Domiciliazione: il compenso dell'avvocato in caso di mandato congiunto.

La Corte di Cassazione si esprime in ordine alla richiesta di pagamento di compenso del legale in mandato congiunto.

Domiciliazione: il compenso dell'avvocato in caso di mandato congiunto.

Un interessante caso è stato affrontato dalla Suprema Corte con sentenza 20334/2013 depositata in cancelleria il 4 settembre 2013.
Il caso prendeva le mosse dalla richiesta di pagamento della parcella professionale da parte di un legale a seguito dell'attività svolta, in mandato congiunto con altro difensore.

La società cliente impugnava detta richiesta e portava il caso fino alla Corte di Cassazione adducendo sostanzialmente che l'avvocato "si era limitato ad agire da domiciliatario, notificando atti predisposti da altri, iscrivendo al Ruolo il procedimento, partecipando all'udienza di assegnazione" su istruzioni di altro legale, depositando atti predisposti da altri e, infine, svolgendo attività di cancelleria "per le quali era stato regolarmente pagato" dalla società.

La ricorrente, cliente del legale, pertanto, poneva alla Suprema Corte il seguente quesito: "E' legittima la richiesta del professionista che, in veste di domiciliatario con mandato congiunto e disgiunto, pretende il pagamento di competenze ed onorari relative ad attività professionali non personalmente e/o direttamente prestate ovvero per la semplice apposizione della propria firma su atti non dallo stesso redatti?"

La Corte di Cassazione non risponde direttamente e sposta il problema sull'onere di provare l'assunto, oltre a soprassedere sulla categoria stigmatizzata dalla ricorrente, quel tertius genus del domiciliatario "con mandato congiunto".

Secondo la Suprema Corte, in tutti i casi di mandato congiunto ed in assenza della dimostrazione del reale e fattivo redattore degli atti difensivi “... posto che in mancanza di prova sul punto, la sottoscrizione dell’atto, secondo i principi generali, deve ritenersi, in via presuntiva, idonea a far ritenere che alla sua stesura abbiano contribuito coloro che lo hanno sottoscritto”, con la conseguenza che il cliente è onerato della corresponsione del relativo compenso ad entrambi i legali sottoscrittori.
E rimarca il concetto affermando: " ...  per il resto è stato rilevato dal giudice di merito, e la stessa ricorrente non lo contesta, che vi era mandato congiunto".

Infine, nel caso di specie, la questione probatoria veniva superata dalla Suprema Corte adducendo una carenza del ricorso il quale, secondo la corte, non aveva indicato "dove e come" la difesa avesse "chiesto lo svolgimento dell'attività istruttoria al riguardo, impedendo alla Corte di operare la necessaria valutazione di influenza e rilevanza delle prove in tesi dedotte".

In sostanza, vale sempre la possibilità del cliente di tentare di dimostrare il reale apporto del professionista nello svolgimento dell'attività difensiva.

Rimane da fare una riflessione. Visto dall'esterno il caso concreto assume una veste kafkiana.
Alla semplice lettura della sentenza della Corte di Cassazione e senza aver preso visione degli atti di causa, se, e dico se, le motivazioni della società ricorrente fossero corrispondenti al vero non rimane che dedurne che ben tre corti in grado diverso, non hanno saputo ascoltare le ragioni della ricorrente.
Ma ciò che sarebbe peggio, ripeto sempre che sia corretta la ricostruzione della società ricorrente (ma in sentenza non si legge alcun accenno ad una diversa versione dei fatti ed il tutto si svolge in termini processualistici e mai sostanziali), è che un avvocato avrebbe portato a casa un risultato economico che, al di la delle questioni formalistiche, non era dovuto. Con grave onta e danno della categoria tutta. Gli organi disciplinari competenti potrebbero fare la loro parte e verificare come siano andate le cose.


 

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