, gli accertamenti diagnostici debbano essere condotti su chi il conflitto lo subisce e non su chi lo crea”.
La pronuncia resa da ultimo dalla Suprema Corte (Sezione I Civile, sentenza 16 febbraio – 8 aprile 2016, n. 6919) interviene finalmente a far chiarezza sul dibattito circa la rilevanza giuridica e processuale degli accertamenti della sindrome da alienazione genitoriale, costituendo un vero punto di svolta in materia.
Il caso riguarda il conflitto per l’affidamento di una bambina, la quale, dopo la fine della convivenza tra i genitori, con decreto del Tribunale per i minorenni di Milano, era stata collocata presso la madre e affidata ad entrambi i genitori, con incarico ai servizi sociali di monitorare la situazione. A causa del grave atteggiamento di rifiuto mostrato dalla minore nei confronti del padre, il Tribunale, con un successivo provvedimento, vietò a quest’ultimo di frequentare la figlia, prescrivendo alla minore – sotto la supervisione della madre – di intraprendere un percorso psicoterapeutico volto al recupero del rapporto con il padre e ad entrambi i genitori di rivolgersi ai servizi sociali per un sostegno al ruolo genitoriale. Tutte le istanze del padre, volte a dimostrare l’esistenza di una sindrome da alienazione parentale determinata da una campagna di denigrazione promossa a suo danno dalla madre con richiesta di nuovi accertamenti peritali, venivano rigettate dal Tribunale per i Minorenni, a mente del quale il disagio manifestato dalla giovane nei confronti del genitore sarebbe stato determinato da alcuni comportamenti posti in essere da quest’ultimo e percepiti come invadenti della propria intimità e individualità.
Sul reclamo proposto dal padre avverso tali decreti, la Corte d’Appello di Milano confermava sul punto quanto già stabilito dal Tribunale.
L’uomo proponeva ricorso per Cassazione deducendo la violazione e falsa applicazione dell’art. 155 c.c. (come sostituito dall’art. 337 ter c.c.), rilevando in particolare la violazione del principio di bigenitorialità, ovvero del diritto del minore ad avere un rapporto equilibrato con entrambi i genitori. Tale rapporto sarebbe stato impedito dal comportamento della madre che aveva ostacolato con ogni mezzo la relazione padre-figlia, fomentando un astio ingiustificato. Asseriva che tale situazione aveva determinato una lesione del diritto alla propria vita familiare tutelata dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e che la Corte milanese avrebbe omesso di effettuare il compimento di indagini specifiche volte ad individuare l’esistenza della sindrome da alienazione parentale, con ciò palesando una posizione ingiustificatamente negazionista che avrebbe precluso la tutela dei suoi diritti di padre e dei diritti della figlia. I giudici di merito, secondo il ricorrente, non avrebbero indagato sulle cause del rifiuto manifestato dalla figlia nei suoi confronti, né avrebbero adottato misure specifiche rivolte al recupero del rapporto, posto che gli interventi terapeutici prescritti sarebbero stati persino dannosi per lo stato psicofisico della minore.
La Corte dichiara il motivo sia ammissibile che fondato, così enunciando due fondamentali principi di diritto.
Il primo di essi è proprio l’ammissibilità del motivo e la possibilità di ricorrere per cassazione avverso il provvedimento impugnato. Secondo la Corte, infatti, non venendo in discussione un contenzioso in materia di limitazione della potestà genitoriale, bensì un atto disciplinante le modalità di affidamento di un minore figlio di genitori separati, per effetto dell’entrata in vigore del D. Lgs. N. 154/2013 – che ha definitivamente eliminato ogni differenza connessa alla celebrazione del matrimonio tra i genitori rispetto ai diritti dei figli – al predetto decreto non può negarsi la valenza di provvedimento aventi i caratteri della decisorietà e difinitività, con la conseguenza che ne è consentita l’impugnazione ex art. 111 Cost., avendo un’efficacia assimilabile rebus sic stantibus a quella del giudicato.
Il motivo, a parere della Corte, è altresì fondato, giacché la motivazione della Corte d’Appello appare sia insufficiente che perplessa e apparente e, dunque, censurabile. I giudici di merito, infatti, hanno disposto l’interruzione della frequentazione del padre con la figlia in ragione della indisponibilità e avversione manifestata dalla ragazza, basandosi esclusivamente sulle conclusioni finali del consulente d’ufficio, il quale aveva escluso la configurabilità della PAS. L’adesione della Corte d’Appello a tali conclusioni, sulla cui base è stato deciso l’allontanamento del padre dalla vita della figlia, è stata dunque acritica e non ha tenuto in considerazione le censure avanzate dal ricorrente e trascritte nel ricorso per cassazione. Tanto più che le stesse si fondavano su elementi emersi nel corso dei giudizi e dei rilievi svolti dal consulente del primo grado, il quale aveva rilevato come il comportamento della madre limitasse di fatto la relazione tra padre e figlia. Sottolinea in tal senso la Corte come già in precedenza aveva avuto modo osservare che il giudizio prognostico che il giudice deve operare nel preminente interesse della prole, vada formulato anche sulla base del modo in cui i genitori abbiano svolto il proprio ruolo e delle rispettive capacità di relazione affettiva, fermo in ogni caso il rispetto del principio della bigenitorialità. Tra i requisiti di idoneità genitoriale vi è senza dubbio anche la capacità di riconoscere le esigenze affettive del figlio, che si individuano anche nella capacità di preservargli la continuità delle relazioni genitoriali. La Cassazione, dunque, ripercorse le tappe del doppio grado di giudizio e riscontrati tutti gli elementi qualificanti la sindrome da alienazione parentale, esprime il principio secondo cui “non compete a questa Corte dare giudizi sulla validità o invalidità delle teorie scientifiche e, nella specie, della controversa PAS, ma è certo che i giudici di merito non hanno motivato sulle ragioni del rifiuto del padre da parte della figlia e sono venuti meno all’obbligo di verificare, in concreto, l’esistenza dei denunciati comportamenti volti all’allontanamento fisico e morale del figlio minore dall’altro genitore. Il giudice di merito a tal fine può utilizzare i comuni mezzi di prova tipici e specifici della materia (incluso l’ascolto del minore) e anche le presunzioni (desumendo eventualmente elementi anche dalla presenza, laddove esistente, di un legame simbiotico e patologico tra il figlio e uno dei genitori). Tali comportamenti, qualora accertati, pregiudicherebbero il diritto del figlio alla bigenitorialità e, soprattutto, alla sua crescita equilibrata e serena”.
La Corte si spinge, inoltre, a chiarire il compito affidato al giudice di merito di fornire una risposta adeguata alle molteplici problematiche connesse alla concreta esplicazione del diritto alla bigenitorialità, richiamando gli insegnamenti espressi dalla Corte EDU (caso Lombardo c. Italia, che si rinviene anche nel decreto del Tribunale per i minorenni di Napoli sopra citato). Nel caso di comportamenti ripetuti negli anni e non efficacemente corretti, la Corte Europea aveva condannato l’Italia per la violazione dell’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo perché lo stato si era rivelato inadeguato alla risoluzione del caso concreto limitandosi a replicare provvedimenti stereotipati invece di adottare misure specifiche per il ripristino della collaborazione tra i genitori e del rapporto tra padre e figlia. Osserva la Corte – con ciò definitivamente ponendo fine ad ogni sterile controversia in merito alla utilizzabilità e riconoscibilità giuridica di una fattispecie comportamentale esistente e verificabile indipendentemente dalla sua codificazione scientifica – che l’assenza di collaborazione tra i genitori in conflitto e soprattutto “l’atteggiamento ostile del genitore collocatario nei confronti dell’altro che impedisca di fatto al minore di frequentarlo, comporta una grave violazione del diritto del figlio al rispetto della vita familiare e non dispensa le autorità nazionali dall’obbligo di ricercare ogni mezzo efficace al fine di garantire il diritto del minore di frequentare adeguatamente e tempestivamente entrambi i genitori”.
Il principio di diritto enunciato dalla Corte è, dunque, quello per cui, nel caso in cui vi sia la denuncia da parte di un genitore di comportamenti dell’altro genitore tendenti all’allontanamento morale e materiale dalla prole (PAS), il giudice di merito è tenuto ad accertare la veridicità dei fatti utilizzando tutti i comuni mezzi di prova in materia, incluse le presunzioni, e a fornire una motivazione adeguata “a prescindere dalla validità scientifica della suddetta patologia, tenuto conto che tra i requisiti di idoneità genitoriale rileva anche la capacità di preservare la continuità delle relazioni parentali con l’altro genitore, a tutela del diritto del figlio alla bigenitorialità e alla crescita equilibrata e serena”.
Posto che non è compito del giudice – neppure di quello delle leggi – stabilire la validità scientifica della sindrome da alienazione parentale, è comunque indubbio che le condotte comportamentali descritte da Gardner, ove effettivamente accertate, siano foriere di danni gravissimi per la salute psichica e il benessere dei minori oltre che del diritto alla bigenitorialità; in tal senso è, dunque, compito imprescindibile dell’autorità giudiziaria effettuare ogni accertamento utile alla verifica dei fatti prospettati, proprio perché gli effetti prodotti dalla sindrome e il loro perdurare nel tempo – magari in assenza di efficaci soluzioni giurisdizionali – rappresentano una inaccettabile violazione del diritto del minore ad una serena crescita.
Avv. Francesca Fioretti
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1 Art. 709 ter, c.p.c.: Per la soluzione delle controversie insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della potestà genitoriale o delle modalità dell’affidamento è competente il giudice del procedimento in corso. Per i procedimenti di cui all’art. 710 è competente il tribunale del luogo di residenza del minore. A seguito del ricorso, il giudice convoca le parti e adotta i provvedimenti opportuni. In caso di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento, può modificare i provvedimenti in vigore e può, anche congiuntamente:
1) ammonire il genitore inadempiente;
2) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti del minore;
3) disporre il risarcimento dei danni a carico di uno dei genitori, nei confronti dell’altro;
4) condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di 75 euro a un massimo di 5.000 euro a favore della Cassa delle ammende. I provvedimenti assunti dal giudice del procedimento sono impugnabili nei modi ordinari.
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