Fumo passivo e le responsabilità del datore di lavoro
Fumo passivo: il datore di lavoro risponde del danno subito dal dipendente a causa della nocività dell’ambiente lavorativo. Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 3/03/2016 n. 4211

L’”approccio persuasivo e non repressivo” non libera il datore di lavoro dalla responsabilità
Commento alla sentenza della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 3 marzo 2016 n. 4211
La pronuncia in commento si occupa di demansionamento e di danno da fumo passivo subito dal lavoratore: quest’ultimo costituirà oggetto della presente disamina.
In primo ed in secondo grado alla lavoratrice – una giornalista della RAI – veniva riconosciuto il risarcimento del danno biologico e morale per l’esposizione al fumo passivo nell’ambiente di lavoro. In particolare, era ascritta al datore di lavoro una responsabilità ex art. 2087 c.c. per non aver egli posto in essere le misure idonee a garantire la salubrità dell’ambiente lavorativo.
La c.t.u. medico-legale, effettuata in sede di istruttoria, aveva confermato il nesso eziologico tra la patologia riscontrata nella prestatrice di lavoro e la sua esposizione al fumo dei colleghi.
I giudici inquadrano la condotta datoriale nella responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c. e fondano l’inadempimento del debitore (in questo caso il datore di lavoro) nel non aver adottato tutte le misure necessarie a garantire l’integrità fisica della prestatrice di lavoro. La responsabilità di cui all’art. 2087 c.c. non è di carattere oggettivo, in quanto la colpa ne rappresenta un elemento costitutivo1 e caratterizzante; secondo la giurisprudenza consolidata «da detta norma non può desumersi la prescrizione di un obbligo assoluto di rispettare ogni cautela possibile ed innominata diretta ad evitare qualsiasi danno, con la conseguenza di ritenere automatica la responsabilità del datore di lavoro ogni volta che il danno si sia verificato, occorrendo invece che l'evento sia riferibile a sua colpa, dal momento che la colpa costituisce, comunque, elemento della responsabilità contrattuale del datore di lavoro2».
Quanto all’onere probatorio, in capo al lavoratore incombe la dimostrazione di aver subito il danno alla salute e di provare il nesso eziologico tra la nocività dell’ambiente lavorativo e l’insorgere della patologia; per contro, il datore di lavoro deve provare di avere assunto tutte le cautele necessarie al fine di evitare il danno. In particolare, occorre dimostrare di aver vigilato sull’osservanza delle stesse; deve rammentarsi che «la responsabilità conseguente alla violazione dell'art. 2087 cod. civ. ha natura contrattuale e, pertanto, applicandosi l'art. 1218 cod. civ., una volta provato l'inadempimento consistente nell'inesatta esecuzione della prestazione di sicurezza (dovuta alla mancata predisposizione di misure di protezione individuali e nell'attenta sorveglianza perché le stesse venissero in concreto attuate, imponendo a tutti l'uso di tali misure) nonché la correlazione fra tale inadempimento ed il danno, la prova che tutto era stato predisposto per il rispetto del precetto del suddetto art. 2087 cod. civ. e che gli esiti dannosi erano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile deve essere fornita dal datore di lavoro3».
La tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore è garantita dalla Costituzione (artt. 32, 35) ed anche dal testo unico in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro (d. lgs. 9 aprile 2008 n. 81). Il destinatario degli obblighi di attuazione delle prescrizioni sulla sicurezza è il datore di lavoro in quanto dotato di poteri decisionali in tal senso.
Nel caso di specie, il datore di lavoro si era limitato ad emanare circolari e direttive rimaste, di fatto, lettera morta, senza provvedere effettivamente alla loro attuazione, impiegando un approccio “persuasivo e non repressivo”. Proprio questo è l’aspetto su cui si soffermano i giudicanti. Essi ritengono, infatti, che la parte datoriale non abbia provato di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno; essa «si è limitata a richiamare, peraltro senza alcuno specifico riferimento, non meglio indicate circolari e disposizioni organizzative, e senza che neppure sia stata allegata l’effettiva inflizione di qualche sanzione disciplinare in merito, invece soltanto ipotizzata».
La Corte conclude il proprio percorso argomentativo sostenendo che il datore di lavoro non abbia fornito la prova che incombeva su di lui a norma dell’art. 1218 c.c. e confermando la condanna dell’Azienda al pagamento del risarcimento del danno biologico e morale come disposto dal giudice di appello.
Giova ricordare che il divieto di fumo è stato introdotto nel nostro ordinamento dalla legge n. 3 del 2005; la normativa in discorso estende il divieto di fumo ai locali pubblici e trova applicazione anche con riferimento agli uffici, agli studi professionali, agli esercizi commerciali e via discorrendo. Il principio sotteso alla legge, infatti, consiste nel precludere il fumo nei locali chiusi per tutelare la salute dei non fumatori e scoraggiare i fumatori stessi. La medesima regola, pertanto, vale anche sul luogo di lavoro. Il datore di lavoro, al lume della pronuncia in commento, non deve limitarsi a dissuadere i lavoratori dal fumare, ma impegnarsi attivamente e comminare sanzioni effettive onde scoraggiare tale condotta poco salutare.
Avv. Marcella Ferrari
Avvocato del Foro di Savona
1 In tal senso vedonsi Corte Cass., sez. lav., sent. 7 agosto 2012 n. 14192 e Corte Cass., sez. lav., sent. 22 gennaio 2014, n. 1312
2 Corte Cass., sent. 17 aprile 2012, n. 6002
3 Vedasi Corte Cass., sent. 8 maggio 2007, n. 10441
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Di seguito il testo di
Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, 3 marzo 2016 n. 4211:
Svolgimento del processo
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