Opponibile l'assegnazione della casa familiare al convivente more uxorio
L’opponibilità a terzi dell’assegnazione della casa coniugale del genitore affidatario dei figli minori in caso di cessazione della convivenza more uxorio. Nota a Corte Cassazione n. 17971/15

Il diritto del convivente al godimento della casa adibita a residenza familiare, in caso di cessazione dell’unione di fatto, in presenza di figli minori, è un principio acquisito pacificamente nel nostro ordinamento, in quanto è stato oggetto di una importante pronuncia della Corte Costituzionale (sentenza del 13 maggio 1998, n. 166). Il Giudice delle leggi aveva stabilito in quella sede che l’assegnazione dell’immobile al genitore naturale di un minore o convivente con prole maggiorenne, ma non economicamente autosufficiente, può essere validamente stabilita dal giudice secondo una corretta interpretazione della normativa civilistica esistente – senza quindi dover ricorrere ad un intervento modificativo della Corte – dovendo trovare applicazione il principio di responsabilità genitoriale, insito anche nell’ipotesi di cassazione della convivenza more uxorio.
Peraltro, la Cassazione in tempi più recenti (sentenza n. 7 del 2 gennaio 2014), ha riconosciuto in capo al convivente la titolarità di un potere di fatto sulla casa (intesa come luogo in cui si è svolta stabilmente la vita della coppia), basato su un interesse proprio del convivente, ben diverso dalle mere ragioni di ospitalità.
Il problema di cui si è occupata la Suprema Corte nella sentenza in commento (ove peraltro le due pronunce citate vengono espressamente richiamate), invece, amplia il raggio di indagine e si spinge all’analisi dell’efficacia del provvedimento di assegnazione della casa familiare di proprietà esclusiva dell’ex convivente, rispetto ai terzi in buona fede aventi causa dello stesso. Le conclusioni cui giunge la Cassazione sono di straordinaria importanza, giacché, con tale pronuncia, si arriva – come sempre soltanto per via giurisprudenziale – alla totale equiparazione della famiglia di fatto a quella “legale”, quantomeno in punto di tutela della prole.
Il caso di specie riguarda un immobile di proprietà di Y, il quale lo aveva adibito ad abitazione propria e della compagna X. Dall’unione erano nate due figlie, minorenni all’epoca dei fatti. Dopo la fine dell’unione sentimentale tra X e Y, quest’ultimo decideva di lasciare la casa e di alienarla a terzi.
La società acquirente dell’immobile, non potendo beneficiare del godimento dello stesso, conveniva in giudizio X chiedendo che venisse condannata al rilascio dell’immobile, in quanto occupato senza titolo. Da parte sua, X opponeva l’inammissibilità della domanda perché lesiva del diritto delle figlie minori e per difetto di notifica al p.m., ex art. 1 l. n. 54 del 2006. Chiedeva, inoltre, la sospensione del procedimento in pendenza del giudizio innanzi al Tribunale per i minorenni, che, peraltro, nelle more aveva accolto la sua richiesta di assegnazione della casa, in quanto collocataria della prole ed affermava, infine, nel merito, che la vendita era inefficace nei suoi confronti per effetto dell’accoglimento dell’azione revocatoria proposta.
Il Tribunale di primo grado condannava X al rilascio dell’immobile, argomentando l’inopponibilità del provvedimento di assegnazione a terzi perché non trascritto e posteriore di due anni rispetto alla vendita dell’immobile. Dello stesso avviso era anche la Corte d’appello investita dell’impugnazione, che confermava le statuizioni del giudice di prime cure.
Avverso tale pronuncia proponeva ricorso per Cassazione X, articolando due motivi di censura.
Con il primo deduceva la violazione di legge perché la Corte territoriale non aveva applicato il rito locatizio, bensì quello ordinario, così da non permettere la corretta qualificazione della domanda come risoluzione di contratto di comodato con conseguente ampliamento dei poteri istruttori officiosi del giudice nell’interesse preminente della prole.
Con il secondo deduceva il vizio di motivazione, perché la Corte d’Appello non aveva correttamente valutato la circostanza che nel contratto di compravendita era riportata la dicitura che l’immobile veniva acquistato nello stato di fatto e di diritto in cui si trovava, posto che la presenza di X e delle figlie nell’abitazione era ben nota alla società acquirente.
Preliminarmente, la Suprema Corte analizza gli approdi della giurisprudenza costituzionale e di legittimità in ordine alla corretta qualificazione giuridica della questione dedotta con il ricorso e, precisa che: “la convivenza more uxorio, quale formazione sociale che da vita ad un autentico consorzio familiare, determina, sulla casa di abitazione ove si svolge e si attua il programma di vita in comune, un potere di fatto basato su di un interesse proprio del convivente ben diverso da quello derivante da ragioni di mera ospitalità, tale da assumere i connotati tipici di una detenzione qualificata, che ha titolo in un negozio giuridico di tipo familiare. Ne consegue che l’estromissione violenta o clandestina dell’unità abitativa, compiuta dal convivente proprietario in danno del convivente non proprietario, legittima quest’ultimo alla tutela possessoria, consentendogli di esperire l’azione di spoglio. (Cass. 7214 del 2013; conf. Cass. 7 del 2014)”.
Il rilievo costituzionale della famiglia di fatto consente alla Corte di richiamare proprio la giurisprudenza del Giudice delle leggi, il quale, già con la sentenza n. 166 del 1998, aveva evidenziato come “l’interpretazione sistematica dell’art. 30 Cost., in correlazione agli artt. 261, 146 e 148 cod. civ., impone che l’assegnazione della casa familiare nell’ipotesi di cessazione di un rapporto di convivenza more uxorio, allorché vi siano figli minori o maggiorenni non economicamente autosufficienti, deve regolarsi mediante l’applicazione del principio di responsabilità genitoriale, il quale postula che sia data tempestiva ed efficace soddisfazione alle esigenze di mantenimento del figlio, a prescindere dalla qualificazione dello status”. L’importanza di tale assunto è tanto maggiore considerando anche che, per effetto del d.lgs. 154/2013, non vi è più alcuna distinzione tra figli legittimi e naturali nel nostro ordinamento: tutti hanno pari diritto alla conservazione dell’habitat familiare.
Il principio per cui il provvedimento di assegnazione della casa familiare al convivente collocatario dei figli minorenni (o maggiorenni ma non economicamente autosufficienti) è – proprio per l’importanza eccezionale della tutela dei minori – in grado di comprimere, almeno temporaneamente, il diritto di proprietà di godimento di cui sia titolare l’altro genitore, è pacificamente riconosciuto dalla giurisprudenza, trovando costante conferma nel tempo (Cass. n. 10102 del 2004 e 18863 del 2011). Ciò consente alla Corte di affermare che il convivente, cui è assegnato l’immobile adibito a casa familiare, “in virtù dell’affectio che costituisce il nucleo costituzionalmente protetto (ex art. 2 Cost.)”, è detentore qualificato dell’immobile ed “esercita il diritto di godimento su di esso in posizione del tutto assimilabile al comodatario, anche quando proprietario esclusivo sia l’altro convivente”.
Resta, tuttavia da verificare se detta indiscussa condizione sia o meno opponibile ai terzi in buona fede aventi causa dell’ex convivente.
A tale scopo, la Cassazione richiama le sentenze in materia di comodato espresse dalla stessa Corte anche se con riferimento al rapporto coniugale, così mostrando inequivocabilmente di intendere assimilabili i due tipi di famiglia, quantomeno rispetto alla tutela della prole.
Pertanto, il principio secondo cui il coniuge affidatario e assegnatario della casa familiare può opporre al comodante il provvedimento di assegnazione e quello che sancisce che il comodato in questione non ha natura precaria, bensì sorge per un uso determinato ed ha una durata determinabile per relationem (esigenze dei figli) ed è destinato a persistere o a venir meno con la sopravvenienza o il dissolversi delle necessità familiari che ne avevano legittimato l’adozione (espressi nelle pronunce a Sezioni Unite del 21 luglio 2004 n. 13603 e 29 settembre 2004 n. 20448), sono applicabili anche nell’ipotesi in cui l’originario proprietario-convivente abbia trasferito la proprietà del bene a terzi.
A nulla rileva, pertanto, la circostanza che il trasferimento immobiliare sia avvenuto in epoca anteriore al provvedimento di assegnazione, in quanto la qualità di detentore qualificato in capo a X era già stata acquisita dalla stessa, così come la “indiscussa destinazione dell’immobile a casa familiare impressa dal proprietario genitore e convivente con la ricorrente e le minori fino al suo allontanamento volontario”.
Non è, infine, da trascurare – a parere della Corte – la circostanza che la vendita dell’immobile è stata dichiarata inefficace nei confronti di X, per effetto dell’azione revocatoria dalla stessa con successo esperita, in quanto “l’accertamento giudiziale sotteso alla revocatoria, postula inequivocabilmente, in quanto volto a riconoscere che la vendita ha avuto lo scopo di sottrarre una parte del patrimonio del debitore all’adempimento degli obblighi alimentari, verso i propri familiari, che l’avente causa fosse a conoscenza della destinazione dell’immobile anche prima della consacrazione di tale destinazione dovuta al provvedimento di assegnazione”.
La Suprema Corte, pertanto, accogliendo integralmente il ricorso, rigetta l’azione di rilascio proposta dalla società acquirente dell’immobile nei confronti della ricorrente.
Avv. Francesca Fioretti
Di seguito il testo di Corte di Cassazione, Sez. I civile, Sentenza 11 settembre 2015, n. 17971:
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE
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