Disciplina Forense: nessuna scriminante per l'avvocato indecoroso
Espressioni offensive in atti e diritto alla difesa: una sottile linea di confine esaminata in una sentenza per responsabilità disciplinare dell'avvocato. Cassazione a Sezioni Unite Civili Sentenza n° 4994/2018

1. Il principio
L'espletamento dell' attività professionale non legittima l'avvocato ad utilizzare espressioni insultanti o denigratorie, rilevando nel caso la violazione dell'obbligo deontologico di probità, dignità e decoro e ciò sia quando agisce in qualità diversa da quella professionale, sia ed a fortiori nell'esercizio del suo ministero, posto che la qualità di avvocato, lungi dall'essere un'attenuante del comportamento posto in essere, costituisce un'aggravante del comportamento deontologicamente scorretto.
2. Il fatto e la quaestio iuris
Il Consiglio Nazionale Forense1 respingeva le doglianze dell'avvocato a cui il Consiglio dell'Ordine di appartenenza aveva irrogato la sanzione disciplinare della censura per violazione dell'art. 5 Codice Deontologico vigente ratione temporis per avere utilizzato in un atto giudiziale espressioni offensive e denigratorie nei confronti della controparte, con la quale il medesimo e sua moglie intrattenevano un rapporto conflittuale sfociato in un procedimento penale.
In particolare, in un procedimento penale il ricorrente redigeva una memoria in cui scriveva «chi ha un male incurabile non sopravvive sette anni e non si presenta in tutti i giudizi così accesa e pimpante a perorare la sua causa, perchè non ne avrebbe le forze, ma si prepara ad affidare l'anima a Dio, confidando nel suo generoso Perdono».
L'art. 5 dell'abrogato Codice deontologico, riferimento normativo nel caso di specie, poneva i doveri di dignità, probità e decoro, disponendo all'uopo la necessità che l'avvocato ispirasse la propria condotta all'osservanza di tali doveri, assoggettandolo a procedimento disciplinare per fatti anche non riguardanti l'attività forense quando questi si fossero riflessi sulla sua reputazione professionale o avessero compromesso l'immagine della classe forense2.
Secondo il CNF giungeva ad una corretta decisione il Consiglio dell'Ordine, costituendo l'espressione usata dall'avvocato, ben consapevole del male che affliggeva la sua destinataria, un'offesa gratuita non sorretta da alcuna causa giustificazione, costituendo la qualità di avvocato non un'attenuante del comportamento posto in essere, bensì un'aggravante del comportamento deontologicamente scorretto.
L'avvocato proponeva quindi ricorso denunciando vizio di motivazione, in quanto la decisione si sarebbe fondata su un presupposto errato, ossia che l'avvocato avesse agito quale parte del procedimento, mentre agiva come difensore di fiducia della coimputata. Secondo il ricorrente, infatti, l'attività era scriminata ex art. 51 c.p. trattandosi di espressione formulata nell'esercizio del diritto di difesa e di critica del comportamento processuale mantenuto dalla parte a cui l'espressione era indirizzata.
3. Il decisum
Innanzi tutto la Suprema Corte si è preoccupata di inquadrare correttamente, ancorché astrattamente, la fattispecie, che a tutto concedere sarebbe rientrata nell'alveo dell'art. 598 c.p., vale a dire nella non punibilità per offese in scritti e discorsi pronunciati dinanzi alle Autorità giudiziarie o amministrative, e non in quello dell'esercizio di un diritto di cui all'art. 51 c.p..
Marcati tali confini, la Suprema Corte non ha potuto che avallare la ricostruzione del Consiglio dell'Ordine di appartenenza dell'avvocato ricorrente, sì come confermata anche dal Consiglio Nazionale Forense. Invero, il Giudice di legittimità ha validato il giudizio del CNF, il quale era pervenuto a concludere che la qualità di avvocato «lungi dall'essere una attenuante del comportamento posto in essere, costituisce una aggravante del comportamento deontologicamente scorretto».
Le Sezioni Unite hanno rilevato che l'illecito disciplinare rimane integrato e per nulla scriminato in ogni ipotesi di violazione da parte dell'avvocato dell'obbligo deontologico di probità, dignità e decoro, sia quando agisca in qualità diversa da quella professionale, sia nell'esercizio del suo ministero. Invero, secondo gli Ermellini l'espletamento dell'attività professionale non può in ogni caso legittimare l'uso di espressioni insultanti o denigratorie.
4. Dignità, probità e decoro nel Nuovo Codice Deontologico Forense
L'art. 2 del NCDF estende l'ambito di applicazione delle norme deontologiche «anche ai comportamenti nella vita privata, quando ne risulti compromessa la reputazione personale o l’immagine della professione forense».
Specificando ulteriormente, l'art. 9 nel porre i doveri di probità, dignità, decoro e indipendenza dispone che «l’avvocato deve esercitare l’attività professionale... tenendo conto del rilievo costituzionale e sociale della difesa» e che «anche al di fuori dell’attività professionale, deve osservare i doveri di probità, dignità e decoro, nella salvaguardia della propria reputazione e della immagine della professione forense».
Senza poi dimenticare che l'art. 63, al primo comma, prescrive che l'avvocato, anche al di fuori dell'esercizio del suo ministero, deve comportarsi, nei rapporti interpersonali, in modo tale da non compromettere la dignità della professione e l'affidamento dei terzi, mentre al comma 2 la norma recita che «l'avvocato deve tenere un comportamento corretto e rispettoso nei confronti dei propri dipendenti, del personale giudiziario e di tutte le persone con le quali venga in contatto nell'esercizio della professione».
Ben si comprende la tensione onnicomprensiva dei doveri di dignità, probità e decoro, non distinguendo nell'assoggettare la condotta dell'avvocato tra esercizio del ministero difensivo, cura dei rapporti professionali e rapporti della vita quotidiana. Non residuando in tal modo nessuna scriminante o causa di non punibilità ogni qual volta l'avvocato valichi i confini della probità e del decoro.
Dott. Andrea Diamante
Cultore della materia in diritto processuale penale
presso l’Università degli Studi di Enna “Kore”
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1 CNF, sentenza del 12/07/2016.
2 Doveri oggi imposti dall'art. 9 (e più in generale dall'art. 2) Nuovo Codice Deontologico.
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Di seguito il testo di
Corte di Cassazione Sezioni Unite Civili Sentenza n° 4994 del 2 marzo 2018
Svolgimento del processo
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