Riflessioni sulla depenalizzazione e la trasformazione delle fattispecie in illeciti amministrativi
D. Lgs. 15 gennaio 2016, n. 8: prime riflessioni sulla depenalizzazione e la trasformazione delle fattispecie in illeciti amministrativi. Avv. F. Fioretti

Come ormai noto, i decreti legislativi n. 7 e n. 8 del 15 gennaio 2016, entrati in vigore lo scorso 6 febbraio, costituiscono l’esercizio della delega contenuta nell’ art. 2 della legge 28 aprile 2014, n. 67 per la riforma della disciplina sanzionatoria e dettano disposizioni in materia, rispettivamente di abrogazione di reati ed introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili e di depenalizzazione.
Se nel caso dell’abrogazione di reati il legislatore ha stabilito di rinunciare alla pretesa punitiva penale per fattispecie perseguibili a querela di parte, demandando sempre all’iniziativa privata l’attivazione della causa per l’irrogazione delle nuove sanzioni pecuniarie civili, nel caso della depenalizzazione vengono in rilievo reati generalmente procedibili d’ufficio, che tutelano interessi pubblici, in relazione ai quali è ora interesse dello Stato irrogare una sanzione amministrativa d’ufficio in luogo di quella penale.
Come risulta dalla relazione di accompagnamento del decreto n. 8 e dal suo stesso contenuto normativo, sia il legislatore delegante che quello delegato hanno tenuto in particolare considerazione i due più importanti precedenti interventi di depenalizzazione, ovvero la legge n. 689/1981 recante “Modifiche al sistema penale”, con cui sono stati fissati i principi generali per l’applicazione delle sanzioni amministrative con contestuale depenalizzazione di delitti e contravvenzioni e il D.Lgs. n. 507/1999 che, in attuazione della legge delega n. 205/1999, ha provveduto alla “depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio”.
Quasi pedissequamente a quanto previsto nella legge delega, il decreto individua due diversi criteri di selezione: uno di carattere formale, basato sul trattamento sanzionatorio e il secondo di natura sostanziale, riferito al riconoscimento che talune condotte, non sono più meritevoli di sanzione penale, riservando la censura solo in via amministrativa.
L’art. 1, comma 1, in base al primo criterio, attraverso una clausola generale di depenalizzazione (c.d. “alla cieca”) stabilisce che “non costituiscono reato e sono soggette alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro tutte le violazioni per le quali è prevista la sola pena della multa o dell’ammenda”.
Il secondo criterio, contenuto nelle lettere b), c) e d) dell’art. 2, comma 2 della legge delega e negli artt. 2 e 3 del decreto, opera invece una depenalizzazione c.d. nominativa, indicando specificatamente le fattispecie: depenalizzazione dei reati del codice penale e altri casi di depenalizzazione.
Alla previsione generale di cui all’art. 1 vengono subito apportati dei correttivi, ovvero le eccezioni, previste dai commi 3 e 4, i quali specificano che restano esclusi dall’intervento di depenalizzazione i reati previsti dal codice penale, i reati previsti dalle leggi indicate nell’elenco allegato – pressoché le stesse di quelle previste nella legge delega1 - e quelli in materia di immigrazione di cui al D.Lgs. n. 286/1998.
La prima eccezione si basa esclusivamente sulla sede di collocazione delle fattispecie, essendo espressamente eccettuati dalla depenalizzazione i reati contenuti nel codice penale. Tale limitazione, tuttavia, contiene a sua volta un’eccezione, giacché, come si è detto, all’art. 3 viene prevista la specifica depenalizzazione di alcuni reati espressamente indicati e contenuti nel codice penale (depenalizzazione nominativa). Si tratta in primo luogo del reato di atti contrari alla pubblica decenza di cui all’art. 726 c.p. che, attribuito alla competenza del Giudice di Pace per effetto dell’art. 52, comma 2, lett. a), D.Lgs. n. 274/2000, era precedentemente punito anche con pena detentiva. Nella relazione illustrativa la scelta di includere l’art. 726 c.p. nell’elenco della depenalizzazione nominativa è spiegata con il fatto che nel testo del codice tale reato era ancora sanzionato con pena detentiva: da qui la necessità di una menzione espressa e di una riscrittura esplicita della norma, la quale oggi, per effetto del decreto in commento, prevede che “chiunque, in luogo pubblico o aperto o esposto al pubblico, compie atti contrari alla pubblica decenza è soggetto alla sanzione amministrativa pecuniaria da euro 5.000 ad euro 10.000”.
Si tratta, poi, del reato di atti osceni di cui all’art. 527, comma 1, c.p. e del reato di pubblicazioni oscene, nonché delle contravvenzioni di rifiuto di prestare la propria opera in un tumulto di cui all’art. 652 c.p., di abuso della credulità popolare ex art. 661 c.p. e di rappresentazioni teatrali o cinematografiche abusive ex art. 668 c.p. Deve segnalarsi che il Governo non ha provveduto ad esercitare la delega in relazione al reato di cui all’art. 659 c.p. (disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone), la cui depenalizzazione era prevista dall’art. 2, comma 2, lett. b), n. 2 della legge delega, ritenendo che, per la tutela del bene protetto dalla norma, la sanzione amministrativa sia del tutto insufficiente.
Pur con le limitazioni ora indicate, la scelta di escludere i reati previsti dal codice penale sembra porsi in contrasto sia con la lettera della legge delega, sia con la portata generale della formula utilizzata dal legislatore delegato – “tutte le violazioni per le quali è prevista la sola pena della multa o dell’ammenda” – che lascia trapelare l’intenzione di procedere ad un intervento di depenalizzazione di ampia portata. Nella relazione illustrativa le ragioni della scelta del Governo vengono spiegate con due diversi ordini di motivi. Da un lato si dice che, dal momento che il legislatore delegante ha inserito nell’elenco dei reati da depenalizzare anche alcune fattispecie contenute nel codice penale (ovvero gli artt. 659, comma 2 e 726), ciò starebbe a significare che la clausola generale non è da ritenere operativa nei confronti del codice, giacché, in caso contrario, non avrebbe avuto alcun senso inserire le indicate ipotesi contravvenzionali tra quelle da depenalizzare. Per altro verso, sempre secondo la relazione illustrativa, se la clausola generale operasse anche per i reati contenuti nel codice penale, si andrebbe incontro a delle disomogeneità di sistema. Ciò in quanto l’effetto depenalizzante andrebbe a colpire fattispecie delittuose, punite sì con la sola pena pecuniaria, ma facenti parte di complessi normativi deputati alla tutela di beni molto importanti, come ad esempio l’amministrazione della giustizia; senza contare che, per converso, altre fattispecie contravvenzionali meno significative, come ad esempio quelle previste dall’art. 727-bis, comma 2, e 703, comma 1, c.p., non sarebbero depenalizzate.
L’art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 8/2016 prevede che la depenalizzazione opera anche per i reati previsti dal decreto “che nelle ipotesi aggravate, sono puniti con la pena detentiva, sola, alternativa o congiunta a quella pecuniaria. In tal caso le fattispecie aggravate sono da ritenersi fattispecie autonome di reato”. L’intento dichiarato è stato quello di evitare incertezze sulla sorte delle fattispecie aggravate, scongiurando il rischio di quanto accaduto per l’art. 32, comma 3, l. n. 689/1981. In tal caso, infatti, in mancanza di espressa disposizione, la giurisprudenza ha desunto il principio generale in base al quale i provvedimenti di depenalizzazione non coinvolgono i reati che nelle forme aggravate sono punibili con pena detentiva, anche se congiunta o alternativa a quella pecuniaria.
La trasformazione dell’aggravante in autonoma fattispecie di reato non comporta particolari problemi applicativi se delineata sulla base di elementi ulteriori rispetto alla previsione base, cosa che, tuttavia, non accade nel caso di aggravante fondata sulla “recidiva”. Si pensi al caso del reato di guida senza patente (art. 116, comma 15, C.d.S.) punito nella configurazione base con la sola ammenda e nella forma aggravata (recidiva nel biennio) con pena detentiva. Come si precisa nella relazione al decreto, in assenza di norme di coordinamento, “la fattispecie aggravata sarebbe stata destinata a cadere in quanto sarebbe venuto meno quel suo elemento costitutivo rappresentato appunto dalla recidiva, non essendo più possibile riferire tale istituto giuridico ad un illecito amministrativo”. Da ciò è sorta la necessità di introdurre la disciplina di cui all’art. 5, ovvero “la reiterazione dell’illecito”. In assenza di indicazioni specifiche, tuttavia, si pongono alcuni problemi circa l’esatta individuazione della condotta di reiterazione dell’illecito amministrativo, giacché viene delineata una nuova fattispecie penale che, in quanto tale, deve rispondere ai principi di tassatività e determinatezza. La soluzione al problema – secondo quanto indicato nelle linee guida redatte dalla Procura di Lanciano – può rinvenirsi dall’analisi di altre disposizioni. In primis, l’art. 8-bis, L. n. 689/1981, il quale, disciplinando la reiterazione delle violazioni amministrative, dispone che si ha reiterazione quando nei cinque anni successivi alla commissione di una violazione amministrativa – accertata con provvedimento esecutivo – lo stesso soggetto commette una violazione della stessa indole. Con riferimento a tale disposizione, la Cassazione ha stabilito che la reiterazione in parola rappresenta il corrispondente in materia amministrativa di alcune forme della recidiva penale (specifica e infraquinquennale, art. 99 c.p., comma 2, nn. 1 e 2) fungendo da circostanza aggravante nei casi espressamente previsti dalla legge2.
Vi è poi l’art. 3, comma 1, del decreto in commento, il quale depenalizzando la fattispecie base di cui all’art. 11, comma 1, l. n. 234/1931, al secondo comma stabilisce la sanzione penale dell’arresto o della multa per chi commette la violazione indicata al comma 1, dopo aver commesso la stessa violazione accertata con provvedimento esecutivo. Sulla base di tali indicazioni, ivi compreso l’art. 6 del D. Lgs. n. 7/2016 che prevede la reiterazione dell’illecito sottoposto a sanzione pecuniaria civile, si può concludere che si ha reiterazione dell’illecito ed è, dunque, contestabile l’autonoma fattispecie di reato, nell’ipotesi in cui venga commessa la stessa violazione (che in precedenza era reato) accertata con provvedimento esecutivo.
Nulla si prevede per il caso in cui la fattispecie base sia sanzionata con pena detentiva, ma la forma attenuata sia punita con la sola pena pecuniaria. Nel silenzio della legge tale evenienza non può essere esclusa proprio sulla base dell’ampiezza della clausola generale (“tutte le violazioni per le quali è prevista la sola pena della multa e dell’ammenda”) che lascia propendere per un’interpretazione estensiva piuttosto che restrittiva, tale da comprendere sia le fattispecie aggravate che quelle attenuate. Peraltro, diversamente argomentando, considerare che la finalità deflattiva perseguita dal legislatore si limiti alla sola previsione di trasformare in autonome fattispecie di reato unicamente le ipotesi aggravate, escludendo dalla depenalizzazione i reati puniti con la sola pena pecuniaria, pur se come ipotesi attenuate, potrebbe comportare una disparità di trattamento con possibili profili di illegittimità costituzionale.
Per quanto concerne la depenalizzazione nominativa prevista dagli artt. 2 e 3 del decreto in commento, oltre ai reati espressamente indicati e contenuti nel codice penale, vengono individuate talune fattispecie previste da leggi speciali punite precedentemente con pena detentiva. Tra le più significative vi è il delitto di omesso versamento di ritenute previdenziali e assistenziali, di cui all’art. 2, comma 1-bis, D.L. n. 463/1983, convertito in L. n. 638/1983. La nuova formulazione prevede che se l’importo di cui è omesso il versamento non superi i 10.000 euro annui, in luogo della sanzione penale, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 a 50.000. Con riferimento a tale ipotesi, peraltro, nella lunga attesa dall’emanazione della legge delega fino ad oggi, la Cassazione è più volte intervenuta a ricordare che l’ipotesi delittuosa in parola non poteva dirsi abrogata per effetto diretto della legge 28 aprile 2014, n. 67, visto che tale atto costituiva unicamente una delega al Governo per la depenalizzazione di tale fattispecie, la quale, fino all’emanazione dei decreti delegati, non poteva essere considerata violazione amministrativa3.
È stata oggetto di depenalizzazione anche la contravvenzione prevista dall’art. 28, comma 2, D.P.R. 309/90, in materia di coltivazione di piante dalle quali si possano trarre sostanze stupefacenti in violazione dell’autorizzazione concessa. Si badi bene che la fattispecie depenalizzata attiene alla sola inosservanza delle prescrizioni dettate in materia di autorizzazioni alla coltivazione, senza che ciò interferisca in alcun modo con la coltivazione illecita sanzionata all’art. 73 dello stesso D.P.R.
In punto di commisurazione della sanzione, il decreto prevede tre fasce edittali, in conformità a quanto previsto dalla legge delega, stabilendo una sanzione amministrativa da 5.000 a 15.000 euro per le contravvenzioni punite con l’arresto fino a sei mesi, una da 5.000 a 30.000 euro per quelle punite con l’arresto fino ad un anno ed una da 10.000 a 50.000 per i delitti e le contravvenzioni punite con una pena detentiva superiore ad un anno.
Per quanto attiene ai profili procedimentali dei nuovi illeciti, il legislatore delegato, in linea con le indicazioni fornite nella legge delega, ha optato per il rinvio, ove compatibili, alle disposizione contenute nelle sezioni I e II del capo I della legge 24 novembre 1981, n. 689. In particolare, l’art. 7, D. Lgs. n. 8/2016, prevede che per le violazioni depenalizzate di cui all’art. 1 sono competenti a ricevere il rapporto ed applicare le sanzioni le autorità amministrative competenti ad irrogare le altre sanzioni amministrative già previste dalle leggi che contemplano le violazioni stesse, ricorrendo, in caso di mancata previsione, al criterio residuale di cui all’art. 17 l. n. 689/1981. Per le violazioni previste dall’art. 2 è invece competente il Prefetto, mentre per quelle di cui all’art. 3:
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le autorità competenti ad irrogare le sanzioni amministrative già indicate nella legge 22 aprile 1941, n. 633, nel decreto legge 12 settembre, n. 463, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 1983, n. 638 e nel decreto del presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309;
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il Ministero dello sviluppo economico in relazione all’art. 11 della legge 8 gennaio 1931, n. 234;
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l’autorità comunale competente al rilascio dell’autorizzazione all’installazione o all’esercizio di impianti di distribuzione di carburante di cui all’art. 1 del decreto legislativo 11 febbraio 1998, n. 32;
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il Prefetto per le restanti leggi indicate all’art. 3.
Nel silenzio della legge delega in ordine in ordine al diritto intertemporale, il Governo, nel dichiarato intento di evitare il rischio di un trattamento divergente tra chi ha commesso il fatto prima e chi lo ha commesso dopo l’entrata in vigore del decreto, posto che solo al secondo sarebbero applicabili le sanzioni amministrative, ha deciso di disciplinare agli artt. 8 e 9, rispettivamente, l’applicabilità delle sanzioni agli illeciti commessi anteriormente e la trasmissione degli atti del procedimento penale all’autorità amministrativa.
La scelta del legislatore, pur se la L. n. 67/2014 non ha fornito delega in materia di norme transitorie ma solo di coordinamento, potrebbe prospettare un’ipotesi di eccesso di delega. Tale rischio, tuttavia, sembra scongiurato se si considera che le norme introdotte dal Governo costituiscono mera specificazione di disposizioni già vigenti e dei principi generali già contenuti nei precedenti interventi di depenalizzazione (cui la legge rinvia), essendo volte ad assicurare una maggiore certezza e speditezza nella definizione dei procedimenti pendenti.
Secondo l’art. 8, comma 1, le disposizioni che sostituiscono sanzioni penali con sanzioni amministrative si applicano anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto, sempre che il procedimento penale non sia stato definito con sentenza o con decreto divenuti irrevocabili.
In base alla fase in cui si trova il procedimento, dunque, possono darsi varie ipotesi.
Nel caso in cui vi sia stata sentenza di condanna o decreto penale di condanna divenuti irrevocabili alla data di entrata in vigore del decreto, in base al principio di successione della legge penale nel tempo, il giudice dell’esecuzione revocherà la condanna, dichiarando che il fatto non è più previsto dalla legge come reato e adotterà i provvedimenti conseguenti. Detta procedura potrà seguire l’iter semplificato di cui all’art. 101 D. Lgs. 507/1999, ovvero potrà essere effettuata de plano, secondo le forme di cui all’art. 667, comma 4, c.p.p.
Per quanto concerne i procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore del decreto per i quali non è stata ancora esercitata l’azione penale, il decreto prevede che la procura trasmetta gli atti all’autorità amministrativa entro 90 giorni, salvo che il reato sia prescritto o estinto per altra causa (in tal caso il Pubblico Ministero provvederà a trasmettere al Gip la richiesta di archiviazione).
L’art. 9, comma 3, invece, disciplinando i procedimenti per cui alla data di entrata in vigore del decreto è stata esercitata l’azione penale, stabilisce che il giudice, pronuncerà sentenza inappellabile ex art. 129 c.p.p., perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, disponendo la trasmissione degli atti all’autorità amministrativa. Tale disposizione conferma e richiama quanto previsto dall’art. 102, comma 3, D. Lgs. 507/1999 in base al quale “se l’azione penale è stata esercitata, il giudice, ove l’imputato o il pubblico ministero non oppongano, pronuncia, in camera di consiglio, sentenza inappellabile di assoluzione o di non luogo a procedere perché il fatto non è previsto dalla legge come reato”, disponendo la trasmissione degli atti all’autorità amministrativa. In tale disposizione, tuttavia, non si fa menzione dell’art. 129 c.p.p., avendo privilegiato il legislatore del ‘99 l’iter procedimentale di cui all’art. 469 c.p.p., che prevede la non opposizione delle parti con relativo onere per il giudice di fissare un udienza camerale ad hoc. Nel decreto in commento viene operata una ulteriore semplificazione, giacché il legislatore, richiamando espressamente l’art. 129 c.p.p., consente l’immediata declaratoria di improcedibilità in ogni stato e grado del procedimento, con sentenza ricorribile unicamente per Cassazione. In tal senso il giudice ben potrebbe pronunciarsi de plano, senza necessità di fissare apposita udienza, posto che le parti potrebbero in ogni caso ricorrere per Cassazione.
L’art. 9, comma 2, stabilisce, inoltre, che la definizione del processo d’appello perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato non pregiudica l’eventuale condanna alle restituzioni e al risarcimento del danno, in quanto il giudice è comunque tenuto a pronunciarsi sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili.
In conclusione pare opportuno fare un breve cenno ai rapporti tra il presente provvedimento di depenalizzazione e la recente introduzione della disciplina sulla particolare tenuità del fatto di cui al nuovo art. 131-bis c.p., frutto anch’essa della delega contenuta nella legge n. 67/2014.
Evidente la differenza sostanziale tra i due interventi, posto che la depenalizzazione travolge tutti i reati, indipendentemente dalla modalità concreta in cui sono stati commessi, mentre nel caso della tenuità del fatto la punibilità è possibilmente esclusa in presenza di reati che rispondano ai limiti edittali previsti e la cui condotta sia in concreto risultata di scarsa offensività. Nonostante ciò entrambi gli istituti rispondono all’esigenza di deflazione processuale e di razionalizzazione del sistema sanzionatorio espressi dalla legge n. 67/2014.
Oggi che sono entrambi operativi e coesistenti nell’ordinamento, tuttavia, potrebbero verificarsi delle possibili criticità di sistema. Si pensi al caso in cui un soggetto resosi responsabile di un fatto reato oggetto di depenalizzazione, il quale prima dell’entrata del D. Lgs. n. 8/2016 poteva beneficiare della speciale causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis c.p., a decorrere dal 6 febbraio 2016 potrebbe essere comunque sanzionato in via amministrativa per il medesimo fatto.
L’ipotesi non è peregrina specialmente per quelle fattispecie per cui la sanzione penale residua solo nella forma aggravata quale autonoma figura di reato (si pensi alla guida senza patente), la quale proprio perché penalmente rilevante, in presenza dei presupposti di legge, ben potrebbe non comportare la punibilità del reo per particolare tenuità. La meno grave ipotesi depenalizzata, per assurdo invece, potrebbe comportare l’irrogazione di una sanzione pecuniaria amministrativa in capo all’autore della condotta.
Su tale punto si dovrà attendere l’intervento della giurisprudenza per verificare la possibile tenuta di un sistema che prevede la depenalizzazione di illeciti possibilmente ricompresi nell’area di applicazione della tenuità del fatto ed ora punibili con sanzione amministrativa (potenzialmente anche afflittiva e gravosa in relazione all’ammontare della somma irrogata).
Avv. Francesca Fioretti
Riferimenti:
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Procura della repubblica presso il Tribunale di Lanciano, linee guida per l’applicazione dei decreti legislativi 15 gennaio 2016, n. 7 e n. 8, del 4.2.2016, rinvenibile su www.procuralanciano.it;
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Procura della Repubblica presso il Tribunale di Trento, Circolare n. 3/2016, “La depenalizzazione realizzata in attuazione della legge delega n. 67/2014 (decreti legislativi nn. 7 e 8 del 15 gennaio 2016). Indicazioni operative.”, del 27.1.2016, rinvenibile su www.procura.trento.it;
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Corte di Cassazione, Ufficio del Massimario, Settore penale “Gli interventi di depenalizzazione e abolitio criminis del 2016: una prima lettura”, del 2.2.2016, rinvenibile su www.cortedicassazione.it;
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“L’esercizio delle delega per la riforma della disciplina sanzionatoria: una prima lettura”, di Valeria Bove e Pierangelo Cirillo – contenuto nella raccolta giuridica curata dai magistrati del distretto di Corte di Appello di Napoli, Diritti & Giurisdizione, Napoli, 2016, n. 1, p. 36 ss. e rinvenibile su www.dirittopenalecontemporaneo.it.
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1 Le materie sottratte alla depenalizzazione indicate nell’art. 2, comma 2, L. 67/2014 sono quelle dell’ambiente, del territorio e del paesaggio, dei giochi d’azzardo e delle scommesse, delle armi e degli esplosivi, dell’edilizia e dell’urbanistica, degli alimenti e delle bevande, della salute e sicurezza sul lavoro, delle elezioni e del finanziamento ai partiti, della proprietà intellettuale e industriale. L’allegato al decreto individua espressamente i seguenti testi normativi disciplinanti le predette materie che continueranno, dunque, ad essere disciplinate penalmente.
2 Cass. Civ., 25 giugno 2008, n. 17349 che conferma Cass. Civ., sent. n. 17347/2007.
3 Cass. Pen., Sez. III, 14 aprile 2015, n. 20547.