Violazione dati personali e risarcimento del danno: Corte di Cassazione

Determinazione del danno nella violazione dei dati personali: Cassazione Sentenza 16133/14.

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Violazione dati personali e risarcimento del danno: Corte di Cassazione

L'art. 15 del Codice della Privacy (D. Lgs. n. 196 del 2003) ha da sempre sottoposto gli operatori ad una rigida evidenza laddove prescrive il diritto ad ottenere il risarcimento del danno da parte del titolare dei dati personali per la sola violazione delle norme sul trattamento, indipendentemente dalla gravità dell'evento e dal verificarsi del danno, criterio ricavabile dalla ambigua lettera del secondo comma del predetto articolo 15.

L'art. 15 del Cod. Privacy prescrive, infatti,

"Art. 15. Danni cagionati per effetto del trattamento
1. Chiunque cagiona danno ad altri per effetto del trattamento di dati personali è tenuto al risarcimento ai sensi dell'articolo 2050 del codice civile.
2. Il danno non patrimoniale è risarcibile anche in caso di violazione dell'articolo 11".

 

La Corte di Cassazione, con Sentenza n. 16133 del 15 luglio 2014, compie un mirabile intervento interpretativo, ponendo dei limiti (di buon senso) ermeneutici al secondo comma dell'art 15.

Avanti alla Corte di Cassazione era stato formulato il seguente quesito ex art. 366-bis cod. proc. civ.: "Nei casi in cui la legge prevede il risarcimento del danno, è autonomamente risarcibile il patema d'animo lamentato dal danneggiato? Nei casi in cui la legge prevede il risarcimento del danno non patrimoniale, quest'ultimo è risarcibile anche se non è stata accertata la sua serietà e la gravità della lesione?"

Il rischio era quello di vedere portare avanti al giudice qualunque mancato rispetto della normativa sul trattamento dei dati personali, indipendentemente dall'interesse dell'interessato al loro corretto trattamento o dal verificarsi di un qualche concreto pregiudizio in capo allo stesso. Una possibilità, pertanto, di ottenere un risarcimento che va oltre la responsabilità oggettiva e diventa quasi di tipo sanzionatorio, ma nel quale lo stesso interessato trarrebbe un vantaggio economico anche senza avere avuto una concreta lesione.

La stessa Corte avverte della difficoltà ad aderire ad una tale impostazione e del pericolo che si manifestino atteggiamenti nei quali l'interessato semplicemente attenda al varco il titolare del trattamento dei dati personali sperando in un errore di gestione a fronte del quale far scattare una immediata richiesta di risarcimento danni, senza neppure passare per una richiesta di rimozione della violazione (rimozione che non sarebbe altrettanto allettante quanto la prospettiva di una richiesta di risarcimento danni).

A fronte del quesito la Suprema Corte afferma che in caso di trattamento illecito di dati personali, il risarcimento del danno non patrimoniale, previsto dall’art. 15 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, non si sottrae ad un accertamento da parte del giudice – da compiersi con riferimento alla concretezza della vicenda sottoposta alla sua cognizione e non sindacabile in sede di legittimità, se congruamente motivato – destinato ad investire i profili della “gravità della lesione” inferta e della “serietà del danno” da essa derivante.

 

La Suprema Corte, a definizione del lungo argomentare, espone il seguente principio di diritto:

«il danno non patrimoniale risarcibile ai sensi dell'art. 15 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (c.d. codice della privacy) non si sottrae alla verifica di "gravità della lesione" (concernente il diritto fondamentale alla protezione dei dati personali, quale intimamente legato ai diritti ed alle libertà indicate dall'art. 2 del codice, convergenti tutti funzionalmente alla tutela piena della persona umana e della sua dignità) e di "serietà del danno" (quale perdita di natura personale effettivamente patita dall'interessato), che, in linea generale, si richiede in applicazione dell'art. 2059 cod. civ. nelle ipotesi di pregiudizio inferto ai diritti inviolabili previsti in Costituzione. Ciò in quanto, anche nella fattispecie di danno non patrimoniale di cui al citato art. 15, opera il bilanciamento (siccome pienamente consentito all'interprete dal modo in cui si è realizzata nello specifico l'intexpositio legislatoris) del diritto tutelato da detta disposizione con il principio di solidarietà - di cui il principio di tolleranza è intrinseco precipitato -, il quale, nella sua immanente configurazione, costituisce il punto di mediazione che permette all'ordinamento di salvaguardare il diritto del singolo nell'ambito di una concreta comunità di persone che deve affrontare i costi di una esistenza collettiva. L'accertamento di fatto rimesso, a tal fine, al giudice del merito, in forza di previe allegazioni e di coerenti istanze istruttorie di parte, dovrà essere ancorato alla concretezza della vicenda materiale portata alla cognizione giudiziale ed al suo essere maturata in un dato contesto temporale e sociale, dovendo l'indagine, illuminata dal bilanciamento anzidetto, proiettarsi sugli aspetti contingenti dell'offesa e sulla singolarità delle perdite personali verificatesi. Un siffatto accertamento - che, ove l'offesa non superi la soglia di minima tollerabilità o il danno sia futile, può condurre anche ad escludere la possibilità di somministrare il risarcimento del danno - è come tale sottratto al sindacato di legittimità se congruamente motivato».

 

 
Di seguito il testo della Sentenza n. 16133 del 15 luglio 2014:


RITENUTO IN FATTO

M. P., P. M. e P. V. proponevano ricorso ex art. 152 del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, per ottenere tutela del proprio diritto alla riservatezza, violato dall'illecito trattamento, ad opera della Università degli Studi R. T., dei rispettivi dati personali.
In particolare, risultava possibile, olT. che attraverso l'indirizzo, inserito direttamente in Internet, «www.omissis.xls», anche con la sola digitazione del nome e cognome o soltanto il cognome sul motore di ricerca "Google", avere
accesso    al    fileexcel    «omissis.xls», recante il nominativo di 3.724 studenti specializzandi e/o ex studenti specializzati, tra cui quello dei ricorrenti, con evidenziazione dei relativi dati personali e cioè generalità, codice fiscale, attività di studio, posizione lavorativa e retributiva.
2. - Con sentenza resa pubblica il 2 luglio 2008, l'adito Tribunale di R. accoglieva la domanda dei ricorrenti e così disponeva la cancellazione dal web dei dati personali ed identificativi dei medesimi, contenuti nel predetto file excel, inibendone la diffusione all'Università resistente, che condannava, altresì, al risarcimento dei danni non patrimoniali patiti dagli stessi attori, liquidati nella somma di euro 3.000,00, olT. interessi legali, in favore di ciascuna parte.
Il Tribunale, ritenuto che la divulgazione delle informazioni    personali    dei    ricorrenti    risultava sproporzionata rispetto alle finalità proprie del trattamento, escludeva che gli stessi avessero subito un danno patrimoniale, menT., quanto al danno non patrimoniale, pur essendo stato dedotto "il patema d'animo sofferto per rischio di possibili furti della propria identità, con la necessità di continui controlli", riteneva non dimostrata "tale ultima circostanza", riscontrando, però, a fondamento del liquidato pregiudizio, un "disagio conseguente alla propria (indiscriminata) esposizione personale anche di carattere economico".
3. - Per la cassazione di tale sentenza ricorre l'Università degli Studi di R. T., affidando le sorti dell'impugnazione a T. motivi, illustrati da memoria.
Resistono con unico controricorso M. P., P. V. e P. M..

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