Riforme fallite della giustizia civile e il silenzio degli avvocati
Riforme della giustizia progettate non tanto per risolvere i problemi del processo civile, quanto per risolvere i problemi che hanno i magistrati nell’adempiere ai loro compiti nel processo civile

Mi sono imbattuto in uno scritto, neanche troppo breve (per cui mi sono dovuto prendere il tempo per leggere questi circa 23000 caratteri) che come pochi altri ha il merito di illustrare con rara lucidità il motivo dell’inutilità del tanto lavoro fatto a livello ministeriale per ridurre i tempi del processo civile e, in fin dei conti, del fallimento delle innumerevoli riforme della giustizia civile che si sono succedute senza sosta da oltre un ventennio a questa parte.
Lo scritto è dell’Avv. Giuliano Scarselli e costituiva la riproduzione scritta dell’intervento dallo stesso tenuto in Lecce, il 29 settembre 2017, in occasione dell’Assemblea nazionale delle camere civili, e infine pubblicato, con il titolo “Le riforme del processo civile nel silenzio degli avvocati” nel portale judicium.it.
Mi sono sentito in dovere di citarlo e farne oggetto di un breve riassunto/commento.
Le riforme non hanno funzionato perché non si è mai tenuto conto della voce dell’avvocatura e, si fa intendere, non si tiene conto di quella voce perché l’avvocatura non riesce ad alzarla, a metterci un po’ di forza (“” ...gli avvocati non sono mai stati in grado di proteggere i diritti di chi agisce e si difende in giudizio perché hanno tenuto -quasi sempre- in debita considerazione che per sedere ai tavoli delle commissioni dovevano avere posizioni morbide e accondiscendenti …” ).
Perché le riforme della giustizia civile sono fallite? Ci dice l’avv. Scarselli:
“... da una parte ciò è accaduto perché le riforme sono quasi sempre state pensate e studiate dall’ufficio legislativo del Ministero della Giustizia, e in detto ufficio stanno i magistrati, non stanno gli avvocati; ed anche quando gli spunti sono stati dati da commissioni ministeriali, la presenza in esse di avvocati è sempre stata assolutamente marginale, se non del tutto inesistente.
I magistrati, poi, probabilmente per loro forma mentis, hanno progettato riforme non tanto finalizzate a risolvere i problemi del processo civile, quanto a risolvere i problemi che hanno i magistrati nell’adempiere ai loro compiti nel processo civile, cosicché il punto di vista delle riforme che si sono avute dagli anni ’90 ad oggi è sempre stato solo quello del giudice.
Devo allora ricordare quello che anni fa diceva Franco Cipriani: cosi come a nessuno verrebbe in mente di fare la riforma della sanità dal punto di vista del medico, e così come a nessuno verrebbe in mente di fare la riforma della scuola dal punto di vista dell’insegnate, allo stesso modo a nessuno dovrebbe venir in mente che per risolvere i problemi della giustizia si debbano fare riforme dal punto di vista del giudice, e si debba sempre e solo preoccuparsi non dei problemi che hanno i cittadini quando hanno bisogno dell’intervento dello Stato per ottenere giustizia, ma dei problemi che hanno i giudici nell’amministrarla.
Finché la logica sarà questa, noi non potremo che avere le riforme che abbiamo avuto in questi anni”.
In questo senso si spiegano le mille preclusioni, l’abbreviazione dei termini agli avvocati e mai ai magistrati, i motivi – sempre variabili - di inammissibilità dei ricorsi per cassazione, ecc, i quali, in fin dei conti, scaricano sulle assicurazioni degli avvocati - se non proprio alle parti - i danni creati dalle insidie e trabocchetti del processo civile. Ma anche quando non vi è errore si assiste alla sommarizzazione della procedura, dell’accontentarsi di una verità processuale confezionata “alla bell’e meglio” (due testimoni non di più, ad es., CTU approssimative accettate per buone, ecc.).
L’avv. Scarselli elenca puntualmente tutte le riforme succedutesi nel tempo ed evidenzia la loro univoca vocazione, vale a dire scaricare il contenzioso attraverso l’introduzione di paletti, senza contare l’aumento dei costi della giustizia.
Cita anche, e ciò vorrei sottolinearlo, l'ulteriore punto della inefficacia dell’approccio delle riforme: “l’assenza del punto di vista del cittadino, o dell’utente della giustizia”.
Questo tema è fondamentale e andrebbe meglio misurato. Da un lato va detto che delegare all’avvocatura la posizione dell’utente della giustizia non è probabilmente esaustivo di quello specifico punto di vista. Da altro lato va anche ricordato che vi sono utenti e utenti e che una componente “forte” di utenti non solo si fa ascoltare ma fa anche legiferare in modo appropriato, ai propri fini. La componente bancaria ha modificato ripetutamente negli ultimi anni la procedura esecutiva, in particolare quella immobiliare, rendendola meno costosa e più snella. La stessa componente ha, si capisce facilmente, voce anche in materia concorsuale.
Non mettiamo in questo ambito le pressioni al legislatore delle compagnie di assicurazione in merito alla regolamentazione del punto di invalidità, ad esempio. E’ chiaro che la voce dell’utente del servizio giustizia civile va considerata ai fini procedurali e non anche sostanziali per il facile motivo che sempre nel processo le parti sono due, con interessi sostanziali contrapposti. Ma entrambe le parti hanno un unico interesse quando il tema in discussione è la efficacia del processo. Per efficacia si intende la capacità di accertare se torto vi sia e di ripararlo in modo adeguato e satisfativo.
Le vere parti in possibile conflitto quando si parla di processo sono tre: magistrati/uffici giudiziari/uffici-esecutori da una parte. L’avvocato da altra parte. Infine il cittadino/impresa utente della giustizia.
E’ chiaro allora che se si fosse trovato il giusto contemperamento delle esigenze di tutte queste tre parti non si sarebbe potuto scrivere, come fa l’avv. Scarselli, che fino ad adesso “la diagnosi è stata: vi sono troppe cause; la cura è stata: vanno diminuite … i cittadini non devono fare cause; se le fanno, deve valorizzarsi la chiusura di esse in rito, e in ogni caso esse devono essere decise in modo sommario, senza approfondimenti particolari, e con motivazioni stringate, se non inesistenti … l’appello deve esser fatto in sei mesi, e tra breve, in un mese, mentre le Corti di appello continuano a fissare la prima udienza a quattro anni dalla notifica della citazione”.
E poi l’attacco al principio della motivazione compiuto con le varie riforme e, in misura maggiore, con le riforme in itinere. Scrive l’avv. Scarselli: “La motivazione dei provvedimenti giurisdizionali sta all’indipendenza del giudice: il giudice è indipendente da ogni altro potere dello Stato e soggetto soltanto alla legge (art. 101, 2° comma Cost.), ma proprio per questo deve motivare le decisioni che assume, di fronte alle parti e di fronte al popolo, nel nome del quale la giustizia è amministrata (art. 101, 1° comma Cost.).
Ridurre il valore della motivazione è porsi in contrasto con lo stesso art. 111 Cost. per il quale ‘ Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati’ ”.
Infine la svalutazione dell’udienza pubblica e aggiungerei la burocratizzazione dell’udienza. Cito ancora l’avv. Scarselli: “Diceva Gabriel Honoré Mirabeau nel 1775 ‘Datemi il giudice che volete, parziale, corrotto, anche mio nemico, purché non possa procedere ad alcun atto fuori che dinanzi al pubblico’. L’udienza pubblica era pertanto un valore risalente all’illuminismo, che noi avevamo già nello Statuto Albertino con l’art. 72, che prevedeva che ‘Le udienze dei tribunali saranno pubbliche conformemente alle leggi’.
Le udienze in cassazione impegnavano il giudice tre ore la settimana: una udienza alla settimana per magistrato della cassazione, con udienza che iniziava alle 10,00, e finiva alle 13,00.
La domanda allora è evidente: valeva la pena sopprimere un valore illuminista, durato oltre 200 anni, presente nella nostra carta costituzionale con l’art. 101, e nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) all’art. 6, e già giudicato dalla nostra Corte costituzionale “espressione di civiltà giuridica” (Corte Cost., 24 luglio 1986 n. 212) per risparmiare tre ore a settimana?”.
Manca all’appello dell’analisi che qui abbiamo ripreso, ancora una volta, il punto di vista del cittadino utente del servizio giustizia e che, personalmente, ho tentato di evidenziare nell’intervento in questa rivista titolato “Appunti sparsi sulla crisi della giustizia (civile)”.
La mancata presenza della voce dell’utente al tavolo delle riforme è da atribuirsi alla mancata costituzione di quella componente in un organismo rappresentativo. Nessuna parte in causa fa parte di una associazione “movimento delle parti in causa”, o meglio, fino ad oggi nessuno si è interessato di creare qualcosa del genere. Va ricordato che quella componente è stata difesa e fatta propria sempre dagli avvocati. Le associazioni dei consumatori guardano al sostanziale e le questioni procedurali sono così tecnicistiche che soltanto l’operatore della giustizia può comprendere. Tuttavia l’utente potrebbe non essere interessato necessariamente al contenzioso giudiziale ma genericamente ad un modo rapido di sapere se ha torto o ragione. E sul punto nessuno si è mai confrontato.