Cassazione Penale, Sezioni Unite, 18 settembre 2014 n. 38343

Cassazione Penale, Sezioni Unite, 18 settembre 2014 (ud. 24 aprile 2014), n. 38343 - Sentenza Thyssenkrupp - criteri di demarcazione tra dolo eventuale e colpa cosciente, responsabilità amministrativa della società

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I ricorsi e relativi motivi di impugnazione

 

Cassazione Penale, Sezioni Unite, 18 settembre 2014  n. 38343

 

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE PENALI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SANTACROCE Giorgio - Presidente - Dott. FERRUA Giuliana - Consigliere - Dott. SQUASSONI Claudia - Consigliere - Dott. CONTI Giovanni - Consigliere - Dott. VECCHIO Massimo - Consigliere - Dott. ROTUNDO Vincenzo - Consigliere - Dott. BLAIOTTA Rocco M - rel. Consigliere - Dott. DIOTALLEVI Giovanni - Consigliere - Dott. VESSICHELLI Maria - Consigliere
ha pronunciato la seguente:

sentenza

sui ricorsi proposti dagli imputati:

1. E.H., nato a (OMISSIS);

2. P.M., nato a (OMISSIS);

3. Pr.Ge., nato a (OMISSIS);

4. M.D., nato a (OMISSIS);

5. S.R., nato a (OMISSIS);

6. C.C., nato a (OMISSIS);

nonchè dal:

7. Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Torino, nei confronti dei predetti imputati;

nonchè da:

8. ThyssenKrupp A.S.T. s.p.a., quale responsabile civile e quale ente responsabile ex D.Lgs. n. 231 del 2001 avverso la sentenza del 28/02/2013 della Corte di assise di appello di Torino;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;

udita la relazione svolta dal componente Dott. Rocco Marco Blaiotta;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell'Avvocato generale Dott. DESTRO Carlo, che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi del Pubblico ministero, degli imputati e di ThyssenKrupp A.S.T. s.p.a.

quale ente responsabile ex D.Lgs. n. 231 del 2001 e per l'accoglimento del ricorso di ThyssenKrupp A.S.T. s.p.a. quale responsabile civile nei confronti della parte civile associazione Medicina Democratica, con annullamento senza rinvio su tale ultimo capo;

udito per la parte civile l'avv. Ramondini Gian Mario, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso del responsabile civile;

uditi gli avvocati Zaccone Cesare per la ThyssenKrupp A.S.T. s.p.a., Giordanengo Guglielmo e Dassano Francesco per C., Anglesio Maurizio per M. e S., Coppi Franco per E., Gaito Alfredo per M., Alleva Guido Carlo per P. e Pr. e Sommella Paolo per S., che hanno concluso per l'accoglimento dei rispettivi ricorsi e per il rigetto del ricorso del P.m., nonchè, quanto all'avv. Gaito, in subordine, per il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia sul tema della traduzione in lingua italiana degli atti formati lingua straniera.

Svolgimento del processo

1. Il fatto.

La sentenza in esame riguarda un evento disastroso verificatosi poco dopo la mezzanotte del (OMISSIS) nello stabilimento (OMISSIS) della ThyssenKrupp acciai speciali Terni s.p.a. (TKAST).

La TKAST con sede e stabilimento maggiore in Terni è una tra le società controllate dalla holding Thyssen Krupp AG (TKAG), organismo con struttura piramidale che si occupa di vari settori: uno di essi è la produzione dell'acciaio e la relativa sub-holding è la Tyssen Krupp Stainless (TKL). TKL controlla diverse società nazionali tra le quali TKAST. Nella sede (OMISSIS) avevano luogo solo le fasi a freddo del ciclo produttivo: la laminazione, la ricottura e il decapaggio. Enormi rotoli di acciaio allo stato grezzo venivano dapprima fatti passare tra i cilindri del laminatoio; indi sottoposti alla fase di ricottura, trattamento termico in forno finalizzato a restituire al metallo le caratteristiche originarie; infine avviati alla procedura di decapaggio tramite immersione in vasche contenenti sostanze acide, al fine di conferire lucentezza e perfezione estetica al prodotto.

Il sinistro si è verificato nell'ambito della linea dello stabilimento denominata APL5 dedicata alle fasi di ricottura e decapaggio. La struttura era lunga oltre 200 metri, larga circa 12, alta circa 9, si sviluppava su due piani ed aveva una configurazione ad omega.

I rotoli provenienti dalla fase di laminazione giungevano intrisi di olio trattenuto tra le spire e nella apposita carta di separazione (carta interspira). La bobina veniva sistemata su apposita struttura (aspo svolgitore) ed avanzava, srotolandosi, lungo la linea. La lavorazione implicava la collocazione della bobina sul perno dell'aspo, curando che l'asse mediano del rotolo fosse allineato all'asse mediano del perno o mandrino. La centratura era operazione importante e manuale. Dopo che il nastro era stato imboccato, era previsto l'azionamento del pulsante "aspo in centro" che comandava l'allineamento automatico dell'asse dell'aspo medesimo con quello dell'impianto. Apposita lampadina segnalava all'operaio l'avvenuto allineamento. L'operazione aveva il fine di evitare che il nastro, avanzando, sfregasse contro le sponde dell'impianto. Il corretto posizionamento era segnalato da fotocellula. Per assicurare la continuità del ciclo, il tratto iniziale del nuovo nastro da srotolare veniva saldato alla coda del nastro ultimato.

La linea aveva un pulpito, cioè una cabina di comando principale al cui interno erano collocati alcuni visori; erano altresì presenti pulsanti di arresto ed emergenza che disattivavano le elettrovalvole e conseguentemente i circuiti elettrici. Sulla linea stessa si trovavano pure diversi pulpitini, cioè banchi di comando minori. Il primo addetto alla linea stazionava nel pulpito, il collaudatore si trovava nella propria cabina, tre operai erano addetti alla linea, altro operaio era gruista.

La notte in cui si verificò l'evento erano in servizio sei operai addetti alla linea e occasionalmente il capoturno Ma.Ro., nonchè altro operaio.

Sostanzialmente non controverso è lo sviluppo delle contingenze che determinarono l'innesco e lo sviluppo dell'incendio: sfregamento per alcuni minuti del nastro di acciaio in lavorazione contro i bordi dell'impianto posto a quota + 3 metri; surriscaldamento con scintille; appiccamento delle fiamme su carta ed olio di laminazione che si trovava sul pavimento sotto l'impianto; contatto delle fiamme con un flessibile in gomma, protetto da due reti d'acciaio, contenente olio idraulico ad alta pressione, che cedeva con proiezione dell'olio nell'aria; deflagrazione della miscela nebulizzata; formazione di una nuvola incandescente di olio nebulizzato (flash fire) che si espanse improvvisamente per un'ampiezza di 12 metri ed investì gli operai che si erano avvicinati all'incendio con estintori a breve gittata, senza lasciare loro possibilità di scampo. A seguito delle ustioni riportate persero la vita sette operai: S.A., s.r., L.A., Br.Sa., Ma.Ro., D. G., R.R..

Le misure avviate per spegnere l'incendio si rivelarono inefficaci ed esso divampò ulteriormente; e fu domato solo dopo un lungo e laborioso intervento dei vigili del fuoco.

La sentenza spiega che i meccanismi dell'impianto sono azionati da circuiti oleodinamici che presentano numerosi tubi flessibili in gomma, ricoperti da maglie di acciaio. La resistenza dei flessibili al calore è assai limitata e costituisce un punto di vulnerabilità dell'impianto.

Vi è sostanziale accordo nel senso che il primo innesco riguardò carta accartocciata vicino al punto di sfregamento tra il nastro ed i bordi dell'impianto. Essa, infiammata, precipitò sul piano sottostante ove si trovavano spezzoni di carta e ristagni di olio che alimentarono l'incendio. Nell'arco di circa 10 minuti l'incendio coinvolse tutta la carta e l'olio esistenti sul pavimento. I lavoratori, avvedutisi dopo alcuni minuti di quanto accadeva, si precipitarono fuori dal pulpito nel quale si trovavano; con gli estintori a mano tentarono di spegnere le fiamme e provarono pure ad utilizzare una manichetta dalla quale tuttavia l'acqua non fuoriusciva.

Dalle primissime indagini dopo l'incendio emerse la presenza di cospicui ristagni di olio e carta imbevuta di olio. Tale presenza era dovuta soprattutto al fatto che i rotoli di acciaio, dopo la laminazione, non stazionavano abbastanza a lungo per sgocciolare adeguatamente. Per effetto delle fiamme risultarono collassati 11 flessibili. La lampadina che indicava il corretto centraggio del nastro era bruciata. Quella che segnalava il regolare svolgimento della carta di separazione era mancante. Il telefono del pulpito era rotto. I dispositivi di centraggio automatico non funzionavano adeguatamente, a dimostrazione di una grave carenza di manutenzione.

Inoltre gli idranti esistenti nello stabilimento non avevano pressione sufficiente. Emerse un complessivo degrado dell'impianto e la parziale inefficienza degli strumenti di spegnimento, nonostante la pulizia effettuata dopo i fatti e l'intervento di una ditta chiamata per la manutenzione degli estintori. Gli ispettori della Asl riscontrarono ben 116 irregolarità; e costatarono la mancata manutenzione delle attrezzature tra le quali i tubi flessibili, il danneggiamento di parti elettriche, l'accumulo di materiale infiammabile.

L'azienda aveva deciso di chiudere lo stabilimento (OMISSIS) e di trasferire gli impianti in (OMISSIS). All'epoca del disastro tali operazioni erano in corso. E l'intero processo si muove attorno all'ipotesi accusatoria, fatta propria dai giudici di merito, che la decisione di dismettere l'impianto (OMISSIS) fosse stata accompagnata dalla decisione di fermare ed accantonare gli investimenti per la sicurezza, determinando il progressivo scadimento dell'efficienza e della sicurezza delle lavorazioni. Tale compromessa situazione è stata ritenuta la causa prima dei numerosi inadempimenti di prescrizioni cautelari che hanno condotto agli eventi in esame.

Questa cruciale scelta aziendale, secondo i giudici di merito, era in contrasto con le strategie di fondo della holding. Infatti, nel giugno del 2006 si sviluppò un devastante incendio nello stabilimento di (OMISSIS), che produsse conseguenze disastrose e danni per centinaia di milioni di Euro, nonchè il fermo per circa un anno. Lo stabilimento andò completamente distrutto e solo per miracolo non vi furono morti. A seguito di ciò, la prevenzione antincendio divenne una priorità assoluta del Gruppo e furono a tal fine decisi stanziamenti straordinari. Tale nuova strategia emerse agli inizi del 2007 e fu consacrata in alcuni meeting internazionali.

In uno di essi, organizzato a (OMISSIS) nel (OMISSIS), presente E., fu illustrato un cospicuo stanziamento straordinario per TKAST dell'ordine di diversi milioni di Euro. Al servizio delle strategie di lotta al fuoco operava anche un gruppo tecnico di lavoro (Working group stainless, in sigla WGS).

2. Le imputazioni.

In relazione a tali accadimenti è stata esercitata l'azione penale in ordine a diversi illeciti nei confronti di:

E.H., Amministratore delegato e membro del Comitato esecutivo (cosiddetto Board) della TKAST; con delega per la produzione, la sicurezza sul lavoro, il personale, gli affari generali e legali;

P.M., Consigliere del Consiglio di amministrazione e membro del Comitato esecutivo con delega per il settore commerciale ed il marketing;

Pr.Ge., Consigliere del Consiglio di amministrazione e membro del Comitato esecutivo con delega per l'amministrazione, la finanza, il controllo di gestione, gli approvvigionamenti ed i servizi informativi;

M.D., Dirigente con funzioni di Direttore dell'area tecnica e servizi, con competenza nella pianificazione degli investimenti in materia di sicurezza antincendio anche per lo stabilimento di (OMISSIS);

S.R., Direttore dello stabilimento di (OMISSIS);

C.C., Dirigente con funzioni di responsabile dell'area ecologia, ambiente e sicurezza e responsabile del Servizio di prevenzione e protezione dello stabilimento di (OMISSIS).

Per conferire chiarezza all'esposizione, in relazione alle differenti ed ancora discusse qualificazioni giuridiche dei fatti, è necessario riportare in breve le accuse.

A) Tutti imputati, in concorso tra loro, del reato di cui all'art. 437 c.p., commi 1 e 2, per avere omesso di dotare la linea di ricottura e decapaggio denominata APL5 di impianti ed apparecchi destinati a prevenire disastri ed infortuni sul lavoro; ed in particolare di adottare un sistema automatico di rivelazione e spegnimento degli incendi, di cui emergeva la necessità in considerazione dell'alto rischio dovuto alla presenza di olio idraulico in pressione, olio di laminazione e carta imbevuta di olio.

La necessità di tali apprestamenti emergeva da diverse contingenze, quali il già evocato incendio di (OMISSIS); la ricostruzione delle linee di tale opificio accompagnata dall'installazione di un sistema automatico di rivelazione e spegnimento; la valutazione del rischio da parte delle società assicurative, ritenuto talmente elevato, dopo l'incendio di (OMISSIS), da indurre ad una franchigia accresciuta, in assenza di efficaci sistemi di prevenzione e protezione; la decisione della TKS, nel (OMISSIS), di prevedere investimenti specifici antincendio in linea con le indicazioni del Working Group Stainless (WGS), ed in particolare di sistemi automatici di rivelazione e spegnimento nella linea APL5; le relazioni dell'ing. B., consulente dell'assicuratrice Axa, che raccomandavano l'installazione del ridetto sistema automatico di protezione; la relazione di analogo tenore dell'ing. W., consulente della medesima Axa; la richiesta di autorizzazione agli investimenti dell'(OMISSIS), che descrive la linea APL5 come non conforme alle indicazioni tecniche della società assicuratrice, dei vigili del fuoco e del WGS. Fatto dal quale sono derivati un disastro (incendio) di cui ai capi C ed E; ed un infortunio sul lavoro che ha determinato la morte di sette operai, evento rubricato ai capi B e D, nonchè lesioni personali in danno di altri operai.

B) Il solo E. imputato del reato di cui agli artt. 81 e 575 cod. pen., per aver cagionato volontariamente la morte dei lavoratori. All'imputato è stato contestato di essersi rappresentata la concreta possibilità del verificarsi di infortuni anche mortali, in quanto a conoscenza delle contingenze già riportate nel capo A, e di aver accettato tale rischio, giacchè in virtù dei poteri decisionali inerenti alla sua posizione apicale, nonchè della specifica competenza e della delega in materia di sicurezza sul lavoro, prendeva la decisione di posticipare l'investimento antincendio dapprima dall'esercizio (OMISSIS) a quello (OMISSIS) e poi ad epoca successiva al trasferimento della linea da (OMISSIS) a (OMISSIS), sebbene lo stabilimento si trovasse in una situazione di crescente insicurezza.

C) Il solo E. imputato del reato di incendio doloso di cui all'art. 423 cod. pen., per aver cagionato nella detta linea APL5 un incendio violento, rapido e di vaste proporzioni dal quale derivava la morte dei lavoratori. L'imputato, pur informato della concreta possibilità del verificarsi di incendi, ometteva di adottare le misure tecniche, organizzative, procedurali di prevenzione e protezione contro gli incendi. Gli si contesta di non aver adeguatamente valutato il rischio di non aver organizzato percorsi informativi e formativi nei confronti dei lavoratori, di non aver installato un sistema automatico di rilevazione e spegnimento degli incendi, nonostante la già menzionata situazione di crescente abbandono ed insicurezza dello stabilimento. Tutte condotte derivanti dalla già indicata decisione di posticipare l'investimento antincendio.

D) Pr., P., M., S. e C. imputati del reato di cui all'art. 61 c.p., n. 3, e art. 589 c.p., commi 1, 2 e 3, per aver cagionato per colpa la morte dei lavoratori.

A Pr. e P., nella veste di membri del Comitato esecutivo, è stato mosso l'addebito di aver omesso di sottolineare l'esigenza di adottare le necessarie misure tecniche, organizzative, procedurali, informative, formative, di prevenzione e protezione dagli incendi non appena avuta conoscenza della loro necessità.

A M. è stato contestato di aver omesso, in sede di pianificazione degli investimenti per la sicurezza e la prevenzione degli incendi, di sottolineare le già indicate misure di prevenzione, non appena avuta conoscenza della loro necessità e malgrado le ripetute sollecitazioni ricevute dal vertice del gruppo TKL. Analoga accusa è stata mossa a S. e C., anche in relazione alla loro diretta e piena conoscenza della situazione di grave e crescente abbandono dello stabilimento.

Con le aggravanti della violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro e di aver agito nonostante la previsione dell'evento.

E) Pr., P., M., S. e C. imputati del reato incendio colposo di cui all'art. 61 c.p., n. 3, artt. 449 e 423 c.p., per aver cagionato l'incendio già menzionato, a causa delle condotte colpose riportate al capo D. Con l'aggravante della previsione dell'evento.

3. La prima sentenza.

La Corte di assise di Torino ha affermato la responsabilità degli imputati in ordine ai reati loro ascritti e li ha altresì condannati, in solido tra loro e con il responsabile civile TKAST, al risarcimento del danno nei confronti di numerose parti civili. Ha altresì applicato, ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 25- septies, nei confronti di TKAST, la sanzione pecuniaria di un milione di Euro ex artt. 9 e 10 e art. 12, comma 2, lett. A; la sanzione interdittiva della esclusione da agevolazioni finanziamenti, contributi o sussidi per la durata di sei mesi ai sensi dell'art. 9, comma 2, lett. A; la sanzione interdittiva del divieto di pubblicizzare beni o servizi per la durata di sei mesi ai sensi dell'art. 9, comma 2, lett. E; la confisca della somma di 800.000 Euro ex art. 19.

4. La pronunzia di appello.

La sentenza è stata parzialmente riformata dalla Corte di assise di appello di Torino.

Nei confronti di E. il reato di omicidio doloso di cui al capo B è stato qualificato come omicidio colposo ai sensi dell'art. 589 c.p., commi 1, 2 e 3, e art. 61 c.p., n. 3; e quello di incendio doloso di cui al capo C è stato qualificato come incendio colposo ai sensi dell'art. 449 c.p. e art. 61 c.p., n. 3.

Per tutti, il reato di incendio colposo è stato ritenuto assorbito in quello di cui all'art. 437 c.p., commi 1 e 2, rubricato al capo A. E' stato altresì ritenuto il concorso formale tra i reati di cui agli artt. 437 e 589 cod. pen..

Per l'effetto le pene sono state rideterminate.

Nei confronti dell'unica parte civile rimasta nel processo, Medicina Democratica, è stata diminuita l'entità della provvisionale.

Le statuizioni nei confronti dell'ente sono state confermate.

5. I ricorsi.

Hanno proposto ricorso per cassazione il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di appello di Torino nei confronti di tutti gli imputati; la TKAST nella veste di responsabile civile nonchè in relazione alla condanna dell'Ente; e tutti gli imputati.

6. Il ricorso del Procuratore Generale.

6.1. Con i primi due motivi il ricorrente deduce violazione di legge e vizio della motivazione, essendo state ravvisate, nei confronti dell'AD, fattispecie colpose in luogo di quelle dolose ritenute dal primo giudice.

Si afferma che la Corte di assise di appello, pur senza ammetterlo esplicitamente, ha sposato la tesi espressa da una dottrina minoritaria secondo cui il dolo eventuale consisterebbe non nell'accettazione del rischio di provocare l'evento, ma nell'accettazione dell'evento stesso e dunque del danno che ne consegue. La Corte assume pure che tale figura ha luogo quando è provato che il soggetto agente non avrebbe mutato la propria condotta anche se fosse stato certo di cagionare l'evento. Con ciò, però, si introduce un elemento ulteriore e del tutto ipotetico che di fatto sostituisce all'azione reale di chi accetta di correre un rischio l'azione ipotetica di chi accetta di cagionare un evento. Di fatto, per dimostrare che l'imputato ha agito con dolo eventuale, la Corte pretende la prova che egli sarebbe stato disposto ad agire anche con dolo diretto, con ciò introducendo una prospettiva meramente ipotetica. Tale impostazione ha inaccettabili implicazioni, giacchè non consente di ipotizzare il dolo eventuale nella materia della sicurezza sul lavoro e più in generale in tutti i casi in cui è in gioco la vita o l'incolumità delle persone e dunque vi è enorme sproporzione tra il valore dei beni giuridici oggetto di bilanciamento.

Si lamenta inoltre che la pronunzia ritiene che l'imputato sperava che la fortuna continuasse in qualche modo ad assistere i suoi operai, nonostante la loro attività di vigili del fuoco improvvisati e completamente allo sbaraglio diventasse ogni giorno più difficile e pericolosa. Difettano completamente elementi concreti idonei a giustificare e rendere ragionevole una tale speranza. Mancava la possibilità di affidamento fondato su elementi concreti e non sulla mera speranza nella buona sorte.

La sentenza è anche illogica e priva di reale motivazione quando afferma che l'imputato accettava solo il rischio di piccoli focolai di incendio. L'enunciato è in contrasto con quanto affermato dalla sentenza medesima a proposito della consapevolezza che il vero rischio era di essere ghermiti improvvisamente dal flash fire. Si è pure trascurato che la pericolosità degli incidenti consiste proprio nella loro di diffusività, che non consente di distinguere sul piano del rischio tra incendi di piccole dimensioni ed incendi distruttivi, soprattutto in un contesto altamente rischioso come quello in esame.

Non si comprende come, essendovi rappresentazione dell'evento maggiore costituito dall'onda di fuoco ed in assenza di qualsiasi intervento tecnico ovvero organizzativo finalizzato a ridurre il rischio, sia ipotizzabile a discrezione del soggetto agente l'accettazione dell'evento parziale o comunque minore costituito dal piccolo focolaio di incendio.

Il ricorrente assume altresì che il dolo eventuale si configura quando l'agente accetta il rischio che l'evento si verifichi come risultato della sua condotta, quando cioè non supera il dubbio, non respinge il rischio, non confida che il rischio stesso non si concretizzi. Si ha invece colpa cosciente quando il dubbio viene superato in senso negativo, quando si confida che il rischio non si verifichi, si nutre la sicura fiducia che in concreto l'evento non si realizzerà.

Quanto all'imputato, si configurano due condotte rilevanti, la prima omissiva, comune agli altri imputati, rappresentata dalla mancata adozione delle cautele antinfortunistiche; la seconda commissiva ed esclusiva, costituita dalla decisione di non fare più alcun investimento per la prevenzione degli incendi. Tale ultima condotta denota la chiara volontà di abbandonare lo stabilimento ed è sicuramente indicativa dell'accettazione del rischio e quindi dell'esistenza del dolo eventuale. Magari l'imputato ha sperato in cuor suo che il rischio non si concretizzasse realmente, ma non poteva nutrire alcuna ragionevole fiducia che ciò avvenisse.

Naturalmente, non rileva in alcun modo che in egli non avesse interesse a cagionare incendi o infortuni ed anzi che avesse interesse contrario, giacchè si discute di dolo eventuale e non di dolo intenzionale o diretto.

E. non poteva in concreto nutrire alcuna ragionevole speranza che l'evento non si sarebbe realizzato. Il suo dichiarato affidamento nelle capacità dei collaboratori e degli operai in (OMISSIS) è privo di alcuna base, poichè il personale più qualificato aveva lasciato lo stabilimento ed i lavoratori rimasti erano stressati e preoccupati per il futuro. Il rischio di incendio era aumentato e non vi era dunque alcuna possibilità razionale di affidamento. L'imputato non poteva neppure contare su dispositivi e presidi antincendio, che erano ridotti ai minimi termini. Una razionale fiducia era anche inibita dal piano di emergenza che prevedeva l'intervento diretto dei lavoratori anzichè l'allontanamento dal luogo di pericolo.

La Corte di assise di appello ha proposto un'enunciazione metodologica corretta, ravvisando la necessità di una penetrante indagine in ordine al fatto specifico oggetto del processo. Tale indagine è però mancata del tutto, giacchè non si è tenuto conto delle ponderose acquisizioni esposte nelle prime 300 pagine della sentenza a proposito della situazione dello stabilimento.

La pronunzia trae argomento dalla sentenza delle Sezioni Unite del 2010, Nocera, che tuttavia riguarda lo specifico tema del rapporto tra ricettazione ed incauto acquisto. In tale sentenza si propone un'impostazione aderente ad una matrice dottrinaria di origine tedesca espressa dalla "formula di Frank", ampiamente superata dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Inoltre, l'approccio particolarmente rigoroso nell'accertamento del dolo eventuale era dovuto nel caso specifico alla necessità di delimitare l'ambito di operatività del reato di ricettazione rispetto a quello di incauto acquisto, evitando che attraverso il dolo eventuale le condotte incaute vengano ricondotte alla fattispecie di ricettazione. Si è pure trascurato che la citata pronunzia delle Sezioni unite riguarda un reato di mera condotta contro il patrimonio. E' evidente che gli stessi parametri non possono essere adottati quando si parla di reati di evento contro l'incolumità fisica e la vita. Richiedere in tali fattispecie la verifica ipotetica sul comportamento che l'agente avrebbe tenuto qualora avesse avuto certezza di cagionare l'evento esclude in radice qualsiasi possibilità di configurare il dolo eventuale. In conclusione, secondo il ricorrente, il metodo della verifica ipotetica in cui si saggia il grado di resistenza della volontà dell'agente rispetto alla certezza di provocare l'evento non può essere considerato un metodo valido per qualsiasi tipo di reato. Esso inoltre è inaffidabile e di non facile applicazione, giacchè introduce in una materia già di per sè altamente incerta un'ulteriore valutazione del tutto ipotetica: come avrebbe agito un soggetto in una condizione diversa da quella reale. Tale approccio, d'altro canto, finisce con il trasformare il dolo eventuale in dolo diretto.

La Corte di merito ha pure svuotato di significato la distinzione tra condotte commissive ed omissive. Si è trascurato che l'imputato ha tenuto condotte attive consistenti nel far slittare e successivamente decadere gli investimenti antincendio; e in questo senso la sua volontà risulta certamente più forte e determinata rispetto a quella degli altri imputati che hanno soltanto posto in essere le condotte omissive ed avevano minori poteri.

Il ricorrente assume che la pronunzia contiene un errore evidente e gravissimo quando equipara le condotte dell'amministratore delegato a quelle degli altri imputati, trascurando che il primo aveva poteri decisori, mentre gli altri avevano ruolo consultivo o di collaborazione. Se anche potesse configurarsi il dolo degli altri imputati, la posizione dell'amministratore delegato non muterebbe.

L'impugnazione censura pure il ragionamento della Corte di assise di appello a proposito del bilanciamento tra i vantaggi economici derivanti dall'elisione dei finanziamenti nello stabilimento (OMISSIS) e le conseguenze pregiudizievoli derivanti da un evento del genere di quello verificatosi. Il giudice fa riferimento al solo finanziamento afferente all'installazione delle misure antincendio, mentre si sarebbe dovuto considerare il risparmio totale derivante dall'assenza di investimenti di alcun genere nell'impianto, a fronte del rischio, e non dell'evento, di incendi ed infortuni anche mortali. Erroneamente, invece, la Corte di merito compara il risparmio con l'evento lesivo disastroso e non con il mero rischio della sua verificazione che concretizza il dolo eventuale.

In conclusione, per il ricorrente il ragionamento della Corte di assise di appello è censurabile perchè porta ad escludere la possibilità di configurare il dolo eventuale quando il danno afferisce agli esiti di un infortunio o di una malattia professionale. L'errore, si assume, è sempre quello di confondere l'evento con il rischio.

La pronunzia erra ed è illogica anche quando assume che gli imputati fecero prevalere le loro personali valutazioni in ordine al fatto che eventi disastrosi non si sarebbero verificati nonostante tutti gli avvisi e gli allarmi. Tale enunciazione è in contrasto con il complessivo tenore di molte pagine della sentenza nelle quali si pone in luce l'elevatissimo rischio di incendio e la previsione di effetti disastrosi che potevano derivarne, accompagnato dalla artificiosa dissimulazione della realtà, facendo apparire il rischio medio anzichè elevato, al fine di non rendere consequenziali e doverose ulteriori misure di prevenzione. La situazione indicata induce a ritenere che l'imputato abbia accettato il rischio nella sua interezza ed in tutte le sue possibili configurazioni.

L'impugnazione censura pure la ritenuta ragionevolezza dell'affidamento degli imputati in ordine alla non verificazione di eventi disastrosi. Tale valutazione travolge tutti gli accertamenti sulle carenze dello stabilimento, sui continui incendi, sull'inadeguatezza dei mezzi per contrastarli, sull'aggravarsi progressivo di tale deteriore situazione. Si era quindi in una situazione di inevitabile concreta, forte rappresentazione dell'evento a fronte della quale il giudice d'appello si è accontentato di una fragilissima speranza priva di fondamento e svincolata da qualsiasi criterio logico od ipotetico. Non si comprende perchè, essendo ben noto (solo ai dirigenti e non agli operai) il rischio di flash fire sarebbe stato accettato solo il rischio di eventi minori.

A sostegno di tale assunto il ricorrente analizza diffusamente alcuni passaggi della pronunzia di merito nei quali vengono evidenziate carenze e trascuratezze di ogni genere, per inferirne l'incoerenza rispetto alle enunciazioni in tema di dolo. In particolare, emerge la gravità del rischio connessa alla presenza dei flessibili idraulici con olio in pressione ed alla possibilità del manifestarsi del flash fire. A fronte di ciò, la dirigenza tecnica aveva individuato misure tecniche per minimizzare il rischio che sono state disattese.

L'elemento doloso, secondo il ricorrente, è altresì dimostrato dal documento di valutazione dei rischi che reca la deliberata dissimulazione del rischio di incendio e dunque la piena consapevolezza di ciò che è poi accaduto, unitamente alla consapevolezza che l'adempimento delle condotte doverose avrebbe impedito la consumazione dei reati.

6.2. Con il terzo motivo si contesta il ritenuto assorbimento del reato di incendio doloso di cui all'art. 449 cod. pen. nel reato aggravato di cui all'art. 437 c.p., comma 2, ritenuto illecito complesso.

Si premette che la Corte argomenta da una lettura erronea del senso dell'imputazione. Si afferma in sentenza che il P.M. ha qualificato i reati di lesioni personali come infortuni sul lavoro e li ha ritenuti assorbiti in quello di cui all'art. 437 capoverso. L'enunciazione è erronea. I reati di lesioni sono stati oggetto di stralcio con atto del 27 febbraio 2008, a causa della necessità di maggiori approfondimenti circa la natura e l'entità delle lesioni.

Tra le due fattispecie vi è una differenza strutturale e fattuale.

Nell'art. 437 si fa riferimento all'omessa adozione di un sistema automatico di rivelazione e spegnimento. Invece la condotta di cui all'art. 449 è consistita nell'aver omesso misure tecniche e ed organizzative di vario genere, condotte ulteriori e diverse rispetto a quella di cui all'art. 437. L'art. 437 è illecito di condotta mentre l'altro è di evento. Le carenze in tema di valutazione del rischio o formazione ed informazione dei lavoratori non possono in alcun modo essere ricondotte alla fattispecie di cui all'art. 437, non costituendo "impianti, apparecchi, segnali".

Si aggiunge che il concetto di disastro nell'ambito disciplinato dall'art. 437 cod. pen. si desume dalla rubrica "Rimozione od omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro".

L'espressione "sul lavoro" è riportata anche nel testo dell'articolo a chiarimento che si fa riferimento non alla fonte bensì alla sede del disastro o dell'infortunio. La normativa tutela lo specifico ambiente di lavoro, la collettività dei lavoratori a vario titolo operanti. Tale punto di vista è espresso dalla costante giurisprudenza. Essa ha spiegato che nella fattispecie non vi è alcun tratto afferente alla pubblica incolumità.

Ciò premesso, l'impugnazione analizza i rapporti tra le norme in questione. Si rammenta che la materia è regolata dal principio di specialità come delineato dalla giurisprudenza di legittimità: la disposizione speciale deroga alla generale. Vi è specialità unilaterale per aggiunta e per specificazione; che non da luogo a problemi interpretativi. Può altresì configurarsi specialità bilaterale o reciproca, che si verifica quando l'aggiunta o la specificazione si verifica sia con riferimento all'ipotesi generale che a quella speciale. In tali casi si è fatto riferimento, per risolvere i problemi, ai criteri di sussidiarietà e consunzione.

Essi, tuttavia, sono stati ritenuti in rapporto di tensione con il principio di legalità, richiedendo giudizi di valore e quindi incontrollabili valutazioni soggettive.

La giurisprudenza ha pure chiarito che per "stessa materia" deve intendersi la medesima fattispecie astratta, lo stesso fatto tipico di reato. L'identità materiale è da escludere nella specialità reciproca bilaterale per aggiunta nei casi in cui ciascuna fattispecie presenti rispetto all'altra un elemento aggiuntivo eterogeneo.

Il giudice d'appello, assume il ricorrente, ha affermato i principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità, ma non vi si è attenuta. Infatti, il raffronto va fatto alla stregua di tutti gli elementi costitutivi descritti dalle norme incriminatrici, senza alcuna eccezione. La Corte, invece, depaupera la fattispecie di cui all'art. 449 cod. pen. di elementi costitutivi, quali le condotte diverse rispetto alla omessa collocazione di impianti, apparecchi, segnali, e quali i disastri diversi da quelli sul lavoro. Non è possibile sostenere che il reato di cui all'art. 437 cod. pen. presenti tutti gli elementi costitutivi di quello di cui all'art. 449, quali le condotte diverse rispetto alla omessa collocazione di impianti ed i disastri non lavorativi. Il fatto è che si versa in un caso di specialità reciproca bilaterale per aggiunta e pertanto, alla stregua della giurisprudenza di legittimità è esclusa l'identità di materia di cui all'art. 15 cod. pen..

In particolare l'art. 437, comma 2, ha l'elemento specializzante costituito dall'evento infortunio, autonomo e distinto rispetto all'evento disastro. L'art. 449 ha i già indicati due elementi peculiari e specializzanti, afferenti alle condotte diverse dall'omissione di impianti, e dall'evento disastroso diverso da quello sul lavoro.

6.3. Con il quarto motivo si contesta il ritenuto concorso formale tra i reati di cui agli artt. 437 e 589 cod. pen.. Tale concorso è ipotizzabile a condizione che le diverse disposizioni siano violate con una sola azione od omissione. Tale situazione non si verifica nel caso di specie, posto che la condotta di cui all'art. 437 cod. pen. è consistita nell'aver omesso di collocare impianti ed apparecchi destinati ad evitare disastri ed infortuni ed in particolare nell'aver omesso di installare un sistema automatico di rilevazione e spegnimento. Invece - la condotta di cui all'art. 589 cod. pen. è consistita ben più ampiamente nell'aver omesso di adottare misure cautelari molteplici e di diverso genere.

6.4. Il quinto motivo censura la motivazione per ciò che attiene alla logicità in tema di determinazione delle sanzioni.

Il primo profilo di incongruenza riguarda le posizioni di E., P. e Pr. che il giudice d'appello ritiene sostanzialmente equiparate quanto a poteri decisionali e di spesa e che invece distingue incongruamente quanto al trattamento sanzionatorio, irrogando agli ultimi due la pena ben inferiore di sette anni di reclusione, più mite pure di quella inflitta agli altri imputati, dotati di poteri inferiori. A sostegno di tale assunto vengono richiamati diversi brani della pronunzia di merito che pongono in luce il rilevante ruolo negli illeciti dei due indicati imputati. L'argomento utilizzato dalla Corte, afferente alla minore competenza tecnica, non rileva nell'ambito della sicurezza sul lavoro, nel quale l'incompetenza non è un titolo di merito ma una colpevole carenza. La Corte finisce per premiare l'incompetenza degli imputati.

Altrettanto incongruamente è stata irrogata pena superiore a quella dei due imputati sopra indicati a M. (ma anche, in misura inferiore, a S. e C.) che la Corte riconosce essere privo di poteri decisionali e di spesa e con ruolo meramente consultivo. Non è stato colto il principio, fondamentale in materia, che la responsabilità è direttamente proporzionale ai poteri. A quelli decisionali e di spesa consegue l'obbligo di esercitarli conformemente alla legge; e dalla violazione di tale obbligo discende la responsabilità. In conseguenza la responsabilità di M. rimane ben inferiore, non avendo egli autonomo potere di disposizione. Erroneamente il severo trattamento sanzionatorio è stato connesso alle elevate competenze tecniche ed alla capacità di cogliere il rischio per i lavoratori. Si è trascurato che l'AD aveva comunque piena cognizione di ogni cosa.

7. Il ricorso di TKAST nella veste di responsabile civile.

L'impugnazione censura la statuizione afferente alla condanna al risarcimento del danno nei confronti della parte civile Associazione Medicina Democratica. Si espone che sin dall'inizio è stata formulata opposizione a tale costituzione a causa dell'assenza di un danno risarcibile. Lo svolgimento del processo ha confermato tale punto di vista. La Corte di assise di appello ha replicato evocando la giurisprudenza di legittimità che ritiene la legittimazione degli enti di fatto a costituirsi anche quando il danno non coincide con la lesione di un diritto soggettivo, come avviene nel caso in cui offeso sia l'interesse perseguito da una associazione in riferimento ad una situazione storicamente circostanziata, assunta nello statuto a ragione stessa della propria esistenza. Tale richiamo, tuttavia, non è risolutivo giacchè ogni reato implica un'offesa; ma l'offesa stessa non è di per sè dimostrativa dell'esistenza di un danno, che deve essere invece provato. L'offesa è il contenuto del reato e pertanto non può mai mancare, mentre il danno è la conseguenza dell'illecito e cioè dell'offesa e può anche non riscontrarsi, come accade tipicamente nei reati di pericolo presunto. Va dunque verificata una relazione causale tra l'offesa ed il danno, che deve essere rigorosamente dimostrata.

Il legislatore ha avuto ben chiara questa differenza, come emerge dall'art. 74 cod. proc. pen., nel quale si enuncia che l'azione civile può essere esercitata nel processo penale dal soggetto al quale il reato ha recato danno; ed ha precisato al successivo art. 90 i diritti e le facoltà della persona offesa dal reato, che sono estesi dal successivo art. 91 agli enti ed alle associazioni rappresentative di interessi lesi dal reato. Una conferma delle reali intenzioni del legislatore si desume dall'art. 212 disp. att. cod. proc. pen., il quale prevede che quando è ammessa la costituzione di parte civile o intervento del processo al di fuori delle ipotesi indicate all'art. 74 è solo consentito l'intervento nei limiti ed alle condizioni previste dagli artt. 91, 92, 93 e 94 cod. proc. pen..

Altra conferma si ricava dal D.P.R. n. 8 del 2008, art. 61 che prevede che le associazioni e le organizzazioni rappresentative dei familiari delle vittime di infortuni sul lavoro hanno facoltà di esercitare i diritti e le facoltà della persona offesa di cui agli artt. 91 e 92 cod. proc. pen., con riferimento ai reati commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro.

La sentenza impugnata ritiene che l'offesa a qualunque interesse o diritto possa consentire la richiesta di risarcimento del danno.

Tuttavia neppure tale enunciazione è risolutiva. Infatti, l'esistenza di un'offesa non è sufficiente alla dimostrazione del danno patrimoniale. Nel caso di specie, di tale danno subito dalla parte civile per effetto dei reati non vi è prova. Infatti gli illeciti non danneggiano affatto l'immagine e la reputazione di Medicina Democratica, che svolge una riconosciuta e meritoria attività. Nè il danno del reato può derivare dal contrasto con gli scopi perseguiti dal sodalizio: il danno è la conseguenza dell'offesa (si parla infatti di danno cagionato dal reato) e costituisce un'entità tangibile della quale occorre fornire prova.

Medicina Democratica reclama anche il risarcimento del danno patrimoniale connesso agli accertamenti e alla rifusione dei costi delle numerose attività tecniche di indagine. Tale precisazione sulla natura dei danni subiti mostra chiaramente come essi non abbiano alcuna relazione causale necessaria con i reati contestati, ma derivino da iniziative personali dell'ente.

7.1. In relazione a tale impugnazione la parte civile Medicina Democratica ha presentato una memoria difensiva.

8. Il ricorso di TKAST avverso la condanna per la responsabilità dell'ente.

8.1. Con il primo motivo si prospetta violazione di legge per ciò che attiene al concorso formale tra i reati di cui agli artt. 437 e 589 cod. pen..

Si considera che è stata respinta la richiesta difensiva di ritenere il reato di omicidio colposo assorbito in quello di cui all'art. 437 c.p., comma 2, argomentando in primo luogo che la pena massima prevista dall'art. 589, comma 4, è più grave di quella prevista dall'art. 437, comma 2; sicchè ritenere l'assorbimento di un reato nell'altro condurrebbe alla conclusione paradossale che chi commettesse ambedue gli illeciti si vedrebbe sanzionato con una pena inferiore. Tale argomento viene censurato: si considera che esso è relativo al solo caso di morte di più persone ed è quindi valido solo in un particolare contesto.

D'altra parte, la tesi seguita dalla Corte finisce con il negare che la morte sul lavoro sia un infortunio. Una conclusione smentita dal D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 2 che definisce infortunio la morte o l'inabilità permanente al lavoro avvenuta per causa violenta in occasione del lavoro.

La pronunzia d'appello sembra inoltre confondere tra reato progressivo, nel quale il bene giuridico è il medesimo, e reato complesso, nel quale tale identità può mancare ed è sufficiente che la legge consideri come elementi costitutivi o come circostanze aggravanti di un solo reato fatti che costituirebbero per se stessi reato.

La pronunzia argomenta altresì che la tesi difensiva condurrebbe a sanzionare in modo non proporzionato illeciti molto diversi e diversamente gravi. Anche tale tesi viene censurata: la pena non può essere considerata eccessiva, anche in presenza di un modesto infortunio se si considera che alla base vi è una grave omissione prevista dal comma 1. D'altra parte, al giudice è consentito di modulare la pena.

La soluzione accolta dalla Corte di merito finisce col sanzionare due volte l'infortunio morte con palese violazione del principio del ne bis in idem. Tale considerazione trova unanime accoglimento in dottrina. Essa trova qualche conforto pure in giurisprudenza, anche se con riferimento a reati diversi da quello in esame. In conclusione, secondo il ricorrente, il reato previsto dall'art. 437, comma 1, è un illecito doloso di pericolo astratto nel senso che la condotta contiene già in sè un giudizio di pericolo. Nel secondo comma è sanzionata la medesima condotta qualora abbia determinato un evento, cioè un disastro o un infortunio, che veniva in passato addebitato obiettivamente e che ora viene ascritto con i criteri di cui alla all'art. 59 cod. pen.. Si tratta insomma di un reato complesso ai sensi dell'art. 84 cod. pen.. Tale soluzione interpretativa è l'unica che preserva il principio del ne bis in idem. E d'altra parte la stessa Corte di assise di appello ha riconosciuto che il reato di cui al richiamato art. 437, comma 2 è un reato complesso, nella parte in cui ha ritenuto il reato di incendio assorbito nel disastro di cui al ridetto capoverso.

L'accoglimento dell'indicato motivo determina, ad avviso del ricorrente, la mancanza di responsabilità dell'ente, in quanto essa non è prevista per la violazione di cui all'art. 437 cod. pen..

8.2. Con il secondo motivo si prospetta violazione di legge, in quanto la responsabilità dell'ente implica necessariamente una approfondita indagine sulla colpa che deve comunque accompagnare la condotta omissiva, nonchè sulla presenza del requisito dell'interesse e vantaggio.

L'impugnazione argomenta per dimostrare che la responsabilità dell'ente presenta i connotati della responsabilità penale. Se ad essa, tuttavia, si applicano i principi di tale ordinamento, ne emergono diversi profili di illegittimità costituzionale. Infatti la responsabilità dell'ente è presunta e la presunzione può essere vinta soltanto dall'esistenza di un modello idoneo di cui tuttavia la legge non definisce con precisione i contenuti. La norma, già sospetta di illegittimità per la presunzione di colpevolezza, diventa generica e mancante di determinatezza nella descrizione dei comportamenti che potrebbero vincere la presunzione. La lamentata presunzione di colpa è diventata nella pratica non superabile, tramutando la responsabilità per colpa in responsabilità oggettiva.

Infatti nel corso dell'applicazione della normativa non risulta un solo caso di assoluzione dell'ente a seguito della prova dell'idoneità del modello e della sua efficace attuazione. Il fatto è, secondo il ricorrente, che i giudici, per negare valore alla prova liberatoria, hanno ritenuto sufficiente il fatto che un reato sia stato commesso da un soggetto della cui condotta l'ente deve rispondere. Ciò significa che quella dell'ente viene considerata nella pratica come una vera e propria responsabilità oggettiva, al di là delle proclamate intenzioni del legislatore.

Il ricorrente ritiene che sia ben difficile ipotizzare un comportamento rimproverabile che non sia almeno colposo; nè pare corretto ipotizzare una nuova forma di colpevolezza e slegare la colpa dal soggetto, rifiutando la concezione psicologica della colpevolezza, cioè la necessità di un legame tra l'autore e il fatto. Ogni diversa soluzione introduce alla responsabilità oggettiva: l'accertamento della colpa non può essere ridotto alla mera constatazione che qualcosa non ha funzionato perchè un reato è stato commesso, ma va condotto secondo i canoni tradizionali.

Si aggiunge che nel caso di specie l'aggiornamento del modello era stato completato ma non ancora formalizzato con l'approvazione del consiglio di amministrazione. Da tale pacifico dato di fatto si è desunta la mancanza dell'atto. In ogni caso, il tema della colpa va considerato pure con riferimento all'esistenza o meno di un modello valido successivamente al fatto, ai fini della concessione delle attenuanti previste dal comma 3 dell'art. 12 del D.Lgs. n. 231.

L'unico rilievo sulla insufficienza del modello è stato ravvisato nella presenza nell'ODV, di un dipendente della società, l'ingegner c. che era anche responsabile dell'area EAS e che si trovava quindi nella veste di controllore di se stesso. L'opinione molto formalistica della Corte non coglie nel segno. La presenza di elementi interni all'ente assicura conoscenze funzionali al buon funzionamento dell'organo, come da più parti sostenuto. Tale interpretazione trova sostegno nella recente disposizione per la quale nelle società di capitali le funzioni dello ODV possono essere sostenute dal Collegio sindacale ovvero dal Consiglio di sorveglianza. La pronunzia non attribuisce rilievo a questa osservazione, considerando che questa facoltà non comprime affatto il requisito dell'autonomia dell'organo e ricorda l'art. 2399 c.c., lett. C che prevede le cause di ineleggibilità o di decadenza del sindaco. Si trascura che un organo composto da persone estranee alla società assicura autonomia ma riduce considerevolmente la professionalità e quindi l'utilità dell'organo. Da quanto precede il ricorrente desume che il modello approvato prima dell'apertura del dibattimento di primo grado è da ritenersi idoneo.

Il ricorso censura inoltre l'interpretazione data dalla Corte di assise di appello al requisito dell'interesse o vantaggio previsto dall'art. 5 della legge. L'ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o vantaggio e non è possibile sostituire nei reati colposi, alla parola "reati" la parola "fatti". Il dato letterale non può essere travolto senza incorrere in una non consentita applicazione analogica della norma, in quanto riferita a casi non previsti. D'altra parte, l'interpretazione accolta dalla Corte territoriale aggancia la responsabilità dell'ente, nei reati colposi, alla mera condotta e quindi ad un elemento penalmente irrilevante, posto che in tale categoria di illeciti non è prevista la figura del tentativo. Nell'originaria configurazione della normativa si faceva riferimento esclusivamente agli illeciti dolosi.

L'aggiunta, nel 2007, dei reati colposi è avvenuta senza alcuna modificazione del criterio di cui si discute che continua a riguardare soltanto i reati dolosi, sino a quando il legislatore non provvedere a rimediare a tale omissione.

Un'ulteriore censura riguarda l'apprezzamento della Corte di merito secondo cui il modello sarebbe burocratico e solo di facciata. Tale valutazione conferma la mancata analisi puntuale del contenuto del documento, che invece contiene tutte le regole ipotizzabili per impedire la commissione dei reati che la legge prevede come premessa alla responsabilità dell'ente. La valutazione dell'idoneità del modello non deve essere fatta con riferimento alle regole poste dalla normativa in tema di sicurezza e salute del lavoro ed alle procedure inerenti alla valutazione del rischio: si addiverrebbe in tal modo a duplicare una normativa estremamente complessa ed a rendere illeggibile il modello. Tale valutazione va fatta invece con riferimento ai principi ed alle procedure che regolano l'attività d'impresa, principi che il modello esprime in modo chiaro. Si tratta di un documento perfettamente adeguato a quanto successivamente disposto dal D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 30, comma 4 ove si enuncia che il modello deve prevedere un'articolazione di funzioni che assicuri le competenze tecniche ed i poteri necessari per la verifica, valutazione gestione e controllo del rischio, nonchè un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello.

8.3. Il terzo motivo denunzia erronea applicazione della legge penale anche per ciò che attiene all'irrogazione delle sanzioni ed alla loro quantificazione, nonchè difetto di motivazione in ordine al concetto di profitto.

I giudici di merito, si assume, hanno omesso di valutare il grado della colpa di organizzazione dell'ente. Il giudice d'appello ha aderito integralmente all'impostazione del primo giudice che ha fatto riferimento esclusivamente all'alto numero di vittime e quindi alla sola gravità dell'infortunio. Al contrario l'art. 11 del D.Lgs. n. 231 impone che la commisurazione della sanzione pecuniaria avvenga tenendo conto oltre che della gravità del fatto, anche del grado di responsabilità dell'ente e dell'attività svolta per eliminare o attenuare le conseguenze del fatto e per prevenire la commissione di ulteriori illeciti. In conseguenza si sarebbe dovuto valutare favorevolmente il notevole impegno profuso attraverso la redazione, risalente al 2003, ed al costante aggiornamento del modello; nonchè all'esistenza di un organismo di vigilanza autonomo ed operativo non inficiato dalla presenza dell'ing. c. che apportava competenze aggiuntive. La valutazione della colpa organizzativa dell'ente è inoltre avvenuta in modo del tutto formale, sulla base dell'equazione non condivisibile tra colpa degli imputati e colpa della persona giuridica. Ciò ha comportato l'irrogazione di una severa pena pecuniaria. Si è pure trascurato che il modello aggiornato aspettava solo la definitiva approvazione formale, comunque intervenuta nel (OMISSIS) e quindi in un momento ampiamente anteriore alla dichiarazione di apertura del dibattimento.

Anche la duplice sanzione interdittiva è stata applicata in regione dell'unico criterio della gravità del fatto, prescindendo da una valutazione sostanziale della responsabilità dell'ente, laddove l'art. 13, invece, richiama tutti i parametri previsti dall'art. 11.

La Corte territoriale erra pure nel ritenere il profitto nella misura di 800.000 Euro. Sul punto la motivazione della sentenza è soltanto apparente. Essa non tiene conto delle deduzioni difensive in ordine alla inconciliabilità della sanzione della confisca con la struttura del reato colposo. Ciò anche in ragione della incompatibilità della nozione di profitto con i delitti colposi, come del resto ritenuto in dottrina. Infine si deduce mancanza della motivazione sulla richiesta di eliminazione della sanzione della pubblicazione della sentenza facoltativa ed irrogata soltanto per la sua ulteriore afflittività.

9. Il ricorso di E..

9.1. Con il primo motivo si deduce violazione di legge per la mancata traduzione in lingua tedesca dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari, dell'atto di esercizio dell'azione penale e di quelli successivi. Si considera che il giudice di merito ha sbrigativamente risolto la questione assumendo la capacità degli imputati non italiani di comprendere la lingua nazionale. Tale apprezzamento sottovaluta il rilievo della questione. Il ricorso pone in luce il diritto dell'imputato di essere posto in condizione di comprendere in maniera dettagliata il contenuto dell'accusa. Tale diritto si ricava oltre che da diversi strumenti normativi internazionali, anche dell'art. 111 Cost., comma 3. Si tratta di un diritto soggettivo perfetto direttamente azionabile, giacchè costituisce espressione del diritto inviolabile alla difesa previsto dall'art. 24 Cost., comma 2.

Si evidenzia pure che il carattere fondamentale ed inviolabile conferito al diritto di difesa pone un vincolo interpretativo nel senso di attribuire un significato espansivo al diritto di comprensione dell'accusa, come ritenuto già dalla sentenza della Corte cost. n. 10 del 1993. Si è affermato che l'art. 143 cod. proc. pen. costituisce una clausola generale di ampia applicazione, destinata ad espandersi e specificarsi nell'ambito dei fini normativamente riconosciuti, di fronte al verificarsi delle varie esigenze concrete che lo richiedano. Ne deriva non solo il diritto all'assistenza di un interprete ma anche alla traduzione del decreto di citazione a giudizio. Enunciazioni di analogo tenore si rinvengono in pronunzie delle Corti internazionali.

L'applicabilità della normativa si fonda su un deficit di comprensione della lingua. Non è sufficiente una qualsiasi conoscenza, perchè è necessario che il livello di comprensione dell'idioma consenta all'accusato di intendere i fatti che gli vengono ascritti. Tale capacità va parametrata a quella di una persona di madrelingua di medio livello culturale. E' dunque obbligo dell'autorità procedente accertare il livello di comprensione della lingua anche in rapporto alla natura dei fatti, al contenuto ed alla complessità delle comunicazioni. La violazione di tale normativa implica una nullità a regime intermedio.

Dalle premesse discende che la giurisprudenza di legittimità che fa riferimento all'ignoranza della lingua non è perfettamente allineata alle statuizioni internazionali; e che comunque non può farsi luogo ad alcuna presunzione, essendo richiesta una seria verifica del grado di conoscenza parametrata alla complessità dell'imputazione e dei fatti. Tale accertamento grava sull'autorità procedente, cui compete l'onere di verificare l'esistenza del presupposto determinante la traduzione del capo di imputazione.

Alla luce di tali principi viene ritenuta apodittica e presuntiva l'ordinanza del 6 ottobre 2008 che ha desunto la conoscenza della lingua italiana da atti privi di complessità o da documenti relativi a rapporti abituali e ripetitivi afferenti alla quotidianità del lavoro svolto. Si sono trascurate le deduzioni difensive che segnalavano l'imponente numero di comunicazioni dell'imputato in lingua straniera, a fronte di poche e-mail in italiano. Anche i documenti a lui diretti erano redatti in inglese, fatta eccezione per alcune comunicazioni provenienti dal suo ufficio costituito da segretarie di nazionalità italiana.

L'eccezione veniva reiterata in dibattimento e successivamente parzialmente accolta con la traduzione in italiano di specifici documenti indicati dalle difese; e con la nomina di un interprete in occasione dell'esame degli imputati di lingua tedesca. Vengono dunque impugnate le ordinanze del Giudice dell'udienza preliminare in data 6 ed 8 ottobre 2008 e quella della Corte di assise del 10 febbraio 2009.

L'impugnazione rimarca la diversa situazione normativa che riguarda il cittadino italiano appartenente ad una minoranza linguistica riconosciuta, che prevede, a richiesta, l'interrogatorio e l'esame nella madrelingua riconosciuta nonchè la traduzione nella stessa lingua degli atti del procedimento a lui indirizzati. L'inosservanza di tali disposizioni è sanzionata da nullità. Anche l'accusato appartenente ad altra nazionalità può chiedere di essere interrogato ed esaminato nella propria lingua, ma l'accesso a questa facoltà resta affidato alle scelte dell'autorità che ben può negarne l'esercizio, come è accaduto nel caso in esame, in via apodittica e con semplicistiche deduzioni. Si configura dunque una disparità di trattamento che sollecita l'intervento riparatore della Corte costituzionale.

9.2. Con il secondo motivo si deduce nullità della sentenza per violazione di legge a causa dell'omessa traduzione in italiano di numerosi atti processuali in lingua straniera. Nel corso delle indagini è stata acquisita copiosa documentazione anche in inglese e tedesco. Solo parte di tali atti, ritenuta rilevante, è stata tradotta in italiano. Le difese hanno conseguentemente eccepito la nullità dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari, essendo mancata la possibilità di comprendere le basi dell'accusa e di esercitare consapevole partecipazione al processo nonchè di apprestare una compiuta difesa, con conseguente nullità generale a regime intermedio. In particolare sono state compromesse le scelte difensive, quelle afferenti ai mezzi di prova da richiedere ex artt. 468 e 190 cod. proc. pen., quelle attinenti ai riti alternativi, quelle afferenti alla predisposizione del contraddittorio. Ciò ha determinato la compromissione della parità delle parti e della terzietà del giudice in violazione dell'art. 111 Cost..

Il G.i.p. ha respinto la richiesta di traduzione, ritenendo che essa sia subordinata alla rilevanza anche ai fini della decisione ed abbia luogo solo quando occorre. Tale rilevanza costituisce criterio discretivo, non previsto dall'art. 143 c.p.p., comma 2.

Speciosa viene poi ritenuta la distinzione tra atti compiuti nel procedimento, da formare in italiano, ed atti formati fuori del procedimento. In realtà, ai sensi dell'art. 143, la traduzione è connessa alla necessità della comprensione, anche se il giudice intende la lingua. L'espressione legale "quando occorre" esclude la traduzione solo quando un atto non sia in alcun modo preso in considerazione, neppure per espungerlo come irrilevante. Nel caso di specie tale irrilevanza era esclusa dallo stesso sequestro. Dunque, nessuna dimostrazione di rilevanza poteva essere richiesta alla difesa.

Il P.M., non si comprende bene con quali strumenti, ha curato la traduzione di alcuni atti, ma non è stato chiarito quale criterio abbia guidato la selezione: gli atti erano tutti rilevanti perchè necessariamente afferenti al reato ed al corpo del reato; erano tutti potenzialmente utilizzabili.

E' stato conseguentemente vulnerato il diritto di difesa, in relazione agli artt. 109, 143 e 242 cod. proc. pen.. Dal complesso di tali disposizioni emerge il principio che la possibilità di non disporre la traduzione è confinata alle situazioni nelle quali il significato del documento sia chiaro a tutte le parti ed al giudice.

9.3. Il terzo motivo deduce violazione di legge, vizio della motivazione e travisamento delle prove per ciò che attiene alla veste di garante in capo al ricorrente.

L'imputato aveva la qualità di amministratore delegato anche in tema di produzione e sicurezza sul lavoro e rivestiva conseguentemente la veste di datore di lavoro. Esisteva, tuttavia, un'articolata serie di deleghe, che i giudici di merito hanno ritenuto erroneamente inefficaci. In particolare era stata conferita delega ai dirigenti M. e S. in materia di igiene e sicurezza sul lavoro e di tutela dell'ambiente. Secondo la Corte di assise di appello si tratterebbe di deleghe prive di ampiezza e di autonomia di spesa, non accompagnate, inoltre, dal doveroso controllo.

In un organismo complesso come TKAST l'esercizio della delega era pienamente giustificato. La materia trova utile base normativa nell'art. 16 del T.U. n. 81 del 2008. Ma la Corte ha omesso radicalmente di valutare le deleghe in favore di M. e S.. Si configura al riguardo mancanza della motivazione.

Quanto alla delega a M., il primo giudice ne aveva ritenuta l'inefficacia per difetto di disponibilità economica autonoma. In realtà si assegnava un budget e qualora esso fosse insufficiente si prevedeva l'informazione all'AD per i provvedimenti di competenza.

Quanto a S., oltre all'assenza di autonomia economica si è attribuito rilievo all'ingerenza dell'AD. In realtà la delega prevedeva il compimento di atti nei confronti della pubblica amministrazione necessari per l'osservanza di norme; la rappresentanza della società nei confronti di soggetti titolari di poteri di controllo; il potere di acquistare impianti, macchinari ed altro nel limite di un miliardo di lire; il potere di stipulare contratti di appalto e simili. La pronunzia non ne ha tenuto conto.

In linea di principio il ricorso considera che il conferimento di poteri di spesa non può essere senza limiti, in bianco, soprattutto in aziende di grandi dimensioni: tale potere è riservato al consiglio di amministrazione. Il potere di spesa utile per rendere una delega valida è quello relativo ai compiti delegati.

Il budget è connesso al potere e solo quando esso si riveli insufficiente è previsto l'intervento dell'organo centrale. La difesa si è soffermata a lungo a descrivere le modalità di formazione del budget e del contributo che i responsabili dei vari centri di costo erano chiamati ad offrire, ma la Corte non fa alcun cenno alle prove fornite su questo importante tema. Quanto a M. si tace; per S. si fa confuso riferimento a un testimoniale per concludere sull'esistenza di budget a firma singola di 30.000 Euro. Si è omesso di dimostrare che una autonomia limitata a 30.000 Euro comporta l'inefficacia della delega, non essendo stato chiarito quali costi non sia stato possibile affrontare per effetto di tale limitazione.

In ogni caso le incertezze testimoniali al riguardo devono ritenersi superate alla stregua del dato documentale. Il ricorso analizza le modalità di formazione del budget che viene infine approvato dal Consiglio di amministrazione; per giungere alla conclusione che S. aveva il potere di attivarsi per richiedere le risorse ritenute necessarie e di spendere i cespiti in relazione ai fini, compresi quelli afferenti alla sicurezza del lavoro. Le scelte del delegato non erano sindacabili. Discorso analogo viene proposto per M. nella veste di responsabile dell'area tecnica. Inoltre S. era titolare di un potere di spesa per acquisti ed appalti non iscritti nel budget nel limite di un miliardo di lire. D'altra parte la previsione di firme congiunte di diverse figure non mette in discussione la delega, posto che il delegante non controfirmava.

A riprova si rammenta che nel procedimento relativo ad un incendio verificatosi nel 2002 la Suprema Corte ha ritenuto valida ed efficace una delega analoga a quella conferita a S..

L'imputato, infine, ha esercitato il prescritto dovere di vigilanza che non va inteso come vigilanza su fatti specifici ma sulla complessiva organizzazione. Egli esercitava verifiche sia verbali che con visite periodiche nello stabilimento; e, pertanto, poteva essere chiamato a rispondere solo in ordine al dovere non delegabile di valutazione dei rischi. Erronea è dunque la sua affermazione di responsabilità.

9.4. Col quarto motivo si censura la tesi secondo cui il documento di valutazione dei rischi sarebbe caratterizzato dalla dissimulazione dei pericoli concreti al fine di limitare l'entità delle misure precauzionali. La pronunzia non espone alcun concreto elemento di prova di un fatto che avrebbe richiesto il coinvolgimento di diverse persone. Manca completamente la prova che sia intervenuto un accordo dissimulatorio. La valutazione del rischio risulta idonea e corretta.

Si è argomentatamente documentato che l'atto riguardava l'intero stabilimento e che l'unica linea ad alto rischio era quella che utilizzava metano ed idrogeno. La valutazione riguardava anche la linea APL5, compresa la sezione di ingresso.

Erronee ed inconferenti sono le valutazioni della Corte sul punto: si utilizzano elementi probatori equivoci e distorti. E si perviene a ritenere, stravolgendosene il contenuto, che la relazione Lu.

abbia previsto il flash fire. Conclusione erronea, immotivata e distorta.

Per ciò che riguarda la ritenuta classificazione di stabilimento ad alto rischio di incendio ai sensi del D.M. 10 marzo 1998 si è trascurato che l'art. 2 prevede, se del caso, la valutazione di singole parti del luogo classificandole separatamente in relazione al rischio. La valutazione di rischio del 22 maggio 2007 riguarda le macroaree, comprese le linee di trattamento ed i laminatoi. In particolare la sezione di ingresso della linea APL5 è stata valutata correttamente in relazione a tutti gli elementi di rischio possibili adottando le opportune prescrizioni, quali idranti ed estintori.

La Corte ritiene che erroneamente sia stata espressa la classificazione di rischio medio. E' ad alto rischio chi manipola materie infiammabili. Non lo è l'addetto alla linea che controlla lo svolgimento del rotolo di acciaio, poichè l'eventuale principio di incendio della carta o dell'olio impiega tempo prima di evolvere in una situazione pericolosa e dunque non vi è ostacolo all'allontanamento. L'evento non si sarebbe verificato se si fosse data esecuzione al piano di emergenza e se l'addetto, che era presente, avesse correttamente tolto tensione elettrica e chiuso la valvola del gas.

Inoltre, si è trascurato che nella linea APL5 non erano presenti materiali infiammabili e che vi era quindi basso rischio di incendio.

La situazione all'atto del sinistro non era diversa da quella precedente. Nè erano variate le istruzioni in ordine alla manutenzione ed alla pulizia. Neppure vi erano ragioni per rielaborare la valutazione del rischio. L'impugnazione sintetizza le misure adottate in ordine alla detta linea sottolineandone l'adeguatezza: fatto completamente ignorato dalla Corte di assise di appello.

Il ricorso sottolinea pure che il non delegabile obbligo di valutazione del rischio implica anche la cooperazione di professionista idoneo cui viene affidata la redazione del documento, che il datore di lavoro successivamente sottopone ad analisi critica.

L'imputato ha adempiuto a quanto dovuto, adottando gli aggiornamenti e le revisioni richieste. Nulla induce a ritenere l'esistenza di un documento dolosamente falso.

Quanto al piano di emergenza, il ricorso confuta analiticamente l'asserto del giudice d'appello secondo cui l'atto fosse inadeguato soprattutto per ciò che riguarda il difetto di formazione. In particolare era prevista l'interruzione di qualunque attività meccanica ed elettrica che sarebbe stata risolutiva, azionando l'apposito pulsante. Probabilmente ciascuno ritenne che altri lo avesse fatto; e la squadra di emergenza non venne neppure allertata.

D'altra parte, il personale presente quella sera aveva ricevuto il piano di emergenza, aveva partecipato a riunioni di sicurezza in cui tale piano era stato illustrato e il sig. Ma., che pur non conosceva a fondo la linea APL5, era destinatario di tale piano ed aveva avuto occasione di illustrarlo ai dipendenti nella sua qualità di capoturno. A fronte di tali deduzioni la Corte di merito ha senza ragione ritenuto la caoticità, opinabilità ed inapplicabilità nonchè il mancato aggiornamento del documento, trascurando che la sua rielaborazione è richiesta solo in occasione di modifiche del processo produttivo che nella fattispecie non si configuravano.

L'imputato, si aggiunge, in virtù delle deleghe conferite non aveva alcun compito di formazione ed informazione dei lavoratori. Semmai gli spettava un onere di verifica e controllo. E' comunque pacifico che l'attività di formazione ed informazione del personale è stata svolta sia all'interno che all'esterno dell'azienda. La Corte non motiva in ordine ad un presunto difetto di controllo sulla regolarità della formazione da parte dell'imputato.

Per ciò che riguarda l'impianto di rilevazione e spegnimento, si rammenta che il giudice individua la fonte dell'obbligo giuridico nel D.Lgs. n. 626 del 1994 e, nel D.M. 10 marzo 1998; e vi coglie un rinvio all'esperienza del datore di lavoro sui propri impianti, nonchè ai risultati della tecnica di settore accreditata a livello mondiale. E' il richiamo che la legge fa alle regole tecniche a conferire loro la forza di precetto giuridico. Il ricorrente ritiene che i giudici di merito abbiano erroneamente applicato il dettato normativo, poichè il richiamato decreto ministeriale non è applicabile alle aziende a rischio di incidente rilevante come quella in esame. L'articolo 1, infatti, precisa che a tali aziende si applicano esclusivamente le prescrizioni contenute negli artt. 6 e 7 che riguardano la formazione degli addetti.

I giudici di merito non hanno considerato che la metodologia più sofisticata per la valutazione dei rischi di incendio è quella richiesta per il rapporto di sicurezza all'interno del quale la stessa valutazione è inserita, ai sensi del D.Lgs. n. 334 del 1999.

E che ai sensi del D.Lgs. n. 626 e della normativa delegata non vi era obbligo di installare un sistema di rilevazione e spegnimento nella linea APL5. Il ricorso evoca le principali normative in materia, escludendo che esse prescrivessero la misura in questione.

La sentenza d'appello, constatando tale situazione, contraddice le proprie premesse volte a rinvenire un preciso obbligo giuridico e valorizza alcuni presunti indicatori di rischio di incendio: le esperienze aziendali, i richiami formulati dalla TKL, la relazione stilata dagli ingegneri della compagnia AXA che doveva assicurare gli impianti. La Corte di merito non comprende che tali richiami, comunque mai afferenti all'obbligo di installazione dell'impianto in questione, non costituivano fonti di doveri giuridici; e si limitavano a richiamare l'obbligo di aggiornamento tecnico- scientifico. Il giudice di merito ha ritenuto l'esistenza di un obbligo di azzeramento o riduzione del rischio ai sensi dell'art. 3 del D.Lgs. n. 626, trascurando che le normative impongono una prevenzione primaria consistente nell'evitare la presenza di materiale infiammabile ed eliminare le possibili fonti di innesco.

Solo qualora non si possa intervenire sulle cause si deve adottare un sistema di prevenzione secondario sugli effetti, e quindi di rilevazione e spegnimento. Nel caso di specie i materiali combustibili erano la carta e l'olio di gocciolamento e trafilamento, in ordine ai quali è possibile intervenire radicalmente per evitare che i combustibili si disperdano e diventino pericolosi per l'innesco di un incendio; e così si è fatto, con accorgimenti che il ricorso indica analiticamente. Solo la contemporanea presenza di varie anomalie ha consentito l'innesco dell'incendio. Non si può dedurre con il senno di poi la sussistenza di un obbligo di carattere secondario quando risultano adottate le opportune prevenzioni primarie e soltanto a causa di numerose imprevedibili anomalie le stesse sono state eluse. Si trascura pure che la linea APL5 è stata progettata nel 1989 ed installata nel 1990, è stata attiva per 17 anni a ciclo continuo e non si comprende perchè si sia ritenuta l'esistenza di un obbligo a partire dal giugno 2006 come contestato in imputazione. Se una norma di legge o una norma tecnica avessero imposto l'obbligo di installare il sistema di rilevazione e spegnimento, esse avrebbero dovuto prevederne l'adozione sin dal momento dell'installazione e per tutta la durata del servizio. La sentenza non chiarisce tale insanabile contraddizione.

Il ricorso affronta un ulteriore argomento relativo alla posticipazione degli investimenti antincendio per lo stabilimento di (OMISSIS). Si evidenziano i documenti afferenti agli stanziamenti e le comunicazioni interne che ridiscutono la questione e si concludono con la formalizzazione della lista dei progetti inoltrati alla casa madre. Da tali documenti la Corte di assise di appello ricava erroneamente la prova che l'imputato posticipò gli interventi antincendio sugli impianti di (OMISSIS) dall'esercizio (OMISSIS) a quello successivo. La verità è che lo spostamento in avanti, peraltro di soli cinque mesi, si riferisce esclusivamente a lavori strutturali ed immobiliari nonchè alla sostituzione di alcuni materiali plastici, che non ha alcuna attinenza con i fatti oggetto del processo; mentre la somma di 1 milione di Euro destinata allo stabilimento di (OMISSIS) non è mai stata posticipata ma è sempre rimasta appostata nell'esercizio (OMISSIS).

Infine, erroneamente è stato valutato dalla Corte di merito il tema della posticipazione dell'investimento per l'adeguamento della linea APL5 di (OMISSIS). Si è trascurato che mai la società assicuratrice ed i vigili del fuoco richiesero di proteggere la sezione di entrata della linea e che gli 800.000 Euro erano da spendere totalmente nell'area di decapaggio.

9.5. Il quinto motivo censura il ritenuto nesso causale. Erroneamente la Corte di assise di appello afferma che il rilievo eziologico, in ordine ai reati di incendio ed omicidio, delle condotte contestate agli imputati possa essere accertato alla stregua della regola delle significative, apprezzabili possibilità di successo nello scongiurare il danno; anche se in un vicino passaggio argomentativo si ispira alla distinta regola della ragionevole certezza. La Corte, inoltre, è irrazionalmente andata a ritroso nella ricerca delle cause delle cause, secondo un paradigma estraneo al giudizio penale e proprio, invece, del naturalista.

La sentenza indica numerosi addebiti colposi in tema di adeguamento della completa valutazione del rischio, di formazione dei lavoratori, di installazione di un sistema automatico di rilevazione e spegnimento, di posticipazione di investimenti antincendio e particolarmente di quelli afferenti alla linea APL5; ed assume che tali mancanze evidenziano il nesso causale rispetto all'evento. La valutazione viene ritenuta erronea. L'avere proceduto nella lavorazione in assenza del certificato di prevenzione incendi non ha alcuna attinenza causale con gli eventi contestati, come emerge dalla copiosa documentazione afferente alle interlocuzioni con i vigili del fuoco. Vengono anche analiticamente indicati gli interventi eseguiti.

Se ne inferisce che lo stabilimento di (OMISSIS) rientrava fra le industrie a rischio di incidente rilevante a causa dell'utilizzo nelle sue lavorazioni di acido fluoridrico, idrogeno e metano ed era soggetto agli obblighi di cui al D.Lgs. n. 344 del 1999, art. 8 in relazione alla detenzione dell'acido. La maggior parte degli interventi migliorativi è stata eseguita. Gli interventi non ancora conclusi, di natura strutturale ed immobiliare, non hanno avuto alcun ruolo nella dinamica dell'evento.

Neppure le eventuali inesattezze o carenze del documento inerente alla valutazione del rischio assumono rilievo causale. Ove pure si voglia ipotizzare che la valutazione del rischio ed il relativo documento fossero confusi e difettosi, occorrerebbe dimostrare con ragionevole certezza che una diversa valutazione e l'adozione di un diverso documento avrebbe impedito gli eventi. La Corte non motiva sul punto e basa il proprio ragionamento sulla indimostrata decisione di falsificare dolosamente il documento. Considerato che il documento viene redatto con la collaborazione di un esperto, non si rinviene alcuna effettiva motivazione in ordine ai profili di carenza dell'atto e soprattutto sull'elevato grado di credibilità razionale del giudizio circa l'idoneità di tali presunte misure precauzionali ad evitare gli eventi. La pronunzia trascura completamente che l'evento è stato la conseguenza di una serie di anomalie che si sono sovrapposte e che non potevano essere riconosciute e prese in considerazione da nessuna analisi preventiva dei rischi.

Ancora, l'installazione di un sistema di rilevazione e spegnimento non avrebbe, con elevato grado di credibilità razionale, impedito gli eventi. Il giudice di merito ha argomentato che se il sistema fosse stato in atto, gli operai sarebbero stati avvisati dell'innesco dell'incendio, non vi sarebbe stata l'esposizione protratta del flessibile all'effetto termico che lo fece collassare e soprattutto sarebbe stato diverso il loro comportamento perchè, dato l'effetto estinguente del sistema automatico, essi non si sarebbero affatto avvicinati al focolaio. La Corte di merito trascura che la struttura ha dimensioni imponenti. E' oggettivamente impossibile prevedere un sistema di rilevazione e spegnimento in grado di coprire ogni singolo punto dell'impianto e di interrarlo in maniera tale da renderlo compatibile con la lavorazione.

In conclusione, non è per nulla dimostrato che l'impianto in questione avrebbe ottenuto gli effetti ipotizzati e la pronunzia ha pure trascurato che nessuno dei lavoratori, ad eccezione del responsabile dell'emergenza Ma., si sarebbe dovuto avvicinare alle fiamme.

Si trascura pure che l'imputato ha adempiuto l'obbligo di controllo sulle funzioni delegate in tema di formazione e informazione; nè si motiva sull'efficienza causale di un'eventuale carenza di controllo.

Infine, la sentenza evidenzia ulteriori profili di violazione di norme cautelari in nesso causale con gli eventi ma non ne precisa la riferibilità al datore di lavoro. Infatti le questioni concernenti il risparmio di carta, l'assenza di manutenzione e la mancanza di estintori a lunga gittata sono afferenti a materie correttamente delegate.

9.6. Col sesto motivo si argomenta che l'addebito colposo richiede la dimostrazione che l'agente fosse in grado di prevedere che la sua condotta avrebbe avuto le conseguenze che si sono concretizzate; e altresì di evitarne la verificazione. La Corte di merito ha correttamente analizzato i numerosi differenti fattori che, concatenatisi, hanno determinato l'incendio, ma ha omesso di valutare alcuni temi prospettati dalla difesa.

Vengono quindi analizzati in dettaglio i singoli fattori considerati.

In particolare lo sfregamento del nastro fu dovuto al fatto che esso non era correttamente centrato sull'asse della linea. La correttezza di tale collocazione è segnalata da una lampadina che dopo l'incidente è risultata rotta, e che è possibile si sia bruciata in conseguenza dell'incendio. Inoltre l'aspo si trovava in posizione completamente traslata verso il lato dell'operatore a causa della posizione del relativo carrello. In conseguenza, lo sfregamento del nastro non è riconducibile ad una normale operazione lavorativa ma è stato determinato da una scelta probabilmente volontaria ma certamente erronea degli operatori e da loro grave dimenticanza. Il carrello andava riposizionato in centro ma ciò non è stato fatto prima dell'avvio in automatico della linea. Mai si sarebbe dovuta avviare la lavorazione in automatico con il carrello in tale inidonea posizione. L'azionamento di un apposito pulsante centra automaticamente il carrello e determina automaticamente il centrarsi dell'asse del nastro rispetto all'asse della linea; ma la Corte di merito, ignorando tali pacifiche circostanze, omette di individuare i motivi comportamentali che hanno determinato lo sfregamento del nastro trascurando conseguentemente di motivare su un punto decisivo.

Inoltre la carta non deve essere mai dispersa sulla linea. Tale inconveniente si è verificato di rado e per fronteggiare il pericolo di incendio dovuto alla minima eventualità di presenza di tale materiale sono state adottate diverse misure che vengono analiticamente indicate. La Corte di merito erra, quindi, quando afferma che c'era una grande quantità di carta sulla linea ma non era possibile azzerare il rischio pertinente a causa del suo continuo accumularsi sotto gli impianti. In realtà solo una pratica operativa impropria poteva determinare la dispersione della carta lungo la linea. L'imputato non è mai stato informato di tale circostanza e non poteva neppure immaginare che si fosse determinata una prassi scorretta al riguardo. Lo stesso Procuratore Generale ha riconosciuto che il ricorrente aveva una visione delle condizioni delle linee e dei relativi problemi meno dettagliata rispetto ai soggetti che vi operavano. Sbaglia quindi la Corte ad attribuire a tutti gli imputati lo stesso livello di conoscenza delle circostanze di fatto ed a fondare su tale apodittica affermazione una inesistente consapevolezza di prassi operative scorrette. Il rimedio per fronteggiare tale situazione non consisteva peraltro nell'installare un impianto di rilevazione e spegnimento, bensì nell'esigere il rispetto della norma di prevenzione primaria volta ad evitare la dispersione della carta lungo la linea, utilizzando gli strumenti predisposti.

Si considera ancora che il riavvolgimento della carta è controllato da un sistema a fotocellula che deve essere collocato nella posizione "automatico" al momento dell'avvio della lavorazione della linea, mentre nella specie lo stesso selettore era erroneamente posizionato sulla modalità manuale. Inoltre l'olio può fisiologicamente trafilare, gocciolare, ma deve essere immediatamente rimosso dalla ditta specializzata all'uopo incaricata, che in effetti è intervenuta nel corso del pomeriggio. Lo sfregamento del nastro contro la carpenteria metallica si è verificato a lungo; e se gli addetti non si fossero trovati tutti nel pulpito si sarebbero certamente accorti del rumore, dello sfregamento e della relativa produzione di scintille. Nessun addetto si era accorto che il selettore dell'avvolgimento carta era rimasto erroneamente nella posizione manuale.

Nessuno si è accorto che lo sfregamento aveva provocato l'innesco di carta nella zona dove scorreva l'olio, nessuno si è accorto che la carta, cadendo, aveva incendiato altra carta posizionata sotto la spianata. Nessuno infine si è accorto che una pozza di olio si era incendiata.

Alla stregua di tali dettagli si considera che mancava la prevedibilità ed evitabilità dell'evento alla stregua del modello ideale di agente.

A tale riguardo si evoca il problema della descrizione dell'evento, nella quale vanno collocate solo alcune particolarità del caso. Si considera altresì che la prevedibilità non deve essere accertata rispetto al solo l'evento ma anche in relazione al decorso causale almeno nelle sue linee essenziali. Si tratta quindi di verificare se lo svolgimento causale concreto fosse riconducibile allo spettro di rischi considerati dalla regola violata. Tale orientamento espresso in dottrina è stato anche confermato dalla giurisprudenza di legittimità.

Si argomenta che lo svolgimento eziologico è il frutto di fattori eccezionali che incidono inevitabilmente oltre che sulla causalità, pure sul profilo della colpa ed in particolare sulla prevedibilità dell'evento. La presenza di numerosi eccezionali anelli causali che legano i singoli accadimenti lungo il decorso causale ha una grande influenza ai fini del giudizio sulla prevedibilità. Più in generale il fenomeno del flash fire rappresenta un accadimento estremamente raro e certamente imprevedibile dal punto di vista statistico e comunque assolutamente estraneo rispetto al rischio che la normativa cautelare era finalizzata a prevenire. Non vi è stata dunque alcuna concretizzazione del rischio e manca quindi la possibilità di muovere il rimprovero colposo.

L'impugnazione affronta inoltre il tema della colpa dei lavoratori.

La difesa non ha sostenuto che il comportamento degli operai sia stato abnorme e tale da interrompere il nesso causale. Si è viceversa evidenziato che le innumerevoli anomalie riferibili ad alcuni lavoratori rilevano ai fini della prevedibilità e prevenibilità dell'evento. La sentenza trascura la specifica doglianza difensiva ed omette di motivare sul punto.

La pronunzia ignora i dettagli della sequenza causale anomala: in primo luogo la posizione del catarifrangente sulla fotocellula preposta alla verifica della presenza del nastro. Sbaglia la Corte di merito a ritenere irrilevante la circostanza. Oltre a ciò, l'impianto in quella fase presentava diverse oggettive irregolarità che vengono analiticamente rammentate. I lavoratori che avevano determinato tali anomalie comunque non ne avevano verificato la sussistenza, non avevano provveduto alla loro eliminazione; ed al momento dell'avvio della linea essi non si trovavano al posto di lavoro, non verificavano il corretto svolgimento del nastro, e non si avvedevano dunque di ciò che andava accadendo. La sentenza impugnata non considera adeguatamente tali rilevanti circostanze e non si pone la domanda sulla prevedibilità da parte del datore di lavoro di una serie di comportamenti tanto negligenti ed imprudenti dei lavoratori.

9.7. Il settimo motivo attiene alla ritenuta colpa cosciente. La Corte di merito trascura di considerare che nello stabilimento si sono verificate solo piccole accensioni di materiale, di solito in prossimità della saldatrice, ove vi era la possibilità di innesco determinato dalla stessa operazione di saldatura. Non costa invece che siano mai state coinvolte chiazze di olio o ristagni di materiale combustibile. Tale situazione, che era ben nota, non presentava particolari caratteristiche di pericolosità proprio perchè limitata ad una particolare zona dell'impianto. Invece, durante la lavorazione del nastro non vi è presenza di innesco. L'affermazione che tali piccoli fuochi siano aumentati negli ultimi tempi è genericamente tratta da un testimoniale che non ha saputo precisarne i termini.

Neppure il consumo degli estintori è un dato significativo, considerata la necessità di continue revisioni. Altri tre episodi specifici citati da un teste sicuramente di maggior rilievo è da presumere siano stati gestiti in base alle procedure indicate nel piano di emergenza. In conseguenza la pronunzia risulta illogica.

9.8. L'ottavo motivo tratta l'omissione dolosa di cautele antinfortunistiche.

Riprendendo le precedenti argomentazioni il ricorrente insiste nel dedurre che nessuna norma giuridica imponeva la realizzazione dell'impianto di rilevazione e spegnimento. La Corte si riferisce altresì ad altre situazioni che evidenziavano il rischio e la necessità dello strumento in questione, ma trascura che tali circostanze non sono dotate di quel carattere di imperatività che è in grado di costituire il dovere giuridico. E' d'altra parte singolare che l'addebito venga mosso con riferimento temporale al giugno 2006 quando la linea APL5 fu installata in (OMISSIS) già nel 1990 ed ha funzionato ininterrottamente per circa 17 anni.

Altrettanto erroneamente è stata ritenuta l'esistenza del dolo del reato. L'incendio di (OMISSIS) presenta caratteristiche per nulla sovrapponibili a quello in esame, anche per la radicale diversità delle strutture. E comunque, successivamente, non è stato realizzato alcun impianto generalizzato di rilevazione e spegnimento, ma le singole zone sono state prese in esame e regolate distintamente.

Nessun presidio del genere risulta essere stato istallato nella zona del rullo avvolgitore della spianatrice. In tale incendio non vi è stato flash fire e si sono posti problemi di sicurezza diversi.

Quanto alla decisione del Comitato esecutivo illustrata il 17 febbraio 2007 a (OMISSIS), la Corte travisa i fatti: gli sprinkler sono solo nella zona di ingresso a bordo linea e non lungo la linea. Tale conclusione è stata raggiunta per tutte le linee compresa quella di (OMISSIS); ciò perchè in tale zona non vi è pericolo di innesco di incendio. Le valutazioni compiute possono essere anche erronee o incomplete, ma esse riguardano comunque tutti gli stabilimenti e non è quindi possibile ritenere che per le linee di (OMISSIS) sia stato assunto un atteggiamento deteriore. Anche la relazione Lu. si riferisce comunque solo alle zone serbatoi- motori delle centrali idrauliche.

Quanto ai tre documenti delle società assicuratrici, si trascura che essi hanno preso in considerazione i gruppi motori ed i serbatoi e non le sezioni di alimentazione. Ogni linea dispone di centinaia di flessibili, ma nelle indicazioni delle assicurazioni come in tutti gli altri documenti acquisiti non vi è alcuna prescrizione specifica al riguardo; e ciò perchè non era prevedibile l'innesco nelle zone servite dai flessibili e perchè non esisteva alcun precedente paragonabile a quello di (OMISSIS). I documenti in questione legittimavano la previsione di interventi di tipo manuale in presenza di fuochi nelle zone accessibili dell'impianto.

Per ciò che attiene alla richiesta di autorizzazione agli investimenti "step 2" del 5 ottobre 2007, considerato che essa afferiva prevalentemente alle strutture dello stabilimento, nessuna delle indicazioni fornite avrebbe inciso sullo sviluppo dell'incendio. Dunque, neppure qui emerge alcunchè sul trattamento deteriore dello stabilimento di (OMISSIS).

Per ciò che attiene alle opere realizzate a (OMISSIS) dopo l'incendio di (OMISSIS) si argomenta che gli interventi attuati, sebbene assai complessi, non prevedono l'attivazione degli sprinkler in presenza di focolaio sotto la linea non prossima alla centralina. Neppure è previsto l'intero blocco delle pompe o la messa in quiete del sistema. Lo spegnimento delle pompe con la conseguenza di scongiurare il getto di olio ancora oggi è ottenuto con intervento manuale e segnatamente con l'attivazione del pulsante di emergenza, che chiude tutte le valvole dei circuiti scongiurando la proiezione di olio. In conclusione in nessun impianto è stata prevista una protezione estesa all'intera utenza, ma ci si è concentrati sulle centrali oleodinamiche. Dunque, sia valutando ex ante, sia facendolo ex post, sono state assunte soluzioni tecniche tali da scongiurare il ripetersi della situazione verificatasi.

In conclusione non vi era obbligo di realizzare l'impianto di spegnimento automatico sulla linea. Ed è palesemente erroneo l'assunto espresso in sentenza secondo cui 800.000 Euro servivano per realizzare l'impianto ma solo una volta che esso fosse trasferito a (OMISSIS). L'asserto della Corte è fondato sul travisamento di alcune acquisizioni documentali che invece dimostrano il contrario: mai la realizzazione dell'impianto automatico di rilevazione e spegnimento era stata ipotizzata. Le richieste di finanziamento afferivano a lavori di protezione di coperchi e tubi nonchè ad interventi di tipo immobiliare.

9.9. Il nono motivo attiene al concorso formale fra i reati di cui agli artt. 437 e 589 cod. pen.. Si ripetono argomenti sostanzialmente sovrapponibili a quelli espressi dall'ente (p. 8.1.).

9.10. Il decimo motivo censura la pronunzia quanto alla sua logicità per ciò attiene alla determinazione della pena. Pur in presenza dell'integrale risarcimento del danno e delle attenuanti generiche, la Corte, travisando la valutazione del compendio probatorio, afferma l'estrema gravità della colpa per via dei motivi economici posti alla base del reato ed applica la pena massima. La tesi della gravità della colpa, si assume dalla difesa, è confutata da tutto quanto esposto nel corpo del ricorso. La Corte stessa, inoltre, ha omesso di valutare i fattori di segno positivo quali la acclarata condotta colposa delle stesse vittime. Il giudice avrebbe dovuto operare una attenta ponderazione comparativa dei fattori, integrando la valutazione delle singole posizioni soggettive, come ritenuto ripetutamente in giurisprudenza. Si espongono i plurimi gravi errori colposi commessi dai lavoratori e si censura la Corte di merito per aver escluso apoditticamente qualsiasi apporto causale di tali condotte, condividendo il giudizio di eroismo espresso dalla prima Corte. Tale apprezzamento ingiustificatamente severo coglie tutti i profili di determinazione della pena: l'aumento a titolo di concorso formale rispetto alla pluralità delle vittime, nonchè l'aumento per la continuazione. Una obiettiva valutazione dei fatti alla stregua delle prospettazioni difensive avrebbe dovuto condurre a ritenere un grado di colpa a tutto concedere, secondario e trascurabile. Inoltre l'incensuratezza ed il positivo comportamento processuale avrebbero dovuto determinare il giudizio di prevalenza delle attenuanti sulle aggravanti.

10. Il ricorso di M..

10.1. Con il primo motivo si censura la mancata traduzione in italiano di documenti redatti in tedesco o in inglese. Tale carenza è stata subito segnalata sin dalla fase dell'udienza preliminare ed ancora all'apertura del dibattimento con una specifica indicazione degli atti in questione. L'esigenza di traduzione è emersa anche nel corso dell'istruttoria dibattimentale, tanto che infine la stessa Corte di assise ha dovuto disporre la traduzione. La Corte ha erroneamente ritenuto che il sistema processuale, nella materia che interessa, è caratterizzato dall'onere di allegazione, che incombe sulla parte; cioè di illustrare la rilevanza del documento da tradurre nonchè di specificare la effettive concreta lesione del diritto di difesa.

Si considera criticamente che tale onere di allegazione è logicamente impossibile, giacchè la rilevanza di un documento non può essere apprezzata se non se ne conosce il contenuto. D'altra parte l'art. 109 cod. proc. pen., come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità, chiarisce che l'obbligo della lingua italiana si riferisce agli atti da compiere nel procedimento e non ai documenti già formati, a meno che la loro utilizzazione possa pregiudicare i diritti dell'imputato e sempre che questi abbia eccepito il concreto pregiudizio derivante dalla mancata traduzione.

Nel caso di specie il G.u.p. era investito di tale giudizio e la rilevanza della documentazione era insita nel fatto che essa era stata sequestrata in quanto corpo del reato o cosa pertinente al reato. La mancata traduzione ha implicato l'impossibilità di assumere una decisione informata sulla scelta del rito.

Tale ricostruzione del sistema trova conferma, secondo il ricorrente, nel D.P.R. 16 luglio 1988, n. 574, art. 18-bis, in tema di diritto alla lingua del processo per i cittadini italiani di lingua tedesca residenti nella provincia di Bolzano, che prevede l'obbligo di traduzione di tutti i documenti a pena di nullità assoluta. A tale riguardo vengono evocate le modifiche a tale atto normativo prodotte dal D.Lgs. 15 giugno 2005, n. 124, che ha modificato, all'art. 3, l'art. 15, prevedendo che i documenti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, nonchè le consulenze tecniche e le perizie che siano in lingua diversa da quella del procedimento siano tradotte a richiesta di parte. Il successivo art. 4 ha a sua volta modificato l'art. 16 sostituendo il vecchio testo con "immediatamente tradotti e verbalizzati nella lingua del processo".

Il ricorrente assume che il vizio genetico prodotto dall'omessa traduzione produce un vizio dell'atto, che attiene ai profili di utilizzabilità della fattispecie.

La Corte di merito ha d'altra parte risolto il problema evocando giurisprudenza di legittimità tutta riferita alla mancata traduzione di atti nella fase dibattimentale. I condivisibili principi a tale riguardo enunciati non possono essere trasposti al caso in esame, giacchè durante la fase delle indagini preliminari l'attività del pubblico ministero non è sottoposta a controlli e limiti. Ciò ha comportato la compressione del diritto dell'indagato ad avere accesso a tutto il materiale probatorio, indipendentemente dalla sua successiva utilizzazione, al fine di esercitare le facoltà difensive nel termine previsto dall'art. 415-bis cod. proc. pen.. La difesa, durante i ristretti termini previsti da tale norma, non avrebbe comunque potuto individuare elementi di rilevanza in una sterminata quantità di atti. In conclusione la mancata traduzione determina nullità, ai sensi degli artt. 178 e 180 cod. proc. pen., dell'avviso di conclusione delle indagini, che si riverbera sulla richiesta di rinvio a giudizio e sul decreto che dispone il giudizio. In alternativa andrebbe sollevata la questione di legittimità costituzionale della normativa, in raffronto a quella che tutela le minoranze linguistiche italiane.

10.2. Con il secondo motivo si deduce violazione di legge e vizio motivazionale per ciò che attiene al reato di cui all'art. 437 cod. pen. All'imputato viene contestato di non aver segnalato tempestivamente la necessità di approntare immediatamente nello stabilimento di (OMISSIS) misure di protezione della sicurezza dei lavoratori. Tale contestazione non tiene conto che l'amministratore delegato è addirittura accusato di omicidio volontario per aver deliberatamente assunto autonomamente importanti decisioni relative alla posticipazione di investimenti attinenti alla sicurezza. Attesa tale autonomia, non appare possibile ipotizzare il concorso dell'imputato ricorrente nelle decisioni assunte. Il M. non potrebbe essere neppure ritenuto coautore del reato, trattandosi di illecito proprio del soggetto destinatario della norma precettiva. Si aggiunge che è emerso dal processo che le indicate decisioni dell'amministratore si sono concretizzate fra il 2 dicembre 2005, data della riunione del board, ed il 10 gennaio 2006, data della missiva indirizzata ai vigili del fuoco per comunicare i tempi dell'adeguamento alla normativa antinfortunistica. Solo in un momento molto successivo l'intervento del ricorrente si limitò alla mera determinazione dei tempi, delle modalità e dei costi del trasferimento della linea a (OMISSIS).

Quanto al coinvolgimento concreto dell'imputato nelle decisioni di cui si discute, si censura la valutazione compiuta dalla Corte di merito, che ha enfatizzato il contenuto di una comunicazione inviata all'amministratore e relativa agli investimenti per (OMISSIS) nell'anno precedente. Si ipotizza erroneamente che tale documento del 9 dicembre 2005 sia la risposta alla richiesta di collaborazione maturata nel corso della riunione del board del 2 dicembre, che riguarda i problemi gestionali di (OMISSIS). Si enfatizza pure che in tale documento compare l'espressione "come da accordi" e la classificazione di riservatezza, trascurando che la quasi totalità delle comunicazioni telematiche in atti presenta tale classificazione. Di fatto la e-mail del 9 dicembre non atteneva in alcun modo alla materia della prevenzione degli incendi e da essa si trae erroneamente la conclusione che l'imputato facesse parte del ristretto gruppo di dirigenti informati sul progetto di chiusura della sede di (OMISSIS).

Esclusa dunque la possibilità di una responsabilità concorsuale, si analizza l'assunto alla stregua del quale l'imputato avrebbe contribuito al fatto dell'autore mediante la omessa segnalazione della necessità di installazione dell'impianto di rilevamento e spegnimento degli incendi. La Corte di assise di appello ha trascurato che tale strumento costituisce prevenzione secondaria e che ben più efficacemente si sarebbe potuto operare con prevenzione primaria attraverso procedure di avvistamento ed intervento. Si assume che la difesa ha dimostrato che i precedenti incendi non erano predittivi, che l'adeguamento ipotizzato in alcuni documenti non riguardava la zona in cui si verificò l'incendio, che l'adozione della misura in questione non era materialmente attuabile con riferimento all'esteso reticolo di tubazioni flessibili. La Corte non ha neppure dato contezza del fatto che il ricorrente fosse consapevole delle carenze organizzative della linea dalle quali sarebbe derivato, in assenza di misure di prevenzione primaria, l'obbligo di installazione dell'impianto di rilevazione e spegnimento. La delega conferita non riguardava certamente un obbligo di informazione sulle modalità di gestione dello stabilimento (OMISSIS) affidato alla cura del direttore S.. Inoltre gli unici documenti dai quali poteva desumersi il pericolo di flash fire erano quasi tutti ignoti al M. ed alcuni di essi non erano comunque pertinenti allo specifico tipo di evento verificatosi. In conclusione l'impianto di cui si discute, secondo la difesa, poteva ritenersi necessario solo in assenza di presidio primario costituito dal regolare ed ordinato funzionamento della linea e dal pronto intervento di squadra antincendio, adeguatamente istruita ed attrezzata, eventualità che il M. non poteva neanche immaginare. Da ciò la inconsapevolezza dell'obbligo omesso. Di questo il giudice d'appello si è completamente disinteressato, esprimendo una motivazione orientata ad una sorta di responsabilità di posizione.

10.3. Il terzo motivo di ricorso prospetta violazione di legge e vizio motivazionale in ordine al reato di omicidio colposo. Si considera che la Corte di assise di appello ha ritenuto l'esistenza di una posizione di garanzia anzitutto per la qualifica di dirigente dell'imputato, nonchè per via della delega ricevuta con atto del 19 aprile 2007, ed ancora per aver svolto di fatto un ruolo significativo nella strategia attuata sul fronte dell'adeguamento dello stabilimento di (OMISSIS) alle mutate esigenze di prevenzione degli incendi.

Quanto alla veste di dirigente si considera che i compiti del M. erano afferenti all'attività di supporto tecnico alle varie articolazioni operative dell'azienda in termini di interventi da eseguire sugli impianti dislocati nei diversi opifici, sicchè nulla si può inferirne in ordine a responsabilità antinfortunistiche. La stessa Corte torinese ha circoscritto le mansioni alla sola attività progettuale di supporto alla realizzazione di opere strutturali od impiantistiche che richiedessero l'apporto dell'area tecnica, rilevando la sua palese estraneità alla ordinaria gestione ed organizzazione del lavoro presso lo stabilimento di (OMISSIS), dotato di una struttura amministrativa e gestionale totalmente autonoma alle dirette dipendenze dell'amministratore delegato e del direttore S.. In conclusione il M. non ha mai esercitato funzioni dirigenziali nello stabilimento di (OMISSIS).

Per ciò che attiene alla delega, si chiarisce in primo luogo che l'imputato non rivestiva la qualità di responsabile dell'area acquisti, approvvigionamenti impianti e servizi. L'equivoco è dovuto ad una errata redazione della delega del 19 aprile 2007 riportata anche in sentenza. In realtà il M. era direttore dell'area tecnica, come correttamente indicato nei capi di imputazione. Da tale erronea individuazione, la difesa desume che la delega è priva del requisito individualizzante.

Oltre a ciò, si considera che l'imputato ha svolto nello stabilimento di (OMISSIS) solo limitate funzioni di consulenza a richiesta. Il giudice di merito ha travisato il contenuto dell'esame dell'imputato. Costui ha spiegato che la sua funzione non era quella di valutare autonomamente gli atti da compiere, ma quello di contribuire a realizzare quanto richiesto dalla produzione. Non era compito di M. vigilare o intervenire per ottimizzare la funzionalità degli impianti, che non gli competeva nè per la sede di (OMISSIS) nè per quella di (OMISSIS). Conseguentemente, all'imputato non può essere attribuito un onere di informazione sulle caratteristiche degli impianti medesimi, di quelli torinesi in particolare. Tutto ciò era al di fuori delle sue mansioni.

Il contenuto della delega riguardava poteri di rappresentanza con riferimento alla sola struttura di (OMISSIS) affidata alla sua direzione. Anche il budget che gli era assegnato non prevedeva alcun importo destinato alla struttura aziendale (OMISSIS). Con la conseguenza che la funzione del ricorrente era circoscritta alle sole attività di consulenza che di volta in volta gli venivano richieste.

Infine, nessuna abituale ed effettiva ingerenza può essere ritenuta con riferimento agli interventi presso la sede (OMISSIS).

10.4. Con il quarto motivo si censurano le valutazioni della Corte di merito in ordine al nesso causale. Erroneamente si compie la verifica della causalità alla stregua di apprezzabili, significative probabilità della condotta doverosa di scongiurare il danno. Tale apprezzamento viene compiuto in relazione alla necessità di segnalazione a fini prevenzionistici.

In realtà la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che l'agente non può rispondere del verificarsi dell'evento, anche se titolare di una posizione di garanzia, se non dispone della possibilità di influenzare il corso degli eventi. Nella fattispecie l'amministratore delegato era perfettamente a conoscenza della ritenuta situazione pericolosa che affliggeva la linea APL5, avendo ricevuto informazioni dettagliate da plurime fonti e particolarmente dal direttore S. che gli aveva segnalato gli incidenti verificatisi nello stabilimento piemontese. Del resto, tale ruolo dominante e consapevole dell'amministratore ha originariamente condotto addirittura all'imputazione di omicidio doloso. Non vi è quindi alcun dubbio che la decisione di procrastinare l'adeguamento della linea fu adottata dalla dirigenza con piena cognizione della situazione esistente e senza il minimo intervento anche meramente consultivo del ricorrente.

In ogni caso la Corte territoriale ha errato sui principi che regolano la causalità. Da un lato essa ha richiamato il consolidato standard della giurisprudenza correlato all'alto grado di credibilità razionale, all'oltre il ragionevole dubbio.

Contraddittoriamente la posizione dell'imputato viene valutata con uno standard probabilistico che mostra la scorretta sovrapposizione di due piani di indagine complementari: la prevedibilità ed evitabilità dell'evento quale elemento costitutivo della colpa e la verifica dell'efficace eziologica del comportamento omissivo. Si tratta di distinzione ben chiara nella giurisprudenza di legittimità In sostanza, è mancata la dimostrazione che se il M. avesse segnalato all'amministratore la necessità di dotare l'impianto del sistema di rilevazione e spegnimento, l'incendio oggetto del processo non si sarebbe verificato.

Si aggiunge che la difesa ha dimostrato l'impossibilità di proteggere l'intero reticolo di tubi flessibili dell'impianto utilizzando l'impianto di rilevazione e spegnimento. Al riguardo la Corte ha espresso valutazioni non puntuali, trascurando di verificare la concreta fattibilità della misura protezionistica richiesta.

Pure censurabilmente ed irrealisticamente, trascurando i costituti processuali, la Corte di merito ha ritenuto che l'impianto in discussione potesse essere tempestivamente realizzato prima dell'evento, sottovalutando che a (OMISSIS) gli interventi ebbero luogo a partire dal (OMISSIS) e furono ultimati nel settembre 2009.

Non si è tenuto conto del tempo necessario per progettare, appaltare e realizzare gli impianti, che avrebbero consentito l'adeguamento solo nel corso del 2008. La sentenza da atto che gli interventi a (OMISSIS) dopo l'incendio del giugno 2006 furono collaudati nell'(OMISSIS) e che per la linea 4 di (OMISSIS) si arrivò al 2009. Inoltre le matrici dell'ing. Ri. furono elaborate solo nel gennaio 2007 e diffuse a marzo dello stesso anno, sicchè i tempi tecnici di realizzazione non avrebbero consentito l'installazione prima della primavera 2008.

La Corte ha pure trascurato che le somme messe a disposizione dalla sede centrale si riferivano comunque ad impiantistica e non già all'organizzazione del lavoro, sicchè non potevano essere dirottate per finanziare pulizia e manutenzione, formazione, dotazione di mezzi di protezione.

Da ultimo si considera che la criticata assenza di estintori a lunga gittata appare in realtà un elemento puramente suggestivo, privo di significato impeditivo. Il rilievo attribuito a tali apparati appare immotivato. Non si spiegano le caratteristiche di tali strumenti, non si chiarisce in che posizione dovessero essere collocati e non si è quindi in grado di formulare alcuna ipotesi. L'argomento è stato dimostrato dalla difesa in considerazione della profondità del corridoio esistente a fianco della linea e della invasività del flash fair verificatosi.

10.5. Il quinto motivo attiene alla prevedibilità dell'incendio.

Si lamenta che erroneamente il ricorrente viene enfaticamente descritto come una eminenza grigia con un ruolo determinante nelle decisioni assunte dall'amministratore delegato. In realtà si è trascurato che egli era responsabile dell'area tecnica al cui interno era istituito un distinto servizio di antincendio affidato ad un responsabile. Il M. dunque si affidava a collaboratori specializzati nelle diverse attribuzioni della sua area. Ciò smentisce la tesi sostenuta dalla Corte di assise di appello, che egli fosse in prima persona esperto di impianti antincendio, essendo invece l'incarico affidato ad un suo subordinato. Su tali premesse si considera che erroneamente si è ritenuto che l'imputato fosse nella condizione di prevedere in concreto l'eccezionale sequenza causale verificatasi; trascurando appunto l'abnormità degli accadimenti. E' invece dimostrato che egli aveva una circoscritta e ridotta conoscenza della linea APL5 La prevedibilità era tanto più esclusa in considerazione del fatto che l'evento si verificò non per carenze strutturali bensì a causa di ritenute carenze organizzative di carattere contingente di cui il ricorrente non era informato. I precedenti incendi verificatisi nel 2001 e nel 2002 non crearono danni agli operai ed ebbero cause completamente diverse. Più in generale non si riscontrano eventi assimilabili a quello concretamente verificatosi. Tale tesi è già stata prospettata in appello ma è rimasta priva di adeguata confutazione.

10.6. Il sesto motivo censura l'esclusione del concorso formale fra l'omicidio colposo ed il reato di cui all'art. 437 c.p., comma 2. In realtà nella stessa rappresentazione del fatto contenuta nel capo d'imputazione, la consumazione dell'illecito omissivo si perfeziona con la verificazione dell'evento, costituito dalla morte degli operai. La tesi sostenuta dal ricorrente, si assume, trova sostegno nella giurisprudenza delle Sezioni Unite in tema di sequestro di persona a scopo di estorsione da cui sia derivata la morte del sequestrato. I principi affermati in quel contesto possono essere ribaditi nell'ambito qui considerato.

10.7. Il settimo motivo censura la motivazione per ciò che attiene alla dosimetria della pena. Erroneamente si è ravvisata ed esaltata l'enormità della colpa ascritta agli imputati; ed altrettanto erroneamente al M. è stata irrogata una pena severa, giustificata dal particolare ruolo svolto quale tecnico di fiducia ed ispiratore di tutte le decisioni assunte dall'amministratore delegato. Si è trascurato che l'unica misura realmente adeguata sarebbe stata quella della chiusura della linea con le inevitabili ricadute occupazionali. E' chiaro che una soluzione di tale genere avrebbe potuto essere assunta solo dagli organi di vertice dell'azienda. Potrà ben ipotizzarsi un errore di valutazione ma non è consentito ritenere che si sia in presenza di decisioni assunte per scopi biecamente economici. Tale valutazione non tiene neppure conto del ruolo di mero consulente già evidenziato.

10.8. Oggetto di censura è pure il giudizio di comparazione tra le concesse attenuanti e le aggravanti contestate: la richiesta di prevalenza delle diminuenti non è stata ritenuta meritevole del benchè minimo vaglio, avendo la Corte preferito esaltare oltre il limite la gravità della colpa, senza tener conto del comportamento processuale, dell'incensuratezza, della condotta successiva al fatto, tutta tesa alla scrupolosa adozione delle misure di prevenzione antincendio ed alla elisione delle conseguenze dannose dei reati.

10.9. Ha fatto seguito la presentazione di motivi aggiunti con i quali sono state ribadite ed ulteriormente argomentate le doglianze inerenti alla mancata traduzione di atti redatti in lingua diversa da quella del processo.

11. Il ricorso di C..

11.1. Col primo motivo si deduce nullità ai sensi dell'art. 178 cod. proc. pen. dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari e di tutti gli atti ad esso successivi, in quanto al momento della sua notifica numerosi atti processuali non erano stati tradotti nella lingua italiana. Si tratta di nullità a regime intermedio ritualmente eccepita, ai sensi dell'art. 178 cod. proc. pen..

11.2. Col secondo motivo si lamenta inosservanza degli artt. 207, 191, 188, 198, 210, 499, 500, 526 e 533 cod. proc. pen., nonchè degli artt. 24 e 111 Cost., e conseguente inutilizzabilità delle dichiarazioni rese in sede di ritrattazione, a seguito di notifica di informazione di garanzia, dai testimoni indagati del reato di falsa testimonianza - omessa motivazione sul punto. Si fa riferimento alle spontanee ritrattazioni di quattro testi ( G., V., Ra. e Gi.), dopo che erano stati raggiunti da avvisi di garanzia per falsa testimonianza in relazione a dichiarazioni dibattimentali. Tali dichiarazioni sono state utilizzate sia per dimostrare la carenza di manutenzione e vigilanza nello stabilimento, sia per giustificare la mancata concessione delle attenuanti generiche.

L'iniziativa del P.M. viene ritenuta illegittima. L'art. 207 cod. proc. pen, demanda al giudice, con la decisione che definisce la fase processuale, l'eventuale trasmissione al P.M. di atti in presenza di indizi del reato di cui all'art. 372 cod. pen. La precoce iscrizione della notitia criminis è contraria alla legge, che è intesa a proteggere il testimone da ogni possibile fonte di condizionamento e ad assicurare la genuinità delle risposte. Essa vulnera la parità delle parti e la libertà di autodeterminazione del teste. Tale interpretazione della disciplina legale trova sostegno nell'art. 371- bis c.p.p., comma 2, che in caso di false informazioni al P.M. prevede che il procedimento a carico del dichiarante resti sospeso fino alla definizione del primo grado di giudizio.

11.3. Il terzo motivo prospetta contraddittorietà tra i capi di imputazione e le premesse da essi tratte dai giudici d'appello.

La Corte di assise di appello assume che l'imputazione attribuisca al C. la veste di dirigente di fatto. Tale enunciazione travisa il testo ed il senso del capo d'imputazione, e tenta di porre rimedio all'errore commesso nell'imputazione medesima quando al ricorrente è stata attribuita erroneamente la veste di dirigente. Tale veste, invece, non è riportata nell'atto d'accusa ed è in contrasto con la realtà. L'errore ha rilevanti ricadute sul piano delle ragioni dell'affermazione di responsabilità.

11.4. Il quarto motivo denunzia erronea applicazione della legge penale in relazione all'art. 40 c.p., comma 2. Il nesso casuale è stato rapportato non all'omesso impedimento dell'evento, ma alla mancata segnalazione di quanto dovuto a chi aveva potere di decidere.

Ma l'obbligo impeditivo si accompagna inscindibilmente al potere impeditivo. La mancanza del secondo rende evidente l'inesistenza del primo.

Inoltre, la Corte ha attribuito a diversi imputati che rivestivano ruoli altamente differenziati la violazione dell'obbligo di segnalazione. Si tratta di soggetti muniti di ben differenti poteri con diverse ricadute sugli effetti della condotta alternativa doverosa. Questo modo indifferenziato di procedere trascura la portata delle diverse funzioni e l'accertato iato nei flussi informativi tra la base ed il vertice aziendale: C. non si interfacciava con l'AD ma con S. ed al massimo con M..

11.5. Il quinto motivo lamenta inosservanza dell'art. 521 cod. proc. pen. e conseguente nullità della sentenza nella parte in cui attribuisce a C. la responsabilità della manutenzione e dell'emergenza. Gli si attribuisce una omissione di organizzazione direttamente rilevante rispetto alla produzione degli eventi, che esula dalla omessa segnalazione imputatagli al capo D. Vi è quindi violazione dell'art. 522 cod. proc. pen. essendosi ritagliata dal fatto storico una porzione ulteriore e determinante ai fini dell'addebito finale. Tali profili di responsabilità non sono mai stati discussi, nè esaminati nella prima sentenza. Si tratta dunque di un profilo del tutto nuovo per la prima volta enucleato dalla sentenza d'appello. Non vi è quindi correlazione tra accusa e sentenza.

11.6. Il sesto motivo si sofferma sui requisiti normativi della qualifica soggettiva di dirigente; e deduce mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione relativamente ad elementi di prova facenti parte del corredo probatorio processuale in ordine alla esatta individuazione della qualifica soggettiva.

Si rammenta che l'imputato ricopriva la veste di responsabile del servizio di prevenzione e protezione, nonchè quella di responsabile della ben circoscritta "Area Ecologia, Ambiente e Sicurezza". Nessuna qualifica dirigenziale gli è mai stata attribuita. Si rammentano pure le caratteristiche della figura dirigenziale alla luce del D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 2. E si assume che la Corte non motiva e si contraddice in ordine ai requisiti di tale figura. E' la stessa sentenza a riconoscere l'assenza di autonomia di spesa e decisionale:

il ricorrente non interagiva con il datore di lavoro, aveva una preparazione antincendio limitatissima. Non ogni episodico fattuale esercizio di funzioni inerenti ad una qualifica comporta l'assunzione della carica. C. non esercitava in modo continuativo e specifico i poteri propri della qualifica dirigenziale.

L'attribuzione di responsabilità nei settori della manutenzione e dell'emergenza è frutto di travisamento della prova. Vengono trascritti alcuni costituti probatori a sostegno di tale assunto. Tra l'altro erroneamente si trae argomento dalle dichiarazioni dibattimentali dello stesso ricorrente. Si trascrivono alcuni brani per dimostrare che l'imputato si limitò a comunicare ai lavoratori interessati determinazioni assunte dal direttore S. in tema di attribuzione ai capi turno di produzione pure della responsabilità dell'emergenza. Inoltre la delega di funzioni nei suoi confronti riguardava documentalmente solo l'area ecologica mentre i settori della manutenzione e dell'emergenza erano attribuiti al dipendente Co..

11.7. Il settimo motivo prospetta l'inosservanza o erronea applicazione del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 8 in relazione alla qualifica di Responsabile del servizio di prevenzione e protezione.

Lo stabilimento di (OMISSIS) non rappresenta una autonoma unità produttiva. La disciplina legale di cui al D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 8 e l'art. 31 del T.U. prevedono la figura del RSPP all'interno dell'intera azienda o di un'unità produttiva. Responsabile del SPP per la sede di (OMISSIS) e quindi per l'intera azienda, compreso lo stabilimento (OMISSIS), era il dipendente ca..

11.8. L'ottavo motivo denunzia la omessa o contraddittoria valutazione in ordine agli addebiti relativi al documento di valutazione dei rischi ed al Piano di emergenza.

Erroneamente si è ritenuto che il DVR incendi riguardasse solo la zona forni e non quella degli aspi svolgitori; e che il rischio legato all'esposizione dei lavoratori sia stato dissimulato. Tale tesi è stata confutata dai consulenti della difesa con argomenti che vengono trascritti, senza che la Corte se ne sia fatto carico. Quanto ai rischi per i lavoratori, si è trascurato che mai in precedenza alcun incendio aveva provocato danni alle persone.

A proposito degli addebiti relativi al piano di emergenza, si travisa il contenuto dell'atto che poneva il dovere di intervento per lo spegnimento solo nei confronti dei lavoratori "istruiti al servizio antincendi" e non, come erroneamente enunciato in sentenza, nei confronti di tutti i presenti. Le prassi di segno contrario non possono essere addebitate al C.. D'altra parte, l'intervento diretto sulle fiamme è prescritto da diversi documenti didattici elaborati dai comandi dei vigili del fuoco, ma la Corte non ne ha tenuto conto.

Per ciò che attiene al divieto di usare il pulsante d'emergenza, la sentenza è illogica poichè diverse testimonianze hanno dato atto che la possibilità di usare tale apparato era ben nota a tutti. La Corte di merito attinge alla deposizione del teste Ca., travisandone il contenuto giacchè questi ha riferito che un'esplicita istruzione in senso negativo non era mai stata formulata.

11.9. Il nono motivo censura la motivazione in ordine alla asserita volontarietà dell'omissione da parte del ricorrente dell'indicazione del rischio di incendi relativo alla linea APL5 nel documento di valutazione dei rischi. La pronunzia trae argomento da atti che avevano segnalato il rischio, prossimi temporalmente al documento;

nonchè dalle dimissioni dell'ing. Lu., nel mese di aprile, che si assumono legate alla decisione dissimulatoria assunta dal C..

Si trascura che il documento fu iniziato a fine 2006 e terminato nel maggio 2007; e comunque nulla prova la volontarietà dell'omissione.

Quanto alle dimissioni di Lu., la Corte la enfatizza trascurando il contenuto della deposizione dell'interessato (che viene parzialmente trascritta) e che attribuisce tale decisione a valutazioni personali e di carriera.

11.10. Il decimo motivo assume la mancanza di motivazione in punto di "movente" della condotta fraudolentemente omissiva addebitata. La motivazione è sul punto mancante, nonostante le sollecitazioni contenute nell'appello.

11.11. L'undicesimo motivo prospetta erronea applicazione degli artt. 40 e 41 cod. pen.: erroneamente si assume che la prova del nesso causale possa conseguirsi alla stregua di significativa, apprezzabile probabilità di evitare il danno adottando le condotte omesse. Tale enunciazione viola i principi espressi dalle Sezioni Unite, Franzese.

La Corte di assise di appello confonde causalità materiale e causalità della colpa.

11.12. Il dodicesimo motivo tratta ancora il tema della causalità.

Si è attribuita assoluta preponderanza causale all'omessa installazione dell'impianto di rivelazione e spegnimento automatico, da solo in grado di evitare ogni sviluppo di incendio e quindi di impedire la verificazione degli eventi, così rendendo irrilevanti gli altri fattori causali. La sentenza, tuttavia, presenta massima debolezza nella parte motivazionale relativa alla dimostrazione della causalità individuale. Si richiamano le precedenti argomentazioni a proposito della inesistenza di una posizione di garanzia e si argomenta intorno alla responsabilità derivante dal ruolo di RSPP. La giurisprudenza richiamata dalla Corte di merito è inconferente giacchè riguarda un soggetto che era contestualmente delegato con compiti di vigilanza sull'efficienza e sicurezza degli impianti. Una responsabilità di tale figura del sistema prevenzionistico può configurarsi solo nel caso in cui non siano state fornite al datore di lavoro informazioni tecniche ed organizzative indispensabili per operare scelte conformi alla massima protezione dei lavoratori. Non a caso il sistema prevede compiti ma non impone obblighi nè sanzioni per il mancato o non corretto svolgimento dei compiti istituzionali.

Per questo tale figura non risponde direttamente delle altrui decisioni.

Si osserva che l'art. 113 cod. pen. non è mai stato contestato in questo processo. Ove la responsabilità fosse fatta dipendere da tale disciplina, vi sarebbe violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza e si riscontrerebbe inoltre violazione dell'art. 104 cod. pen. trattandosi di posizione assolutamente marginale e quindi di minima partecipazione. Occorre in ogni caso che il suggerimento sbagliato o omesso abbia indotto il titolare originario della posizione di garanzia all'omissione del presidio salvifico.

Tale dimostrazione è completamente mancata. La questione è stata liquidata dalla Corte in poche righe. Si è trascurato da un lato che il datore di lavoro era molto più attrezzato del responsabile del servizio di prevenzione e comunque coadiuvato da consulenti estremamente preparati; e dall'altro che nelle dinamiche aziendali si inseriva un elemento patologico costituito dalla programmata chiusura dello stabilimento di (OMISSIS) accompagnata dalla ferma intenzione del datore di lavoro di non spendere alcuna somma per lo stabilimento in procinto di essere abbandonato. Tale considerazione è ampiamente argomentata dalla Corte di merito che insiste sulla preponderanza rilevante delle determinazioni assunte dalla dirigenza in (OMISSIS).

Illuminante nel senso dell'irrilevanza di qualsiasi segnalazione proveniente da (OMISSIS) è il passaggio della sentenza in cui, esaminando la posizione di S., si afferma che costui fino al 2006 aveva sollecitato la realizzazione delle opere prevenzionali chieste dai vigili del fuoco ma con scarsi ed incompleti risultati.

Alla stregua delle sue stesse affermazioni il Collegio avrebbe dovuto, in ossequio ai canoni di certezza, verificare l'esistenza in concreto del nesso causale. La giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente cassato pronunzie che, al pari di quella in esame, hanno omesso di svolgere con la dovuta accuratezza e concretezza l'analisi della relazione causale controfattuale. In breve, si assume che costituisce una notevole forzatura affermare che in capo all'imputato sussistesse l'obbligo di segnalare all'amministratore delegato ciò che questi ben conosceva ed aveva anzi deciso.

Apoditticamente il giudice di merito, pur in presenza di plurimi indizi di segno contrario, ha ritenuto che una segnalazione dei rischi nel documento valutativo avrebbe ostacolato la politica di risparmio del datore di lavoro. D'altra parte, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione ha un ruolo meramente propositivo, giacchè vero dominus del documento è il datore di lavoro. La pronunzia trascura pure che nella situazione di degrado dalla stessa descritta l'unico strumento per evitare l'evento sarebbe stato la chiusura dello stabilimento, decisione rispetto alla quale il ricorrente era privo di qualunque potere.

11.13. Il tredicesimo motivo prospetta vizio motivazionale rispetto ad alcune fondamentali prove a discarico.

Si cita la modifica della data di fine lavori dal dicembre 2006 al dicembre 2007, ovvero l'inevitabile non esecuzione dei lavori, nella comunicazione al comando dei Vigili del fuoco inviata nelle gennaio 2006, ben spiegabile con il fatto che in tale data soltanto una cerchia ristretta di dirigenti in (OMISSIS) era al corrente della decisione di abbandonare la piazza (OMISSIS). La Corte di merito manca di trarne le necessarie inferenze quanto alla sterilità di richieste e segnalazioni provenienti da (OMISSIS).

La Corte trascura pure la comunicazione organizzativa del 30 luglio 2007 afferente alla nomina di una squadra di ingegneri esperti con la missione di monitorare il problema della prevenzione antincendio.

La pronunzia non considera neppure il carteggio dirigenziale nel periodo settembre, ottobre, novembre 2007, sempre afferente all'individuazione degli standard di protezione antincendio di ogni singolo impianto.

Si è pure omesso di considerare che l'informazione fatta circolare dall'imputato era una semplice comunicazione interna emanata da S..

Conclusivamente, si assume, non si può pervenire ad una equa conclusione del processo senza avere spiegato come il ricorrente, semplice perito industriale tagliato fuori da ogni flusso informativo ed ovviamente non invitato a far parte del gruppo che si occupava di prevenzione antincendio, avrebbe potuto imporre le proprie segnalazioni.

11.14. Con il quattordicesimo motivo si deduce violazione di legge e vizio motivazionale in tema di prevedibilità dell'evento flash fire.

Mentre la verificazione di piccoli incidenti era un fatto noto e ricorrente e dunque prevedibile, non lo era invece il fenomeno del flash fire. In proposito la Corte si contraddice giacchè a pagina 253 parla di ripetuti episodi di tale genere mentre in precedenza, alle pagine 91 e 92, parla di un solo episodio verificatosi nel settembre 2001. Tale episodio peraltro si riferisce ad un caso nel quale il cedimento del flessibile era avvenuto per proprie cause strutturali, e non per via di un focolaio di incendio, peraltro con conseguenze neppure paragonabili a quelle riscontrate nei fatti in esame. Dunque, apoditticamente si afferma che un focolaio di incendio potesse prevedibilmente attingere indisturbato per una decina di minuti il flessibile fino a farlo sfilare dal suo serraggio.

Inoltre, il documento redatto dall'ing. Lu. parla genericamente di rischi connessi allo scoppio di tubi idraulici e manicotti, ma non fa riferimento ai tubi flessibili ed al loro cedimento per effetto del calore. Inoltre l'atto si riferiva alla sala centraline ed alla zona saldatura e non all'intero circuito idraulico di distribuzione; nè in particolare ai flessibili della zona d'ingresso. Inoltre si evoca un carico idraulico limitato sicchè è chiaro che ci si riferisce solo ad una parte dell'impianto. Insomma, non si prevedevano rischi specifici sulla linea APL5.

11.15. Con il quindicesimo motivo si lamenta carenza della motivazione in ordine all'accertamento dell'elemento soggettivo del reato di cui all'art. 589 cod. pen. sotto il profilo della verifica della "misura soggettiva" della colpa.

Nulla si dice sulla prevedibilità del risultato offensivo e sulla esigibilità della condotta conforme alla regola cautelare.

L'imputato si è sempre aggiornato, e dunque possedeva i requisiti professionali afferenti all'incarico. Tuttavia egli non era un esperto e questioni complesse possono richiedere l'intervento di specialisti. In particolare il tema della prevenzione antincendio venne affidato ad organi superspecializzati e comunque allo staff tecnico di (OMISSIS). Questa situazione e la lontananza dai flussi informativi degli organi specialistici è stato trascurato dal giudice d'appello. Dunque, la condotta pienamente diligente ed esperta non era esigibile nei suoi confronti.

11.16. Il sedicesimo motivo censura la riconosciuta sussistenza della circostanza aggravante dell'aver agito nonostante la previsione dell'evento. Si lamenta che nessuna dimostrazione è stata fatta in ordine alla effettiva previsione dello specifico evento verificatosi.

Dalle prove può al massimo desumersi che gli imputati avrebbero dovuto porsi il problema dell'evento ma non che essi lo abbiano effettivamente previsto con le modalità che si sono concretamente manifestate.

11.17. Il diciassettesimo motivo censura la motivazione per ciò che attiene alla ritenuta responsabilità per il delitto di cui all'art. 437 cod. pen. sotto il profilo obiettivo.

Il ricorrente, unitamente al direttore dello stabilimento S., non aveva alcun potere operativo nè alcun concreto obbligo giuridico di dar corso alla realizzazione dell'impianto antincendio. Pure indimostrato è il nesso concausale rispetto all'evento. L'addebito che gli si muove lo indica come cooperante o concorrente nei reati propri del datore di lavoro. Tuttavia nessuna dimostrazione viene fornita in ordine all'incidenza causale della condotta ascrittagli nella veste di responsabile del servizio di prevenzione e protezione.

Neppure è dimostrato che egli abbia posto in essere una condotta realmente dolosa e quindi preordinata a consentire al datore di lavoro di ottenere i risparmi di spesa che la sentenza mette in luce.

In ogni caso, il documento di valutazione del rischio precede tanto gli accordi ministeriali quanto le pianificazioni dei vertici, sicchè si pone come un antecedente irrilevante rispetto ai fatti sopravvenuti più prossimi all'evento. Da tali ultime contingenze il cammino è tracciato e le scelte di non investimenti aziendali diventano irreversibili.

11.18. Il diciottesimo motivo lamenta violazione di legge e vizio della motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità dell'imputato sotto il profilo soggettivo. La sentenza è permeata dall'appiattimento delle varie posizioni e qualifiche soggettive e si rivela priva di motivazione in ordine all'elemento soggettivo doloso nei confronti di un soggetto che era estraneo alla sfera dei vertici aziendali. Manca la dimostrazione della volontà di violare l'obbligo giuridico, difettando la rappresentazione psichica di un obbligo giuridico di installare l'impianto di cui si discute. Ogni tentativo di dimostrare una sua volontà in tal senso si scontrerebbe con la circostanza, ammessa anche dalla Corte, delle plurime ed infruttuose segnalazioni e sollecitazioni rivolte dal ricorrente alla dirigenza di (OMISSIS) e di (OMISSIS) affinchè venissero realizzate le opere antincendio richieste ai vigili del fuoco. Tutto ciò dimostra la erroneità logica della sentenza nella parte in cui riconosce sussistente il dolo di fattispecie.

11.19. Il diciannovesimo motivo considera i reati sub A e D del capo di imputazione. Le medesime ragioni che hanno portato a ritenere l'incendio colposo assorbito nel reato di cui all'art. 437 c.p., comma 2, avrebbero dovuto condurre, secondo un canone di coerenza e di non contraddittorietà ad un risultato analogo anche per l'omicidio colposo. Correttamente si ravvisa l'esistenza di un reato complesso e l'assorbimento di un reato nell'altro. Invece erroneamente si ritiene che, quanto all'aggravante della causazione di un infortunio, la fattispecie si riferisca al solo reato di lesioni personali e non anche ad eventi mortali. La differenziazione delle due situazioni è priva di reale giustificazione. Essa è in contrasto con il D.Lgs. n. 1124 del 1965, art. 2 che evoca non solo le lesioni personali ma anche la morte come connotati dell'infortunio. D'altra parte, l'unico argomento addotto dalla Corte di assise di appello afferente all'entità delle pene è irrilevante, poichè il problema va risolto alla stregua del principio di specialità e quindi in chiave logico-strutturale, a prescindere da considerazioni valoriali.

11.20. Il ventesimo motivo espone violazione di legge nonchè carenza, illogicità e contraddittorietà della motivazione in ordine alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche. Il rifiuto è basato sulla gravità della colpa e sul comportamento processuale ed è in contrasto con la richiesta di segno contrario avanzata dallo stesso Procuratore Generale. Tale situazione avrebbe richiesto una motivazione particolarmente penetrante. La congerie di addebiti colposi che giustifica la negativa valutazione soggettiva è tanto suggestiva quanto totalmente priva di un adeguato collegamento con la mancata concessione delle circostanze richieste. Si ribadisce ancora che l'imputato aveva un ruolo subordinato ed era privo di poteri decisionali.

Erroneamente, poi, si attribuisce all'imputato di aver inquinato le prove sostituendo gli estintori ed effettuando pulizie straordinarie il giorno successivo all'incendio. Il materiale probatorio dimostra che la richiesta alla ditta di pulizie venne fatta dal sig. Br., circostanza pienamente confermata dal responsabile della Edileco. Quanto alla chiamata alla ditta CMA per la verifica degli estintori il giorno successivo alla tragedia, la sentenza non spende una parola per confutare la tesi difensiva secondo cui l'iniziativa era routinaria.

Quanto alla vicenda degli asseriti testi falsi, si tratta di questione da dimostrare, quando e se il P.M. riterrà di avviare in tal senso iniziative processuali.

Tra l'altro la Corte ha concesso ad altri le attenuanti generiche pur in presenza di condotte inquinatorie; e non ha compiuto, irrazionalmente, analoga favorevole valutazione nei confronti del ricorrente. Il C. è stato l'unico imputato non contumace, che si è presentato rilasciando spontanee dichiarazioni importanti per chiarire la ricostruzione dei fatti. L'imputato è inoltre incensurato. La Corte ha pure trascurato il faticoso percorso di formazione perseguito partendo da una modesta condizione personale.

11.21. Il ventunesimo motivo deduce manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione nella determinazione dell'entità della sanzione.

Si espone che per l'imputato è stata fissata la pena base di tre anni e sei mesi di reclusione per il reato di omicidio colposo giustificando la minore entità della sanzione rispetto a quella inflitta a tutti gli altri imputati in considerazione della posizione gerarchicamente subordinata. In totale contraddizione con tale assunto, la posizione di inferiorità ha perso qualunque efficacia in ordine agli aumenti di pena per il concorso formale interno e per il concorso formale con il delitto di cui al capo A. Per il concorso formale interno l'aumento è uguale a quello dei due coimputati componenti del board e del direttore tecnico ed esperto antincendio M.. Per il concorso formale con l'omessa collocazione dell'impianto antincendio l'aumento di due anni è il doppio di quello applicato all'amministratore delegato e ben il quadruplo di quello applicato ai consiglieri P. e Pr..

12. I motivi aggiunti di C..

12.1. Con il primo motivo si deduce violazione di legge e vizio della motivazione per ciò che attiene al preteso carattere impeditivo degli obblighi di segnalazione individuati in capo all'imputato e di conseguenza in ordine all'affermazione della rilevanza causale della condotta. Si argomenta che, ammettendo per ipotesi che il documento di valutazione del rischio sia stato dolosamente falsificato, ciò si pone in logico contrasto con l'affermazione secondo la quale l'inadempimento colposo di obblighi di segnalazione sarebbe da porre in rapporto di causalità rispetto all'evento, una volta che sia affermato il pactum sceleris tra datore di lavoro e RSPP. La responsabilità di tale figura può essere configurata solo ove si sia in presenza di colposa mancanza di segnalazione da parte del consulente del datore di lavoro. Si trascura l'altissima specializzazione dell'amministratore delegato e si assume il modo indimostrato che ad una corretta segnalazione avrebbe fatto seguito l'adozione da parte del datore di lavoro delle iniziative necessarie ad evitare l'evento.

12.2. Con il secondo motivo si espone vizio della motivazione in ordine alla asserita rilevanza esterna del documento di valutazione del rischio. Si è trascurato che il documento in questione è demandato al datore di lavoro e che quindi l'imputato non aveva alcun potere autonomo di determinare la produzione del documento in termini corretti; nè di opporsi con effetti giuridici determinanti alla decisione asseritamente mistificatrice del datore di lavoro. Il documento non avrebbe potuto neppure avere alcuna significativa rilevanza esterna poichè compito degli organi ispettivi è proprio quello di verificarne la correttezza.

12.3. Il terzo motivo prospetta illogicità della motivazione anche con riguardo al materiale di prova a discarico, in ordine alla ritenuta sussistenza di una dolosa falsificazione del documento ridetto. La Corte assume in modo del tutto congetturale, in assenza di prova testimoniale o documentale, un accordo tra l'imputato e l'amministratore delegato per sottacere dolosamente i rischi reali della linea APL5. La sentenza è anche contraddittoria perchè da un lato mostra l'imputato come un tecnico competente che, se sbaglia, lo fa volontariamente e dall'altro, quando afferma la responsabilità dell'amministratore delegato, mette in evidenza tutte le lacune e le incompetenze del ricorrente. In realtà la competenza tecnica dell'imputato è stata platealmente smentita nel processo, giacchè egli ha ammesso di aver formulato il documento sulla base di una vecchia rivista scientifica e seguendo la falsariga di un documento analogo stilato in passato.

12.4. Il quarto motivo tratta del reato di cui all'art. 437 cod. pen.. Si è mancato di dimostrare l'incidenza causale della ipotizzata dolosa omissione documentale da parte dell'imputato.

Neppure è stato dimostrato il dolo di concorso nel reato proprio del datore di lavoro. Nè è stata dimostrata la rilevanza della condotta, quantomeno nel senso di agevolare l'omissione dell'installazione dell'impianto antincendio. Si è trascurata la totale marginalità dell'imputato rispetto ai processi conoscitivi e decisionali degli organi di vertice dell'azienda. Inoltre nulla conduce a ritenere che il documento formato correttamente avrebbe certamente prospettato, quale misura precauzionale contro il flash fire, l'installazione del sistema di rivelazione e spegnimento.

Ancora, il ricorrente non era destinatario del flusso informativo di maggiore rilevanza sulle problematiche in questione.

12.5. Il quinto motivo censura la ritenuta posizione di garanzia del ricorrente. Ribadendo le enunciazioni già prospettate nel ricorso principale, si evidenzia che l'imputato era l'ultimo anello della catena ed era privo di qualunque potere impeditivo.

12.6. Il sesto motivo attiene all'elemento soggettivo ed all'aggravante della colpa cosciente. Si trascura che l'imputato nulla sapeva di specifico sull'incendio verificatosi a (OMISSIS), ha del tutto passivamente assistito alle visite dei consulenti assicurativi nello stabilimento e neppure era al corrente degli altri documenti dai quali la Corte di merito desume la concreta prevedibilità dell'evento verificatosi. Tale evento deve d'altra parte essere necessariamente considerato nella sua specificità e concretezza, tanto più che esso si è verificato per effetto di una anomala concatenazione causale ai limiti della imprevedibilità oggettiva.

12.7. Il settimo motivo censura per violazione di legge l'esclusione del concorso apparente tra il reato di cui all'art. 437 c.p., comma 2, e quello di omicidio colposo. La fattispecie del reato complesso è stata ravvisata in rapporto al reato di incendio e per le medesime ragioni avrebbe dovuto essere ritenuta per l'omicidio colposo. Le argomentazioni di segno contrario espresse nel ricorso del Procuratore Generale trascurano che il raffronto tra le fattispecie va compiuto in modo astratto confrontando gli elementi costitutivi nella loro descrizione tipica, trattandosi di rapporti tra norme. E' quindi inconferente il riferimento del Procuratore Generale alle condotte in concreto asseritamente tenute dagli imputati.

Trattandosi di reati a forma libera la condotta tipica va individuata unitariamente in relazione alla causazione dell'evento con violazione di regole cautelari. Quali e quante regole cautelari in concreto siano violate è indifferente ai fini della tipicità, poichè il reato consiste non nella colpa ma nella causazione purchè colposa dell'evento. E' sulla causazione dell'evento che si accentra il disvalore della norma penale.

Si aggiunge che le argomentazioni della Corte di assise di appello per escludere l'assorbimento attengono al piano sanzionatorio e dunque a criteri di valore che sono estranei alla logica astratta che caratterizza la disamina delle fattispecie. Di fatto la pronunzia non spiega perchè il concetto di infortunio non debba essere rapportato anche all'evento morte.

L'argomentazione prosegue considerando che sia ragionando in termini di specialità sia configurando il reato di cui all'art. 437, comma 2, come reato complesso, le conclusioni cui si giunge non sono differenti. Infatti la figura del reato complesso di cui all'art. 84 cod. pen. non è che una esplicazione dei principi in tema di specialità e concorso apparente di norme ai sensi dell'art. 15 cod. pen.. Inoltre, riconosciuta la natura complessa del reato, le conseguenze che ne vanno tratte sono univoche e dirette.

L'ultima argomentazione critica nei confronti dell'impugnazione del Procuratore Generale riguarda le censure mosse al ritenuto concorso formale fra l'art. 437 c.p., comma 2, e l'art. 589 cod. pen.. Anche qui si invoca l'applicazione di criteri di carattere formale ed astratto, contrariamente a quanto opinato dall'accusa pubblica. In ogni caso, in presenza di concorso formale eterogeneo, la sovrapposizione delle condotte non potrà che essere parziale. Ai fini dell'integrazione del concorso formale si richiede non già una perfetta coincidenza delle concrete condotte bensì una interferenza fra le attività esecutive.

13. Il ricorso di Pr. e P..

13.1. Con il primo motivo si prospetta violazione di legge per la mancata traduzione nella lingua tedesca dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari all'imputato Pr..

La Corte di merito ha convenuto sull'importanza della piena conoscenza di tale atto da parte dell'imputato, ma non ne ha tratto tutte le necessarie conclusioni. Si argomenta che sebbene l'art. 143 cod. pen. sembri fare riferimento all'assistenza di un interprete in relazione ai soli atti orali, esso deve essere letto alla luce della sentenza Corte cost. n. 10 del 1993 che ha parlato di clausola generale di ampia applicazione, destinata ad espandersi e specificarsi in relazione alle esigenze concrete che lo richiedano.

Da tale pronunzia discende dunque la doverosa traduzione di tutti gli atti la cui mancata intelligibilità da parte dello straniero si traduca in una concreta violazione del principio di partecipazione al processo; e del diritto di porre in essere atti di impulso processuale per il cui compimento sia realmente necessaria la piena conoscenza dell'atto presupposto. Il principio è stato espresso pure dalle Sezioni Unite con le sentenze n. 5052 del 2004 e n. 39298 del 2006, che hanno affermato l'obbligo indiscriminato di traduzione degli atti orali e scritti i quali implichino comprensione dell'accusa per l'esercizio della facoltà di difesa sostanziale. Si è così giunti a statuire che sia l'ordinanza di applicazione di una misura cautelare sia l'avviso di conclusione delle indagini preliminari devono essere tradotti nella lingua conosciuta dall'imputato. Il principio trova altresì base nell'art. 111 Cost..

Essendo consolidati i principi, secondo il ricorrente si tratta di verificare i presupposti che rendono necessaria la traduzione. La non conoscenza della lingua va intesa anche come non sufficiente conoscenza ed addirittura anche come difficoltà di comprensione. Il grado di conoscenza della lingua deve essere rapportato alla maggiore o minore complessità dell'atto che deve essere compreso. Il Pr. è di lingua tedesca, non vi sono agli atti elementi dai quali desumere che egli comprendesse bene ed in modo sufficiente la lingua italiana, ma semmai elementi di segno contrario; sicchè erroneamente l'avviso di cui si discute gli è stato notificato in un testo redatto solo nella lingua italiana. La necessità della traduzione traspariva anche dall'ampiezza e complessità del capo d'imputazione.

La Corte di merito, a fronte di tale esigenza, si è limitata alla sommaria elencazione di circostanze che implicavano una conoscenza della lingua italiana ampiamente sufficiente per la comprensione delle accuse e per la possibilità di difendersi. Si tratta di apprezzamento di fatto che tuttavia deve essere motivato in termini corretti ed esaustivi. Il ricorrente deduce proprio vizio motivazionale. La Corte non spiega perchè le circostanze da essa indicate siano idonee a provare la sufficiente conoscenza della lingua italiana. La frequentazione di un corso di italiano significa che l'imputato non conosceva tale lingua; ed inoltre poche e-mail brevissime ed in un italiano scorretto non provano la conoscenza della lingua come non costituisce prova la circostanza di essere destinatario, per conoscenza, di un documento in italiano. L'errore logico è tanto più marcato se si considera che l'ordinamento richiede una conoscenza adeguata della lingua del processo.

Del resto anche la giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha enunciato l'obbligo di accertare il livello di comprensione della lingua in rapporto alla natura delle comunicazioni ed alla loro complessità. Si tratta quindi di una valutazione influenzata dalle contingenze del caso concreto: più complessa e articolata sarà la descrizione dell'ipotesi d'accusa tanto maggiore dovrà essere l'accertamento sulla appropriata conoscenza della lingua. Nel caso di specie tale valutazione non è stata compiuta e ci si è limitati alla apodittica evocazione di emergenze scarsamente significative.

Non si è attribuito rilievo all'imponente numero di comunicazioni in lingua straniera presenti in atti, si è trascurato che la società è composta da personale che fa uso privilegiato della lingua inglese; che a fronte di sole quattro e-mail provenienti dal ricorrente redatte in italiano, la restante totalità delle comunicazioni a lui dirette sono redatte in inglese al pari delle risposte. In breve, dunque, si è errato nel non tradurre l'atto e la pronunzia mostra altresì motivazione carente rispetto alla dimostrazione di una adeguata conoscenza della lingua italiana.

D'altra parte, se per l'accusato cittadino italiano appartenente ad una minoranza linguistica riconosciuta è prevista per legge la verbalizzazione e la traduzione degli atti nella madrelingua, tale trattamento non è invece riconosciuto all'accusato appartenente ad altra nazionalità, nei cui confronti è previsto un apprezzamento discrezionale da parte del giudice, che determina una evidente disparità di trattamento, che prospetta l'incostituzionalità della disciplina vigente.

13.2. Con il secondo motivo si deduce violazione di legge in relazione alla mancata traduzione nella lingua italiana di documenti acquisiti in atti. La Corte di merito, pur avendo riconosciuto il diritto dell'imputato ad avere contezza della struttura portante delle prove dell'accusa, afferma che esso non può dilatarsi a ricomprendere tutti i documenti talvolta innumerevoli e del tutto irrilevanti" acquisiti nel fascicolo processuale. La stessa Corte ha fatto riferimento alla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo che ha interpretato l'art. 6, comma 3, della Convenzione ma non ne ha tratto tutte le conseguenze, avendo trascurato il passaggio nel quale si fa riferimento a particolari circostanze che possono anche estendersi ad un ulteriore grado di controllo sull'adeguatezza della traduzione fornita.

Erroneamente a tale riguardo la Corte di merito ha ritenuto l'esistenza di un onere di allegazione in ordine alla rilevanza del documento da tradurre, trascurando che siffatta valutazione può essere compiuta solo dopo che il contenuto di un atto sia stato compreso. Nè l'indicata esigenza di conoscenza può essere compressa in rapporto al principio di ragionevole durata del processo, non potendosi vulnerare le fondamentali prerogative defensionali dell'imputato. L'interpretazione della disciplina legale proposta nel procedimento in esame si pone in contrasto con la disciplina costituzionale ma anche con i principi espressi dalle Carte sovranazionali sui diritti dell'uomo ed enucleati dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo.

13.3. Con il terzo motivo si censura la logicità della motivazione per ciò che attiene all'individuazione della posizione di garanzia dei ricorrenti. L'assunto accusatorio si basa sull'idea che il comitato esecutivo della società, pur formalmente abolito dal consiglio di amministrazione il 10 marzo 2005, ha continuato anche successivamente ad operare attraverso i meeting dei membri esecutivi del consiglio medesimo, restando in fatto il luogo di esercizio del potere di gestione della società. La veste di datore di lavoro non è stata attribuita all'intero consiglio di amministrazione, bensì solo ai tre consiglieri delegati che ha ritenuto dotati dei tipici poteri di gestione e spesa che definiscono la posizione di garanzia.

Si è ritenuto che sebbene a ciascuno di essi fosse stato attribuito un settore di spettanza, tutti concorrevano alla gestione collettiva dell'impresa facendo parte di un board decisionale che si era occupato di tutti i settori aziendali.

La difesa assume che, invece, diverse evidenze probatorie pongono in luce la netta discontinuità che connota i due diversi modelli di gestione aziendale prima e dopo il 2005. La Corte di merito utilizza elementi documentali e testimoniali compiendo numerosi errori logici e di travisamento della prova. Essa ha in particolare travisato le dichiarazioni dell'amministratore delegato E., il quale ha spiegato che il mutamento dell'organizzazione ha avuto luogo per adeguarsi ad un modello tipicamente italiano, costituito da un consiglio di amministrazione ed un amministratore delegato. La stessa Corte ha erroneamente ritenuto che il detto amministratore facesse riferimento ad un obbligo di legge e non ad una mera sostanziale esigenza di adattamento ad una organizzazione tipica italiana. In effetti la scelta compiuta nel 200APL5 corrisponde ad una istanza di adeguamento all'orientamento più diffuso tra la società per azioni nella scelta dei modelli di governance.

Altrettanto erroneamente la Corte ha tratto argomento da una delibera del consiglio di amministrazione del marzo 2006 concernente i poteri di rappresentanza, che costituisce tema distinto dal sistema di governance.

Parimenti illogicamente il giudice ha fatto riferimento al processo nei confronti dei membri del comitato esecutivo per un incendio intervenuto nel 2002, assumendo che il disimpegno per il futuro costituiva validissimo motivo per abolire formalmente l'organo. Si deduce che, pur ammettendo che quella sentenza potesse costituire uno stimolo al mutamento del sistema di governo dell'azienda, ciò non offre alcun contributo alla tesi della sopravvivenza del comitato esecutivo rispetto alla sua abolizione formale avvenuta nel 2005.

I giudici d'appello hanno tratto argomento anche dalla natura riservata delle riunioni del board, attestata dalla classificazione dei suoi verbali e dal carattere collegiale delle decisioni assunte in ordine ai diversi problemi gestionali. Tale apprezzamento viene ritenuto censurabile, perchè i giudici di merito si sono limitati al indicare solo due verbali, proponendo una lettura decontestualizzata di singole espressioni contenute nei documenti di per sè molto sintetici. Da tali verbali emerge semmai una prova contraria rispetto all'ipotesi accusatoria, poichè traspare che sulle tematiche della sicurezza ed in particolare della prevenzione degli incendi non vi è mai stata alcuna decisione collegiale. Dagli stessi verbali emerge che non viene assunta alcuna decisione su questioni di primaria rilevanza gestoria, il che svuota di plausibilità l'ipotesi accusatoria.

Un ulteriore profilo di manifesta illogicità della sentenza riguarda la ritenuta competenza dell'intero board in ordine alle decisioni economiche prodromiche all'inoltro alla casa-madre delle richieste sulla prevenzione antincendio straordinaria. Si espone che la Corte di assise di appello ha tratto argomento da alcune e-mail nelle quali gli interlocutori manifestano il timore di andare in continuazione dal board, ma uno di essi riceve rassicurazione in relazione all'importanza della questione. La Corte ritiene che l'amministratore delegato abbia assunto decisioni in materia condividendole con i ricorrenti, a proposito della utilizzazione dei fondi messi a disposizione per la prevenzione degli incendi, come desunto dallo scambio di e-mail. La Corte ha in realtà travisato il significato dei documenti in questione. Intanto, traspare che le decisioni, indiscutibilmente centrali per la gestione della società, non trovano alcun riscontro nei verbali del board. Inoltre, lo scambio di messaggi non evidenzia mai una decisione collegiale dello stesso board. A tale riguardo la Corte di merito trascura pure le dichiarazioni dell'amministratore delegato che ha fatto riferimento alla consultazione dei dirigenti tecnici e non anche dei membri esecutivi del consiglio d'amministrazione. La Corte ha omesso di ponderare tali prove di segno contrario rispetto al disegno accusatorio. Rileva particolarmente la assoluta ed inequivocabile estraneità all'intera vicenda dell'imputato P. che era competente esclusivamente in materia di marketing e non in tema di prevenzione di incendio, visto che le scelte di carattere economico in ordine all'utilizzazione dei fondi aziendali non richiedeva alla società italiana alcuna valutazione di ordine economico.

Si finisce con l'attribuire a P. un ruolo assolutamente incoerente rispetto alle sue competenze professionali ed alle deleghe effettivamente ricevute dal consiglio di amministrazione. In tale contesto la partecipazione dell'imputato Pr. alle determinazioni in materia non può essere interpretata che come mero esercizio delle funzioni di controllo contabile demandatagli; mentre le decisioni operative venivano prese nel corso di riunioni tecniche alle quali pacificamente i ricorrenti non partecipavano.

La Corte di assise di appello erra pure quando ritiene l'esistenza di una specifica procedura operativa interna in materia. E' vero che alcuni testimoni hanno fatto riferimento all'operatività di tale procedura, ma in realtà si è in presenza di prassi differenziate.

Comunque la valutazione della destinazione dei fondi messa a disposizione dalla holding tedesca spettava unicamente alla direzione tecnica come riferito da alcuni dirigenti.

Un ultimo profilo di illogicità della motivazione si rinviene nell'interpretazione del verbale del 2 marzo 2006. La Corte di assise di appello equivoca, perchè da un lato si attribuiscono al solo amministratore delegato tutti i compiti e le responsabilità in materia di sicurezza del lavoro, dall'altro si conferma l'attribuzione a firma singola ad ognuno dei tre consiglieri delegati dei poteri di rappresentanza della società con riferimento ai punti della delibera che contengono veri e propri obblighi in tema di sicurezza sul lavoro. I ricorrenti espongono che la società era determinata a passare da un sistema di gestione imperniato sul conferimento delle funzioni ad un organo collegiale come il comitato esecutivo, ad uno che attribuiva centralità alla figura dell'amministratore delegato. Coerente con tale scelta era l'attribuzione all'imputato delegato di una piena autonomia gestionale e di spesa. In tale quadro le deleghe attribuite ai consiglieri delegati ricorrenti non avevano alcuna pertinenza con le tematiche della produzione e conseguentemente con la responsabilità in materia di sicurezza ed igiene del lavoro. La delibera va letta nel senso che agli imputati era stato conferito un generico potere di disposizione organizzativa volto a garantire la sicurezza e l'igiene del lavoro esclusivamente nel proprio ambito funzionale. Una diversa interpretazione indurrebbe a determinare la generica responsabilità di un numero inammissibilmente rilevante di dirigenti dell'azienda.

13.4. Il quarto motivo di ricorso deduce violazione di legge ed illogicità della motivazione con riferimento alla ritenuta idoneità causale delle condotte ascritte ai ricorrenti. Il giudice d'appello ha ritenuto che il giudizio sul carattere impeditivo della condotta doverosa omessa deve essere attestato sulla regola dell'elevato grado di credibilità razionale. Tuttavia, con riferimento alla posizione dei ricorrenti si afferma contraddittoriamente che il tema della causalità va risolto alla stregua di apprezzabili, significative probabilità della condotta doverosa di scongiurare il danno.

L'enunciazione ultima è incoerente con l'altra ed è frutto della distorta lettura della giurisprudenza di legittimità che fa riferimento non al nesso causale bensì alla colpevolezza ed alla evitabilità dell'evento per effetto di un comportamento alternativo lecito. La Corte erra, dunque, nell'individuare la regola di giudizio per l'imputazione causale. In concreto la condotta doverosa richiesta agli imputati viene fatta consistere nel segnalare all'amministratore delegato la necessità e l'urgenza di disporre le misure organizzative e di prevenzione indicate nei capi d'imputazione ed idonee a scongiurare il rischio di incendio. Tale impostazione dell'argomentazione cade se si considera che, come esposto in precedenza, non esiste alcun riscontro alla asserita competenza degli imputati a decidere collegialmente sul tema degli investimenti in materia di prevenzione degli incendi; e più in generale in materia di sicurezza sul lavoro. Non esisteva dunque alcun potere impeditivo in capo agli imputati.

13.5. Il quinto motivo censura la pronunzia per ciò che riguarda la ritenuta esistenza di profili di colpa. La Corte di merito addebita agli imputati numerosi obblighi imposti al datore di lavoro ma precisa che la capacità operativa massima si concentrava nella figura dell'amministratore delegato. Essi tuttavia avrebbero potuto segnalare la necessità di altri comportamenti all'amministratore delegato. Ciò che quindi si contesta agli imputati è di non aver esercitato un controllo sulla gestione decisa dal detto amministratore. Tale argomentazione si rivela manifestamente illogica giacchè, considerata la peculiare posizione ascritta ai ricorrenti, la corretta individuazione delle regole di diligenza si sarebbe dovuta appuntare, semmai, sugli oneri di controllo nei confronti del soggetto delegato. In breve, l'individuazione di norme precauzionali la cui violazione è incompatibile con la definizione della condotta doverosa omessa dai consiglieri delegati inficia ogni ulteriore valutazione inerente all'elemento soggettivo del reato.

La pronunzia è inoltre carente di alcuni passaggi decisivi per la corretta valutazione dell'elemento soggettivo. La Corte ha ritenuto la prevedibilità del pericolo. Tuttavia tale prevedibilità va valutata in concreto, ex ante, e con riferimento alla figura dell'agente modello riferita allo specifico settore e cioè ad un determinato campo di azione. Il giudizio va quindi rapportato ad un ipotetico consigliere modello privo di deleghe in materia di sicurezza rispetto alla produzione. La previsione deve avere ad oggetto non solo l'evento ma anche il decorso causale, almeno nelle sue linee essenziali, dovendosi controllare se lo stesso evento sia la realizzazione del pericolo in considerazione del quale il comportamento dell'agente è stato qualificato come contrario a diligenza. Si tratta insomma di accertare la concretizzazione del rischio. Tali principi, sebbene formalmente accolti dalla Corte d'appello, non sono stati poi utilizzati.

Si è trascurato che i ricorrenti non avevano la minima competenza dal punto di vista tecnico per comprendere quali tipi di interventi agli impianti sarebbero stati necessari per garantire un sicuro funzionamento. I due erano destinatari di deleghe in tema di amministrazione, finanza, controllo di gestione approvvigionamenti, servizi informativi, commercio e marketing. Entrambi esercitavano le loro funzioni esclusivamente dagli uffici in (OMISSIS). La questione non è stata minimamente ponderata del giudice di merito.

Ai fini della prevedibilità, la Corte tende a dimostrare che il quadro delle condizioni in cui versava l'impianto di (OMISSIS) era loro ben noto. Tuttavia tale affermazione non viene riferita ad una classe di eventi analoghi a quello verificatosi, nè è declinato in motivazione con riferimento alla specifica posizione dei ricorrenti.

Non rileva il precedente incendio del 2002, trattandosi di episodio completamente diverso, privo di effetto predittivo su quello oggetto del processo. D'altra parte, gli imputati non erano in grado, per mancanza di competenze tecniche, di comprendere le diverse questioni implicate in tema di sicurezza.

Pure censurabile viene ritenuta la pronunzia per ciò che attiene alla concreta previsione dell'evento ed alla conseguente circostanza aggravante. Si è tratto argomento dal verbale del giugno 2006 nel quale l'amministratore delegato informò gli imputati della gravità dell'incendio di (OMISSIS). Si è trascurato che quell'incendio presentava caratteristiche peculiari connesse alle caratteristiche dei forni e delle connesse strutture. In sostanza, quell'esperienza non era sovrapponibile alla situazione delle altre linee ma andava adattata alle peculiarità di ciascuno stabilimento. Tale valutazione era viepiù preclusa nei confronti dei ricorrenti a causa della mancanza di competenze tecniche. Assumono i ricorrenti medesimi che il tema dell'incendio fu dunque trattato esclusivamente nella prospettiva di un intervento a supporto della società sorella.

Mentre non vi sono elementi per ritenere che in occasione di tale incontro furono discussi temi tecnici o siano state adottate delibere in merito. Il documento è stato dunque illogicamente travisato.

Analogamente illogica è la motivazione nella parte in cui esamina il verbale del 24 novembre 2006. Si discusse di questioni che afferivano alle franchigie assicurative ma non vi sono elementi per ritenere che in quel contesto siano state esaminate particolari questioni in tema di prevenzione incendi. Dunque, i documenti non consentivano ai ricorrenti alcuna previsione dell'evento. Discorso analogo viene prospettato quanto al verbale del 28 agosto 2007: il documento è generico, non si comprende a quale tipo di incidenti l'amministratore delegato abbia fatto riferimento e non se ne possono quindi trarre inferenze in ordine ai tragici eventi verificatisi. Dal documento emerge esclusivamente il forte interessamento al tema della sicurezza sul lavoro rappresentato chiaramente dall'amministratore delegato. I programmati investimenti in materia non potevano non ingenerare negli imputati ricorrenti un sicuro, ragionevole affidamento sull'adozione di tutte le opportune misure.

La motivazione viene censurata pure per ciò che riguarda la conoscenza da parte degli imputati ricorrenti delle richieste formulate dall'amministratore delegato in data 5 ottobre 2007 nell'ambito del programma di prevenzione incendi. Pure a tale riguardo la Corte ha omesso di considerare la mancanza di competenza tecnica per comprendere le conseguenze delle scelte compiute in materia.

Ancora, la Corte non individua alcun documento dal quale poter desumere la previsione di eventi connessi al flash fire.

Infine la pronunzia viene censurata per ciò che attiene alla dimostrazione della possibilità di un efficace comportamento alternativo lecito loro ascrivibile, posto che le decisioni sul tema venivano assunte dall'amministratore delegato d'accordo con i tecnici della società senza che i due consiglieri avessero alcuna voce in merito.

13.6. Il sesto motivo deduce violazione di legge e vizio di illogicità con riferimento ai punti in cui è stato definito l'obbligo di installazione di un sistema automatico di rilevazione e spegnimento degli incendi presso la linea APL5 dello stabilimento (OMISSIS). La Corte di assise di appello ritiene l'esistenza di tale obbligo alla stregua del decreto ministeriale 10 marzo 1998. Ma in realtà l'inesistenza di tale obbligo alla stregua di una norma giuridica è stato ritenuto già dal primo giudice. Tale valutazione non è stata condivisa dal Giudice d'appello che però non è riuscito ad individuare convincentemente alcuna fonte dell'obbligo giuridico. L'impugnazione propone una elencazione di normative assumendo che nessuna di esse prescrivesse l'installazione di cui si discute. La Corte di merito ha fatto pure riferimento alla presenza di fattori di rischio di incendio, trascurando che le norme antinfortunistiche impongono una prevenzione primaria radicale consistente nell'evitare la presenza di materiale combustibile e nella eliminazione delle possibili fonti di innesco. Ed in concreto si è tecnicamente agito con vari strumenti che sono analiticamente esposti.

Non si può dedurre, con il senno di poi, la sussistenza di un obbligo di carattere secondario costituito da un sistema di rilevazione e spegnimento quando risultano adottate le opportune prevenzioni primarie e soltanto a causa di numerose imprevedibili anomalie le stesse sono state eluse. Si considera che anche nell'ambito dei rapporti assicurativi sono state evidenziate le maggiori fonti di rischio di incendio ma non è mai emersa alcuna prescrizione o indicazione specifica afferente al possibile cedimento di uno delle centinaia di flessibili presenti nello stabilimento. I documenti di provenienza assicurativa non forniscono alcuna indicazione sulla necessità di protezione della zona di ingresso della linea APL5, che era dotata di una centrale oleodinamica interrata, segregata e protetta con il sistema automatico di rivelazione e di spegnimento ad acqua nebulizzata.

13.7. Ulteriore censura riguarda l'illogicità della motivazione per ciò che riguarda la possibilità degli imputati di incidere sulle valutazioni fatte dall'amministratore delegato con riferimento agli investimenti oggetto del processo. In realtà nessuna delle prove utilizzate è in grado di fondare la competenza collegiale dei membri esecutivi del consiglio di amministrazione per le decisioni in materia di investimenti in tema di prevenzione degli incidenti. Di decisioni di tale genere non vi è traccia nei verbali del board e sarebbe stato invece ragionevole rinvenirvi un riferimento laddove su quei temi vi fosse realmente stata una decisione collegiale.

Riprendendo argomenti critici già proposti in precedenza, l'impugnazione ribadisce che le uniche valutazioni su cui si basava la richiesta che l'amministratore delegato formulava alla holding tedesca venivano compiute esclusivamente nell'ambito delle riunioni dell'amministratore stesso con i responsabili dell'area tecnica. La Corte ha attribuito grande rilievo ad alcune e-mail nelle quali si fa riferimento alla procedura in questione, ma da esse può in realtà desumersi soltanto che i due ricorrenti avevano avuto conoscenza delle richieste formulate dal ridetto amministratore delegato. Si assume che appare evidente che le e-mail in questione vengono inviate per conoscenza pochi minuti prima dell'invio definitivo della richiesta alla holding. I due ricorrenti non furono neppure coinvolti nella precedente richiesta formulata nell'aprile 2007 sempre in tema di prevenzione degli incidenti. Ciò è in linea con il fatto che i due erano privi di alcuna competenza specifica.

13.8. L'ottava censura attiene alla logicità della motivazione nella parte in cui ritiene integrato l'elemento soggettivo del delitto di cui all'art. 437 cod. pen..

La motivazione è sbrigativa, si ha l'impressione di una colpevolezza diffusiva, da contesto, che nella prospettiva assunta dai giudici d'appello non poteva non avvincere tutti i soggetti coinvolti, indipendentemente dalla loro peculiare posizione e competenza tecnica e senza alcuna attenzione ai riscontri probatori circa l'effettiva rappresentazione di ogni elemento della fattispecie. Si considera che l'installazione di determinati presidi antinfortunistici era connessa all'individuazione di una situazione di rischio di incendio. Si trattava di valutazione tecnicamente assai controversa in relazione alla quale i ricorrenti erano privi di competenza specifiche e personali. Essi legittimamente, in buona fede, hanno fatto pieno affidamento sulle valutazioni compiute dall'amministratore delegato e dagli organi tecnici. E' dunque esclusa la possibilità di configurare il dolo. I due erano ignari del rischio e della normativa pertinente. Gli imputati non erano neppure a conoscenza delle valutazioni provenienti dalla compagnia di assicurazione non essendo stato loro indirizzato alcun documento. Non vi è neppure la prova della diretta conoscenza dell'esistenza di ricorrenti incendi all'interno dello stabilimento di (OMISSIS): si tratta di una conoscenza che non solo non è stata avvalorata da alcun riscontro ma che è anche incompatibile con il ruolo che la sentenza attribuisce ai due consiglieri delegati. Si è in presenza di una attribuzione di responsabilità soggettiva apodittica, priva di riscontro probatorio.

13.9. Il nono motivo attiene alla violazione della legge penale in relazione al concorso apparente del reato di cui all'art. 437 c.p., comma 2, e di quello di omicidio colposo con violazione della disciplina antinfortunistica. I giudici di merito non hanno ritenuto il concorso tra le due fattispecie errando nell'applicazione sia del principio di specialità sia dell'istituto del reato complesso. La questione è se anche la morte degli operai possa essere ricompresa nell'aggravante di cui al comma 2 dell'art. 437 o costituisca invece autonoma fattispecie colposa. La Corte ha basato la sua valutazione esclusivamente sulla paradossale conseguenza costituita dal trattamento sanzionatorio meno grave nei confronti di chi abbia accompagnato alle condotte di omicidio colposo plurimo anche quella di omissione dolosa di un dispositivo di prevenzione. Si tratta di un argomento logicamente non rilevante, giacchè la verifica in questione va sempre condotta secondo il principio di specialità in astratto. Non può essere il raffronto tra le comici edittali a guidare la valutazione circa la riconducibilità dell'evento morte al concetto di infortunio di cui all'art. 437 c.p., comma 2. E' ben vero che la giurisprudenza di legittimità ha avallato l'interpretazione proposta dalla Corte di assise di appello; e tuttavia l'argomentazione quivi espressa neppure coglie nel segno operando una artificiosa separazione tra interessi afferenti alla pubblica incolumità ed alla vita. Conclusivamente, sia il principio di specialità che quello del reato complesso conducono a ritenere il concorso formale fra le due fattispecie delittuose.

13.10. Il decimo motivo censura la motivazione per ciò che attiene al giudizio di bilanciamento delle circostanze. Pur trattandosi di valutazione altamente discrezionale, non può difettare una sufficiente motivazione, come ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità. Nel caso di specie invece, la Corte torinese ad una veloce elencazione delle circostanze chiamate al bilanciamento ha fatto seguire esclusivamente l'esito del giudizio e non anche il criterio che lo ha determinato. La motivazione è dunque carente.

13.11. L'ultima censura riguarda la logicità della motivazione per ciò che attiene alla determinazione della pena. E' stata individuata la pena-base di quattro anni di reclusione. Tale determinazione è giustificata in larga parte alla stregua di acquisizioni e documenti la cui conoscenza la Corte ha attribuito ad altri imputati e mai ai ricorrenti. Si è pure omesso di considerare la colpa concorrente delle vittime e di altre persone.

14. Il ricorso di S..

14.1. Con il primo motivo si deduce violazione di legge per la mancata traduzione di numerosi documenti in lingua straniera non comprensibili all'imputato. L'art. 242 cod. proc. pen. reca una enunciazione chiara che implica la traduzione, se ciò è necessario, ai fini della comprensione dell'atto. Il G.u.p. ha del tutto arbitrariamente introdotto una condizione di rilevanza che è estranea al dettato normativo. Se lo scopo dell'art. 415-bis cod. proc. pen. è quello di portare a conoscenza dell'indagato l'intero patrimonio conoscitivo ottenuto dalle indagini preliminari, consentendo in un breve termine di esaminare gli atti e tranne le dovute conseguenze anche di carattere processuale, è chiara la compressione dei diritti della difesa, indipendentemente da ogni criterio di rilevanza dei documenti arbitrariamente introdotto dal giudice. Si aggiunge che solo di alcuni atti è stata disposta la traduzione da parte del pubblico ministero mentre altri sono rimasti ignorati. Solo successivamente ne è emersa la rilevanza, tanto che il giudice di primo grado ha dovuto disporne la traduzione nel corso del dibattimento, ma tale tardiva resipiscenza non sana il vulnus verificatosi al momento della conclusione delle indagini preliminari e non attenua l'errore motivazionale del giudice.

14.2 Il secondo motivo deduce violazione di legge e conseguente inutilizzabilità delle dichiarazioni rese, in sede di ritrattazione, a seguito di notifica di informazione di garanzia, dei testimoni indagati in ordine al reato di falsa testimonianza. Al riguardo la motivazione è omessa.

La doglianza è basata sulla ritenuta illegittimità delle iniziative nei confronti dei testimoni condotta dal pubblico ministero in via autonoma, mentre il sistema riserva al giudicante ogni valutazione sulle dichiarazioni testimoniali e sull'opportunità di devolvere all'inquirente le indagini per acclarare natura e contenuto di tali dichiarazioni. L'attività del pubblico ministero ha avuto conseguenze chiaramente ed ingiustamente intimidatorie su alcuni testi che si sono presentati per la ritrattazione. E' ben vero che il pubblico ministero ha potere di indagine nei confronti di persone nei cui confronti sorgano sospetti di subornazione o di induzione alla falsa testimonianza. Ciò è avvenuto nei confronti di C. e non nei confronti del ricorrente, che mai è stato indagato a tale riguardo. E' il frutto di palese travisamento del fatto processuale l'attribuzione di responsabilità in capo al S., travisamento che ha avuto conseguenze sul piano sanzionatorio ed ha inoltre alterato la ricostruzione dei fatti. Ma il danno all'effettività del contraddittorio si evidenzia in modo ancora più marcato nell'impossibilità di acquisire l'importante deposizione di alcuni testi ritualmente citati dalla difesa, come i funzionari della Asl che avevano svolto la loro attività con riferimento allo stabilimento di (OMISSIS).

14.3. Con il terzo motivo si censura la logicità della motivazione in riferimento alla ritenuta componente volontaristica nella formulazione dei documenti di valutazione del rischio nonchè del piano di evacuazione e di emergenza.

La Corte di assise di appello ha apoditticamente ritenuto la tesi che tali documenti siano il frutto di una volontaria sottovalutazione dei rischi e di una altrettanto volontaria ambiguità del piano di emergenza. L'addebito in principio rivolto a soli tre imputati ha acquisito una dimensione generalizzata, tanto che è stato senza ragione esteso a tutti gli altri, così tra l'altro esonerando la Corte dal motivare in ordine all'attribuzione dell'aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 3. Tale apprezzamento è più severo e radicale di quello espresso dal primo giudice, che aveva solo rimarcato alcune ambiguità ed incompletezze. In ogni caso, ove si voglia ipotizzare che i documenti fossero concettualmente alterati per fini di risparmio, l'imputato C. avrebbe dovuto ricevere un "input" al riguardo dall'amministratore delegato per il tramite del S.;

ma di una indicazione intervenuta dall'esterno non vi è traccia nel materiale probatorio. Inoltre, si sarebbe in presenza di volontaria adesione ad un programma di occultamento preparato in altra sede, integrandosi pertanto un frammento di condotta commissiva comune non contestata come avrebbe dovuto; mentre risulterebbe totalmente ininfluente la condotta omissiva contestata, afferente alla mancata segnalazione.

14.4. Il quarto motivo riguarda vizio motivazionale afferente al ruolo attribuito al S. nella formazione del documento di valutazione del rischio di incendio. Egli richiese la redazione dell'atto al C., ma non vi sono elementi per ritenere che esso fu oggetto di un adeguato approfondimento. Può ipotizzarsi al riguardo un atteggiamento trascurato, colposo, ma manca invece la prova di un contenuto volitivo e doloso nella formulazione del documento. La sentenza è al riguardo carente. Manca l'indicazione di un valido movente, ma anche un esame complessivo dell'intero atto, per valutare se le carenze fossero presenti anche in altre parti del documento; e manca una valutazione sui miglioramenti prevenzionistici che si sarebbero potuti trarre. Il giudizio di dolosa preordinazione è in sostanza completamente sfornito di motivazione e di presupposti logici.

Ma manca pure la possibilità di ritenere che il documento sia effettivamente inadeguato. Le stesse sentenze di merito ne danno interpretazioni contrastanti e la approfondita discussione svolta tra i tecnici nel corso del dibattimento ne costituisce ulteriore conferma. L'evento verificatosi è stato unico ed imprevedibile. In ogni caso, ciò che viene demonizzato come sintomatico di una volontà di evitare interventi esterni e costringere i lavoratori ad attivarsi comunque in ogni circostanza non è stato formato con il contributo di S. ma risaliva immutato ad anni precedenti alla sua nomina.

14.5. Il quinto motivo censura la ritenuta esistenza di una condotta caratterizzata dalla consapevolezza della necessità di installare un impianto automatico di rilevazione e di spegnimento degli incendi.

La Corte di merito ha convenuto che non vi era un sicuro obbligo giuridico al riguardo. A ciò è da aggiungere che mai, neppure nella progettazione specifica presentata ai vigili del fuoco, è stata ipotizzata l'installazione di un impianto di tale genere. Dunque a tale riguardo può al più parlarsi di colpa lieve, ma non di atteggiamento doloso. La Corte non ha compiuto un apprezzamento puntuale sull'elemento soggettivo del reato, pervenendo apoditticamente alla conclusione della consapevolezza in capo a tutti gli imputati della necessità della realizzazione dell'impianto.

La sentenza viene pure censurata quanto all'individuazione degli otto punti indicati nella contestazione e ritenuti in sentenza quali indici da cui desumere la necessità di installare l'impianto automatico di rilevazione e spegnimento. Con riguardo alla posizione del ricorrente si considera che, quanto all'incendio di (OMISSIS), si trattò di evento con caratteristiche singolari non accostabili alla situazione presente a (OMISSIS); nè emerge che l'imputato sia stato messo al corrente delle soluzioni adottate in quel contesto, che peraltro non sono significative in rapporto alla linea APL5. Inoltre, l'aumento della franchigia non recava indicazioni specifiche per la detta linea. Le decisioni illustrate in occasione di un meeting fu nota al S. solo per ciò che riguardava l'esistenza di stanziamenti per la lotta antincendio. Ancora, la relazione dell'ing. B. riguardava lo stabilimento di (OMISSIS) e non fu resa nota al ricorrente. La relazione dello stesso ingegnere non consiglia un impianto generalizzato di protezione automatico su tutta la linea o anche solo sulla sezione di ingresso. Le contrarie affermazioni contenute in sentenza sono frutto di travisamento del fatto che si manifesta dalla sola lettura dei passaggi di tale relazione utilizzati e riprodotti nella pronunzia.

Inoltre la relazione dell'ing. W. non ebbe come destinatario il S. ed in ogni caso non prevedeva la necessità di installare il sistema di rilevazione e spegnimento di cui si discute. Infine, la richiesta di autorizzazione ad investimenti "step 2" fu redatta a (OMISSIS), senza alcuna partecipazione o conoscenza da parte del ricorrente. In conclusione, nonostante le ripetute obiezioni difensive, i giudici di merito hanno omesso di riferire al ricorrente gli elementi di giudizio in questione. Su tale generica e non focalizzata base di valutazione si è pervenuti alla erronea affermazione di responsabilità in ordine al reato di cui all'art. 437 cod. pen..

14.6. Con il sesto motivo si censura la motivazione per ciò che attiene all'attribuzione all'imputato dell'obbligo di installare gli impianti automatici di rilevazione e spegnimento sulla linea APL5. Le sentenze di merito hanno riconosciuto che l'imputato non aveva la veste di datore di lavoro ed inoltre non disponeva di un proprio rilevante potere decisionale e di spesa, con la conseguenza che egli non poteva autonomamente dare corso ad opere antincendio. Se non vi è potere non appare neppure esigibile la condotta contestata. Il suo coinvolgimento viene però costruito attorno al concorso nella stesura del DVR incendi della cui falsa formulazione non si comprende bene se il S. sia l'ispiratore o un connivente.

La verità è che l'imputato, al pari degli altri, non percepì la necessità del sistema automatico di cui si discute e ciò a buona ragione, non ricorrendone i presupposti. Ma anche diversamente opinando, si potrà al massimo ravvisare un atteggiamento colposo, un errore di fatto che esclude però l'esistenza del reato doloso contestato. La sentenza di merito, nonostante le ripetute sollecitazioni difensive, non è scesa a valutare questi aspetti e non ha risposto ai quesiti sulla reale esistenza e sul significato dei diversi elementi di allarme. Non lo ha fatto e non lo poteva fare senza scardinare l'impianto accusatorio, tutto imperniato attorno alla contestazione di uno specifico elemento soggettivo.

14.7. Con il settimo motivo si censura la valutazione in ordine alla prevedibilità dell'evento, che deve riguardare l'intera sequenza causale, come ritenuto dalla giurisprudenza di legittimità.

Occorreva cioè chiedersi se quella specifica dinamica, integrata dalla valutazione dell'inefficacia dei fattori negativi, apparisse concretamente prevedibile, operando con criterio ex ante. La Corte di merito compia invece una valutazione assolutamente generica in ordine alla ripetibilità di incendi anche più gravi di quelli ricorrenti.

14.8. Con l'ottavo motivo si deduce travisamento del fatto in ordine ad alcuni elementi fondamentali per il giudizio di prevedibilità della sequenza causale verificatasi. Occorre considerare che pur essendovi stati precedenti incendi, mai si era verificato un principio di incendio nella sezione di ingresso. Si trattava di una zona nella quale il rischio di diffusione del fuoco era assolutamente limitato. E' dunque errata l'affermazione contenuta in sentenza secondo cui l'imputato conosceva la ricorrenza quotidiana degli incendi. Anche nella presentazione di Lu. si fa riferimento a possibili incendi innescati da saldature o riscaldamento di cuscinetti. Nulla viene indicato sulla zona di blocco nastro come area soggetta al rischio di innesco; nè sul cedimento dei flessibili. Non vi è neppure prova che l'imputato fosse a conoscenza dello schema tecnico sequestrato nel personal computer di Gi.. In realtà l'unico elemento riferibile all'imputato è costituito dal contenuto del piano di emergenza. Da esso nulla emerge circa la possibilità di rappresentarsi la sequenza causale verificatasi. Il documento conclama che nè da parte del ricorrente nè da parte di chi lo aveva preceduto nella direzione dello stabilimento era stata ipotizzata quella specifica dinamica incidentale.

14.9. Il nono motivo attiene al vizio motivazionale che riguarda la prevedibilità del concorso di fattori che hanno determinato l'insorgenza dell'incendio. La Corte di merito ha descritto le condizioni di degrado dell'ambiente lavorativo, ma ciò non è sufficiente per ciò che attiene alla prevedibilità in concreto di un incendio in quel punto della linea, in quanto evento non rientrante nel patrimonio conoscitivo e di esperienza degli imputati.

In sostanza non si rinviene il concreto esame della causalità della colpa che si attribuisce a S.. La pronunzia ritiene sintomatici di una situazione di crescente degrado residui che in realtà sono normalmente presenti nei luoghi di lavoro ed hanno significato contrario a quanto preteso L'impugnazione propone una esposizione analitica di tale strumentario. Si evidenzia che non si riscontrano rilevanti errori nella sfera manutentiva, fatta eccezione per ciò che riguarda la nomina del capoturno responsabile delle emergenze. D'altra parte non vi sono elementi per ritenere che una formazione in tema di antincendio più appropriata avrebbe consentito di gestire diversamente la situazione.

14.10. Il decimo motivo censura la pronunzia per ciò che riguarda la valutazione delle condotte imprevedibili degli operai e di altri eventi particolari. Si assume che la Corte di merito ha errato nell'impostazione del problema causale. Non ci si è occupati di unico evento con un unico antecedente, bensì della molteplicità degli antecedenti che si riscontrano dietro più eventi. Non ci si è sottratti alla tentazione di risalire ad una lunga serie di fattori, al fine di raggiungere l'antecedente più remoto con impostazione tipica del naturalista. Compito del giurista è invece quello di individuare gli antecedenti che possono avere rilevanza per il diritto. In sostanza i giudici di merito, trascurando le doglianze delle difese, hanno sottovalutato le precise circostanze di fatto e le vere cause dell'incendio nella specifica sezione dell'impianto teatro dei fatti, prediligendo ricostruzioni di contesto basate soprattutto sulle dichiarazioni testimoniali degli operai. Una focalizzazione sulle cause immediate avrebbe mostrato che l'incendio ebbe origine per il concatenarsi di eventi numerosi ed eccentrici tali da interrompere qualunque nesso causale rispetto a cause più remote eventualmente addebitabili agli imputati; e comunque avrebbe chiarito che tale concatenarsi di circostanze aveva di fatto reso gli eventi del tutto imprevedibili per gli imputati. Il giudice di merito ha liquidato l'argomento dell'adombrato contributo causale degli operai, evocando le problematiche relative al risparmio che trascurava la valutazione della sicurezza. Gli operai commisero errori: avvedutisi delle fiamme, non agirono come dovuto e come previsto chiamando la squadra antincendio aziendale che avrebbe messo in sicurezza la linea togliendo corrente alla pompa. La Corte di merito si è limitata a considerare che le condotte imprudenti dei lavoratori non possono costituire fattore di interruzione del nesso causale.

In realtà, si osserva, le condotte erronee dei lavoratori sono interattive del nesso causale come ripetutamente ritenuto in giurisprudenza, essendosi in presenza della concatenazione di una pluralità di azioni erronee, che presenta caratteri di eccezionalità ed abnormità. Si è trascurato che gli interventi programmati e ritardati riguardavano altre parti dell'impianto e che non esistevano valutazioni, neppure internazionali in ordine al rischio di rottura dei flessibili; che i sistemi antincendio installati altrove non avrebbero rilevato l'incendio e non sarebbero entrati in funzione; che le spese per le pulizie erano rimaste invariate; che la decisione di chiudere lo stabilimento non ha determinato alcuna situazione di abbandono, essendo programmato il trasferimento graduale degli impianti in (OMISSIS).

Soprattutto si è trascurato che gli operari erano rimasti nel pulpito nonostante l'impianto fosse ripartito, disinteressandosi del processo lavorativo. Tale incongruo e imprevedibile comportamento costituisce l'antecedente causale dell'evento. Il ricorso analizza i plurimi errori del personale, pervenendo alla conclusione che si sia di fronte al combinarsi di plurimi fattori anomali, eccezionali ed imprevedibili.

14.11. L'undicesimo motivo attiene all'aggravante della previsione dell'evento.

La tesi sostenuta dai giudici di merito del volontario abbandono dello stabilimento determinato dall'intento di risparmiare sugli investimenti non è sorretta da alcuna prova concreta ed è in conflitto con elementi acquisiti al processo. Infatti la decisione di trasferire la produzione a (OMISSIS) fu determinata da una valutazione economica complessiva nella quale i costi per la pulizia e la manutenzione erano irrisori. Ciò nonostante ancora nel luglio 2007 era stato avviato il cantiere per la compartimentazione delle gallerie. L'imputato si era attivato per stimolare il rilascio del certificato di prevenzione incendio. Non appare alcuna contiguità dell'imputato medesimo con i propositi della dirigenza. Ed è inoltre irrealistico pensare che il ricorrente abbia avuto dispregio per l'incolumità dei dipendenti.

Il giudice d'appello avrebbe dovuto in realtà invertire il ragionamento e giungere a ritenere che gli interventi contestati non furono disposti e realizzati perchè nessuno degli imputati ebbe in concreto la possibilità di prevedere un evento lesivo o un incendio.

In realtà, se vi fosse stata alcuna previsione in tal senso, sarebbe stato sufficiente, per evitare il verificarsi dell'evento, prevedere procedure ben più semplici della predisposizione di un sistema di estinzione automatico fisso. Il fatto è che mentre era prevista la possibilità di insorgenza delle fiamme, non era stato previsto il pericolo del flash fire. Nè è pensabile che, previsto il flash fire, si sia preferito esporre anche solo le macchine e i beni ad un simile distruttivo evento, oltre che i dipendenti ad un infortunio certamente grave.

14.12. Il dodicesimo motivo censura il mancato riconoscimento del concorso formale fra i reati di cui agli artt. 437 e 589 cod. pen. Vengono proposti argomenti sostanzialmente coincidenti a quelli prospettati da altre difese, di cui si è sopra dato conto.

14.13. Il tredicesimo motivo censura la motivazione per ciò che riguarda l'entità della pena. Si assume che l'imputato abbia tentato l'inquinamento delle prove. In realtà il ricorrente non figura indicato tra i soggetti che nella prima sentenza risultano a vario titolo coinvolti in ipotesi di falsa testimonianza. Costui non è mai stato indagato al riguardo. Nè si può attribuire un rilievo enfatizzato ad una cena aziendale alla quale parteciparono oltre 50 dipendenti, alcuni dei quali avevano già reso testimonianza e che erano accompagnati da mogli e figli, senza che sia l'emerso in alcun modo che vi siano stati avvicinamenti o suggerimenti. Il coinvolgimento nella vicenda connessa a tale cena appare gratuito ed apodittico, tanto che nessuna contestazione è stata mossa al ricorrente. Tale errore ha assunto formale rilievo nel momento della determinazione della pena, giustificando l'esclusione delle attenuanti generiche. Pure gratuita è l'affermazione che ipotizza il coinvolgimento nell'inquinamento in tema di attuazione del piano di emergenza ed evacuazione. Tale enunciazione è frutto di confusione con la posizione di altro imputato. Anche sulle modalità di esplicazione del ruolo di direttore di stabilimento la sentenza è censurabile, giacchè dal ruolo subalterno rispetto all'amministratore delegato si desume la totale indifferenza rispetto al valore della sicurezza e della vita, sebbene si tratti di due piani completamente diversi che vengono invece indebitamente accomunati dal ragionamento probatorio, che si basa ingiustificatamente sulla deliberata volontà di nascondere i rischi realmente esistenti e di imporre l'intervento degli operai in ogni situazione di emergenza. La Corte trascura che i progetti di adeguamento erano stati tutti definiti e gli ultimi interventi erano in corso nell'estate 2007. In altri passi della sentenza si enfatizzano ingiustamente singoli spunti da cui trarre indicazione per un disinteresse rispetto alla sicurezza del personale, quasi che fosse esso il diretto beneficiario dei risultati produttivi dello stabilimento o che potesse aspettarsi avanzamenti di carriera da una politica di risparmio compiacente rispetto alle indicazioni del vertice. La sentenza è anche contraddittoria, perchè da un lato si assume che l'imputato aveva piena visione di ciò che accadeva nello stabilimento e dall'altro appare che aveva solo una piccola competenza per ciò che riguarda il miglioramento, l'adeguamento e la messa a norma degli impianti. L'unico profilo di colpa plausibilmente addebitabile al S. è quello di non aver percepito appieno il rischio che derivava dalla situazione in cui si svolgeva il lavoro nell'ultimo periodo e nell'aver sottovalutato la portata delle ultime disposizioni organizzative con l'affidamento del compito di gestire l'emergenza ai capi turno produzione, con il conseguente affidamento dell'incarico al povero Ma.Ro.. Il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche appare nel suo complesso il frutto di travisamento del fatto e di contraddittorietà della motivazione.

14.14. Il quattordicesimo motivo attiene alla motivazione in punto di incremento di pena. La Corte avrebbe dovuto tener conto non solo della carenza effettiva di poteri, riconosciuta dallo stesso pubblico ministero, rispetto alla posizione di altri imputati maggiormente coinvolti; ma anche del limitato livello di prevedibilità dell'evento. Anche a tale riguardo, secondo il S., il complessivo travisamento del quadro probatorio enfatizza circostanze di ben limitato rilievo che vengono analiticamente esposte.