Cassazione: no all'autodifesa nel processo penale
La Corte di Cassazione riafferma il principio della necessita' del difensore tecnico a garanzia di principi costituzionali nonostante la nuova legge professionale forense

Con sentenza n. 40715 del 16 luglio – 02 ottobre 2013, la IIa Sezione Penale della Suprema Corte ribadisce il principio, consolidato, secondo cui nel procedimento penale la parte non può difendersi da sola.
Il caso concreto, nella sua fattispecie e nelle sue vicende processuali, non gode di rilevante interesse per l’esame della questione qui affrontata, questione che investe la compatibilità delle norme interne che regolano il processo penale, con le disposizioni recate dalla Legge 247 del 31 dicembre 2012 (Nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense) e dalla Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo.
I profili che la Corte è stata chiamata ad esaminare, investono il dettato dell’articolo 13, comma primo della nuova Legge Forense e l’articolo 6, terzo paragrafo lettera c) della CEDU; entrambi posti in discussione con il sistema normativo penale processuale.
In particolare, ci si domanda se la nuova norma introdotta nella novella che ha riformato la professione forense ovvero la Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo, possano ritenersi compatibili con il diritto interno che nega, nelle varie forme, all’imputato, anche se iscritto all’Albo e quindi Avvocato esercente abilitato al patrocinio di fronte alle Giurisdizioni Superiori, di assumere la propria difesa.
La Corte, in parte motiva, affronta prima la Convenzione richiamando il consolidato orientamento, sia della stessa Corte che della Corte Europea, secondo cui la norma indicata dall’imputato ricorrente non ha carattere assoluto bensì relativo, ossia può essere, per così dire, “moderata” dai singoli Stati anche con specifiche limitazioni, a fronte di un interesse pubblico preminente purché il sistema giudiziario dello Stato aderente garantisca, con mezzi idonei, il diritto suddetto alla luce del principio dell’equo processo.
Riguardo, invece, la novella del 2012, la Corte ritiene che l’articolo 13, invocato dall’imputato in sede di ricorso, nel suo inquadramento, abbia carattere meramente ricognitivo rispetto alla disciplina già vigente e non introduca, quindi, alcuna modifica sostanziale rispetto al sistema nel suo complesso.
Entrambi gli assunti trovano, secondo la Corte, giustificazione e fondamento nel valore che assume l’attività forense, presidio dei diritti dei cittadini e garanzia della loro tutela nell’ordinamento. La disciplina quindi che, nel procedimento penale, impone la presenza di un difensore assolverebbe a detti principi che tutelano un interesse pubblico, protetto da garanzia costituzionale. La professione forense, in questo caso, per la Corte assolverebbe ad una funzione sociale ed “occasionalmente” parteciperebbe di un pubblico potere alla stregua degli articoli 24 e 13 della Carta Costituzionale.
L’autodifesa, per i suddetti principi, sarebbe impedita in ambito processualpenalistico ed ammessa, per contro, in ambito processuale civile, secondo la declinazione fattane dalle specifiche norme di settore.
La decisione merita piena condivisione, segnatamente nella parte in cui interpreta il nuovo articolo 13 della Legge Forense, disposizione che non pare, neppure volendo ricostruire, in modo plausibile, l’intenzione del legislatore, godere di alcuna portata innovativa ovvero porre incertezze di rilievo costituzionale.