La Corte Costituzionale raddoppia la pensione d’inabilità per gli invalidi civili
Illegittimità costituzionale della limitazione del beneficio incrementativo della pensione per gli invalidi civili totali nei limiti in cui non lo si riconosce ai soggetti di età superiore a diciotto anni.

La Corte costituzionale con la sentenza n. 152 del 20 luglio 2020 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 38, comma 4 della Legge n. 448 del 28 dicembre 2001, nella parte in cui, con riferimento agli invalidi civili totali, dispone che i benefici incrementativi di cui al comma 1 siano concessi «ai soggetti di età superiore a diciotto anni». In virtù di tale pronuncia viene previsto un aumento della pensione d’inabilità per invalidi civili totali, già a partire dai diciotto anni di età. Infatti si passa da una pensione di euro 286,81 ad euro 651,51 per tredici mensilità.
Il caso di specie
La vicenda trae origine da un ricorso promosso dal suo tutore, una donna di quarantasette anni affetta da tetraplegia spastica prenatale, invalida al lavoro al 100%, la quale lamentava che la pensione di inabilità da lei percepita ex art. 12 della Legge n. 118 del 30 marzo 1971 fosse «largamente insufficiente a garantirle il soddisfacimento dei bisogni primari della vita», per cui chiedeva che l’I.N.P.S. fosse condannata a pagarle la pensione di inabilità in misura non inferiore al minimo previsto dall’art. 38 della Legge n. 448 del 28 dicembre 2001 ovvero in misura non inferiore all’assegno sociale, di cui all’art. 3, comma 6 della Legge n. 335 dell’8 agosto 1995 e, comunque in misura tale da assicurarle il proprio decoroso mantenimento.
Nel corso del giudizio la Corte d’appello di Torino, Sezione Lavoro, adita in sede di gravame avverso la sentenza del Tribunale sfavorevole alla ricorrente, ha sollevato, con l’ordinanza in epigrafe le seguenti questioni di legittimità costituzionale:
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Art. 12, comma 1 della Legge n. 118 del 30 marzo 1971, «nella parte in cui attribuisce al soggetto totalmente inabile, affetto da gravissima disabilità e privo di ogni residua capacità lavorativa, una pensione d’inabilità […] insufficiente a garantire il soddisfacimento delle minime esigenze vitali, in relazione agli artt. 3, 38, comma 1, 10, comma 1, e 117, comma 1 Cost.»;
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Art. 38, comma 4 della Legge n. 448 del 28 dicembre 2001, «nella parte in cui subordina il diritto degli invalidi civili totali, affetti da gravissima disabilità e privi di ogni residua capacità lavorativa, all’incremento previsto dal comma 1 al raggiungimento del requisito anagrafico del sessantesimo anno di età, in relazione agli artt. 3 e 38, comma 1 Cost».
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La Corte d’appello di Torino premette che risulta documentalmente provato che l’appellante, in conseguenza delle patologie di cui soffre, «è costretta a vivere su una sedia a rotelle, è totalmente dipendente da terzi per il compimento di gli atti della vita (lavarsi, vestirsi, alimentarsi, coricarsi, ecc.), dispone di limitatissime funzioni intellettive, comunicative e relazionali, non essendo neppure in grado di parlare ed esprimere i propri bisogni». Sottolinea come la stessa – a parte l’indennità di accompagnamento, che assolve però a funzione compensativa diversa da quella di sostentamento – non disponga che della pensione di inabilità, ammontante nel 2018 ad euro 282,55 per tredici mensilità, oltre alla maggiorazione di euro 10,33 mensili di cui all’art. 70, comma 6 della Legge n. 388 del 23 dicembre 2000, e che tale importo complessivo non è certamente sufficiente a garantire «il soddisfacimento dei più elementari bisogni di vita».
La decisione della Corte
Con la questione proposta in via principale la Corte costituzionale dubita della legittimità costituzionale della disposizione di cui al primo comma dell’art. 12 della Legge n. 118 del 30 marzo 1971, nella parte in cui attribuisce al soggetto totalmente inabile, affetto da gravissima disabilità e privo di ogni residua capacità lavorativa, una pensione di inabilità di importo pari, nell’anno 2018 ad euro 282,55, nell’anno 2019 ad euro 285,66 e nell’anno 2020 ad euro 286,81.
Tale disposizione si porrebbe, infatti, in contrasto con gli artt. 3, 38, primo comma, nonché con gli artt. 10, primo comma, e 117, primo comma Cost., questi ultimi in relazione agli artt. 4 e 28 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, adottata il 13 dicembre 2006, ratificata dallo Stato italiano con legge 3 marzo 2009, n. 18, e cui ha aderito anche l’Unione europea (decisione del Consiglio n. 2010/48 del 26 novembre 2009), e agli artt. 26 e 34, in particolare terzo comma, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, essendone l’effetto quello di disconoscere agli inabili al lavoro il diritto ad un mantenimento adeguato, in ragione della misura insufficiente della pensione di inabilità loro spettante, irragionevolmente inferiore rispetto alla misura riconosciuta a titolo di assegno sociale e a titolo di incremento della pensione di invalidità civile per gli ultrasessantenni e, comunque, inidonea a liberare l’inabile dalla condizione di bisogno in cui versa ed a garantirne condizioni di vita almeno dignitose.
La norma così denunciata testualmente dispone che «[a]i mutilati ed invalidi civili di età superiore agli anni 18, nei cui confronti […] sia accertata una totale inabilità lavorativa, è concesso a carico dello Stato e a cura del Ministero dell’interno [ora: dell’INPS], una pensione di inabilità di lire 234.000 annue [attualmente di euro 3.728,53] da ripartire in tredici mensilità […]».
Il limite di reddito personale per potere usufruire della pensione è pari, per il 2020, ad euro 16.982,49 ed è riferito al titolare della pensione e non anche al coniuge.
Al compimento dell’età anagrafica per la maturazione del diritto all’assegno sociale, l’importo della pensione di inabilità civile viene adeguato all’importo dell’assegno sociale e il soggetto non è più sottoposto alla verifica della sussistenza dei requisiti sanitari.
La Corte costituzionale, condividendo quanto esposto dalla Corte di appello di Torino, ha affermato che «l’importo mensile della pensione di inabilità, di attuali euro 286,81, è innegabilmente, e manifestamente, insufficiente ad assicurare agli interessati il “minimo vitale” e non rispetta, dunque, il limite invalicabile del nucleo essenziale e indefettibile del “diritto al mantenimento”, garantito ad “ogni cittadino inabile al lavoro” dall’art. 38, primo comma, Cost.».
Inoltre, non rileva in contrario che agli invalidi civili «che si trovano nell’impossibilità di deambulare senza l’aiuto permanente di un accompagnatore o, non essendo in grado di compiere gli atti quotidiani della vita, abbisognano di un’assistenza continua» sia concessa anche l’indennità di accompagnamento di cui all’art. 1 della legge 11 febbraio 1980, n. 18 (Indennità di accompagnamento agli invalidi civili totalmente inabili), la cui misura mensile ammonta ad euro 520,29 per l’anno 2020.
Diversa è, infatti, la funzione cui, rispettivamente, assolvono la pensione di inabilità e l’indennità di accompagnamento, le quali sono rispettivamente volte (la prima) a sopperire alla condizione di bisogno di chi, a causa dell’invalidità, non è in grado di procacciarsi i necessari mezzi di sostentamento, e (la seconda) a consentire ai soggetti non autosufficienti (in ambito familiare e senza aggravio per le strutture pubbliche) condizioni esistenziali compatibili con la dignità della persona umana (sentenza n. 346 del 1989).
Tanto implica che, mentre la pensione di inabilità civile rientra tra le provvidenze destinate al sostentamento della persona, nonché alla salvaguardia di condizioni di vita accettabili per il contesto familiare in cui il disabile si trova inserito (sentenza n. 40 del 2013), l’indennità di accompagnamento, in quanto diretta a consentire ai soggetti non autosufficienti condizioni esistenziali compatibili con la dignità della persona umana ex artt. 2 e 38, primo comma, Cost., costituisce una provvidenza specifica, funzionalmente diversa ed “aggiuntiva” rispetto alle prestazioni assistenziali connesse alle invalidità. Essa, dunque, non può essere negata per il fatto che, a determinare il richiesto stato di invalidità civile assoluta, concorrano menomazioni − come la cecità parziale − che danno diritto ad autonome prestazioni, in quanto contrasta con il principio di eguaglianza concedere o meno una prestazione assistenziale a soggetti che ne siano parimenti bisognevoli, a seconda che fruiscano o meno di provvidenze preordinate ad altri fini (sentenza n. 346 del 1989).
Ciò dunque rilevato non può, però, chiedersi a questa Corte anche una diretta e autonoma rideterminazione del correlativo importo, poiché un tale intervento manipolativo invaderebbe l’ambito della discrezionalità, che resta, comunque, riservata al legislatore, cui compete l’individuazione delle misure necessarie a tutela dei diritti delle persone disabili.
In particolare, la misura della pensione di inabilità non può essere equiparata all’importo dell’assegno sociale, attesa l’eterogeneità strutturale e funzionale dei sussidi posti a confronto. Infatti, l’assegno sociale costituisce una prestazione assistenziale, erogata agli ultrasessantacinquenni (ora sessantasettenni), istituita in attuazione dell’art. 38 Cost. per far fronte al «particolare stato di bisogno derivante dall’indigenza, risultando altre prestazioni − assistenza sanitaria, indennità di accompagnamento − preordinate a soccorrere lo stato di bisogno derivante da grave invalidità o non autosufficienza, insorte in un momento nel quale non vi è più ragione per annettere significato alla riduzione della capacità lavorativa, elemento che, per contro, caratterizza le prestazioni assistenziali in favore dei soggetti infrasessantacinquenni» (sentenze n. 12 del 2019 e n. 400 del 1999). E nello stesso senso la pregressa pensione sociale – sostituita appunto dall’assegno sociale – consiste in una prestazione di natura assistenziale, che mira a soccorrere i cittadini anziani sprovvisti dei mezzi necessari per vivere (sentenza n. 31 del 1986).
La questione sollevata in via principale (ancorché non in limine, ma in esito all’effettuato scrutinio di legittimità costituzionale della norma denunciata) è, pertanto, inammissibile, per il profilo ostativo della discrezionalità legislativa, cui restano, appunto, riservate le variabili della sua reductio ad legitimitatem.
Stante il mancato accoglimento della questione che precede, viene di conseguenza in esame quella sollevata in via subordinata dalla Corte rimettente, avente ad oggetto l’art. 38, comma 4, della legge n. 448 del 2001.
L’art. 38 prevede:
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al primo comma che le «maggiorazioni sociali dei trattamenti pensionistici», ivi di seguito elencati, siano incrementate, «a favore dei soggetti di età pari o superiore a settanta anni», «fino a garantire un reddito proprio pari a euro 516,46 al mese [cosiddetto “incremento al milione” di lire]»;
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al quarto comma aggiunge che il beneficio incrementativo di cui al comma 1 è concesso anche ai «soggetti di età pari o superiore a sessanta anni che risultino invalidi civili totali […]»;
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al quinto comma precisa che «l’incremento di cui al comma 1 è concesso in base alle seguenti condizioni: a) il beneficiario non possieda redditi propri su base annua pari o superiori a euro 6.713,98; b) il beneficiario non possieda, se coniugato e non effettivamente e legalmente separato, redditi propri per un importo annuo pari o superiore a euro 6.713,98, né redditi, cumulati con quello del coniuge, per un importo annuo pari o superiore a euro 6.713,98 incrementati dell’importo annuo dell’assegno sociale; c) qualora i redditi posseduti risultino inferiori ai limiti di cui alle lettere a) e b), l’incremento è corrisposto in misura tale da non comportare il superamento dei limiti stessi; d) per gli anni successivi al 2002, il limite di reddito annuo di euro 6.713,98 è aumentato in misura pari all’incremento dell’importo del trattamento minimo delle pensioni a carico del Fondo pensioni lavoratori dipendenti, rispetto all’anno precedente».
L’art. 39, comma 4, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, ha poi stabilito che «[i]l comma 1 dell’articolo 38 della legge 28 dicembre 2001, n. 448, si interpreta nel senso che l’incremento delle pensioni in favore dei soggetti disagiati, comprensivo della eventuale maggiorazione sociale, non può superare l’importo mensile determinato dalla differenza fra l’importo di 516,46 euro e l’importo del trattamento minimo, ovvero della pensione sociale, ovvero dell’assegno sociale».
Il comma 8 del sopracitato art. 39, a sua volta, ha disposto che «[l]a lettera d) del comma 5 dell’articolo 38 della legge 28 dicembre 2001, n. 448, si interpreta nel senso che, per gli anni successivi al 2002, sono aumentati in misura pari all’incremento dell’importo del trattamento minimo delle pensioni a carico del Fondo pensioni lavoratori dipendenti, rispetto all’anno precedente, il limite di reddito annuo di 6.713,98 euro e l’importo di 516,46 euro di cui al comma 1 del predetto articolo».
Infine, l’art. 5, comma 5, del decreto-legge 2 luglio 2007, n. 81, convertito, con modificazioni, in legge 3 agosto 2007, n. 127, ha disposto che «[c]on effetto dal 1° gennaio 2008, l’incremento delle pensioni in favore di soggetti disagiati di cui all’articolo 38, commi da 1 a 5, della legge 28 dicembre 2001, n. 448, è concesso secondo i criteri ivi stabiliti, tenuto conto anche di quanto previsto dall’articolo 39, commi 4, 5 e 8, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, fino a garantire un reddito proprio pari a 580 euro al mese per tredici mensilità e, con effetto dalla medesima data, l’importo di cui al comma 5, lettere a) e b), del medesimo articolo 38 è rideterminato in 7.540 euro. Per gli anni successivi al 2008 il limite di reddito annuo di 7.540 euro è aumentato in misura pari all’incremento dell’importo del trattamento minimo delle pensioni a carico del Fondo pensioni lavoratori dipendenti, rispetto all’anno precedente».
Pertanto, alla stregua dei riferiti criteri di aggiornamento, l’importo della maggiorazione sociale per gli invalidi civili che godono della pensione di inabilità, per effetto del raggiungimento della soglia anagrafica di sessanta anni, è pari, per l’anno 2019, ad euro 649,45 e, per l’anno 2020, ad euro 651,51, per tredici mensilità; mentre i limiti reddituali che consentono di usufruire del beneficio sono rispettivamente: per l’anno 2019 euro 8.442,85 per il pensionato solo ed euro 14.396,72 per il pensionato coniugato e per l’anno 2020 euro 8.469,63 per il pensionato solo ed euro 14.447,42 per il pensionato coniugato.
Secondo il Collegio a quo, la condizione anagrafica (raggiungimento del sessantesimo anno di età) stabilita, sub comma 4 dall’art. 38 della legge n. 448 del 2001, per la concessione dell’incremento agli invalidi civili totali, sarebbe irragionevole «allorché l’invalido, come nel caso ben prima del compimento del 60° anno di età, si trovi in ragione delle patologie sofferte in condizioni di gravissima disabilità e privo della benché minima capacità di guadagno».
Ed ulteriormente irragionevole e discriminatoria sarebbe la disposizione denunciata laddove ai titolari di assegno (o pensione) sociale concede l’incremento in questione per il solo raggiungimento del settantesimo anno di età «anche se esenti da patologie invalidanti» mentre «un soggetto totalmente inabile di età compresa fra 18 e 59 anni che si trovi per di più in condizioni di gravissima disabilità […] viene a percepire una pensione di invalidità pari a poco più della metà».
La questione è fondata, in relazione ad entrambi i parametri costituzionali evocati dal rimettente, nei sensi e nel termine di seguito riportati.
Il censurato requisito anagrafico di sessanta anni è effettivamente irragionevole, in quanto il soggetto totalmente invalido di età inferiore si trova in una situazione di inabilità lavorativa che non è certo meritevole di minor tutela rispetto a quella in cui si troverebbe al compimento del sessantesimo anno di età.
Inoltre, se è ragionevole che, nei confronti di altri percettori di assegni (o pensioni) sociali, la situazione di maggior bisogno e la correlata necessità di ulteriore sostegno economico, in assenza di loro compromissioni invalidanti, sia correlata all’ingresso in una fascia di età avanzata, non ragionevole è invece che la stessa correlazione (sia pure rispetto ad una inferiore fascia anagrafica) sia mantenuta anche con riguardo ai titolari di pensione di inabilità, totalmente incapaci al lavoro, la cui condizione di precarietà, fisica ed economica, è certamente preesistente e non può ritenersi inverata solo al compimento del sessantesimo anno di età.
Le minorazioni fisio-psichiche, tali da importare un’invalidità totale, non sono, infatti, diverse nella fase anagrafica compresa tra i diciotto anni (ovvero quando sorge il diritto alla pensione di invalidità) e i cinquantanove, rispetto alla fase che consegue al raggiungimento del sessantesimo anno di età, poiché la limitazione discende, a monte, da una condizione patologica intrinseca e non dal fisiologico e sopravvenuto invecchiamento. E così, con riferimento al caso da cui origina la questione, la difficoltà deriva dalla diagnosticata tetraplegia spastica neonatale, essendo l’interessata incapace, non solo a svolgere i più elementari atti quotidiani della vita (come lavarsi, vestirsi, alimentarsi), ma anche a comunicare con l’esterno, condizione questa dipendente dalla menomazione pregressa e non dal superamento di determinate soglie anagrafiche. E ciò diversamente dalle condizioni che legittimano l’incremento dell’assegno sociale al raggiungimento del settantesimo anno di età per gli aventi diritto all’assegno sociale ai sensi dell’art. 38, comma 1, della legge n. 448 del 2001: in questa evenienza è ragionevole ritenere che lo stato di bisogno di una persona sana si aggravi fisiologicamente con l’anzianità, ossia con il raggiungimento del settantesimo anno di età.
Decisivo e assorbente è poi, comunque, il rilievo che l’assegno riconosciuto agli inabili, ex art. 12 della legge n. 118 del 1971, è, per quanto innanzi detto, largamente insufficiente a garantire loro i mezzi necessari per vivere. Per cui l’avere (la norma censurata) escluso i titolari di tale inadeguato assegno, in età compresa dai diciotto ai cinquantanove anni, dalla platea dei soggetti beneficiari del cosiddetto “incremento al milione” innesca un ulteriore profilo di contrasto – in particolare del suo comma 4 – con gli artt. 3 e 38, primo comma, Cost.
Va, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 38, comma 4, della legge n. 448 del 2001, nella parte in cui, con riferimento agli invalidi civili totali, dispone che i benefici incrementativi di cui al comma 1 sono concessi «ai soggetti di età pari o superiore a sessanta anni» anziché «ai soggetti di età superiore a diciotto anni».
L’estensione del beneficio incrementativo agli invalidi civili – che ne consegue – è ovviamente subordinata alle più stringenti condizioni reddituali di cui alle lettere a) e b) del comma 5 dello stesso art. 38 della legge n. 448 del 2001 e spetta nei limiti di cui alla lettera c) della medesima disposizione.
Dott. Giuliano Scaletta
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Di seguito il testo di
Corte Costituzionale Sentenza n. 152 del 20/07/2020
Ritenuto in fatto
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