La condanna del soccombente al pagamento di una somma equitativamente determinata ex art 96 c.p.c.
Per la condanna del soccombente al pagamento di una somma equitativamente determinata ai sensi dell'art. 96 terzo comma del c.p.c. è necessaria la malafede o colpa grave. Cassazione a SS.UU. civili Sentenza n. 9915/2018

Corte di Cassazione a SS.UU. civili Sentenza n. 9915 del 20/04/2018 che si occupa di accesso agli atti amministrativi e del rilievo d'ufficio del difetto di giurisdizione del processo amministrativo affermando "allorché, pertanto, il giudice di primo grado abbia pronunciato nel merito, affermando, anche implicitamente, la propria giurisdizione, la parte che intende contestare tale riconoscimento è tenuta a proporre appello sul punto; diversamente, l'esame della relativa questione è preclusa in sede di legittimità, essendosi formato il giudicato implicito sulla giurisdizione (Cass. Sez. Un. 28 gennaio 2011 n. 2067 cit.; nello stesso senso di recente anche Cass. Sez. Un. 20 ottobre 2016 n. 21260 che ha regolato il caso del ricorrente-appellante risultato soccombente nel merito)", estende la propria pronuncia sull'istituto relativamente nuovo (L 69/2009) del terzo comma dell'art. 96 del cod. proc. civ.:
"In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell'articolo 91, il giudice, anche d'ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata"
Sulla natura dell'istituto previsto dall'art. 96 c.p.c., comma 3, le SS.UU. non si esprimono e rimandano all'ampio dibattito che, affermano, tuttora si mantiene vivo, citando Cassazione 30 marzo 2015 n. 6402 e Cass. 21 luglio 2016 n. 15017.
Cassazione 6402/2015 così si esprime: "La natura dell'istituto ha suscitato ampio - e tuttora mantiene vivo - dibattito tra gli interpreti (Cass. 7 ottobre 2013, n. 22812). Alcuni lo ricostruiscono come una mera agevolazione della parte, attuata mercè il sollevamento dall'onere di provare rigorosamente an e quantum del danno, nel conseguimento della condanna di controparte per l'ordinaria responsabilità aggravata: tanto che la norma in oggetto non sarebbe altro che una specificazione del medesimo istituto. Altri sostengono la natura sanzionatoria della condanna in esame, quale "pena pecuniaria" (tanto da avvicinarla ad una penalità "simile al contempt of thè Court" tipico degli ordinamenti di common law), sebbene la somma sia poi versata alla controparte e non all'ufficio. Elemento dirimente dovrebbe potersi ritenersi la previsione della possibilità di una pronuncia di ufficio: essa estrapola l'istituto dal tradizionale contesto della responsabilità aggravata e dell'istanza di parte, per configurare evidentemente una vera e propria sanzione processuale dell'abuso del processo - inteso come utilizzazione di esso per finalità non solo diverse, ma in alcun casi perfino pregiudizievoli all'interesse in funzione del quale il diritto è riconosciuto (così, di recente, Cass. Sez. Un., ord. 22 luglio 2014, n. 16628) - perpetrato da una delle due parti, sia pure optando per una sorta di privatizzazione del risultato, rendendo del relativo esborso beneficiaria, quale danneggiato immediato, la controparte. Altro senso non potrebbe avere un'iniziativa ufficiosa volta a fare conseguire un beneficio (un vero e proprio incremento patrimoniale) ad una parte che non lo abbia chiesto, se non appunto quello di sanzionare una condotta di quella parte cui viene inflitta una condanna non richiesta da alcuno".
La condanna ai sensi dell'art. 3 può intervenire ad iniziativa dell'ufficio. Tuttavia essa non può prescidere dall'analisi dell'elemento soggettivo di chi ha agito in giudizio temerariamente. Infatti, afferma la Corte, "agire in giudizio per far valere una pretesa che si rivela infondata non è condotta di per sè sola rimproverabile".
Si è ritenuto allora di dover far riferimento ai principi elaborati dalla giurisprudenza per la configurabilità della lite temeraria e in particolare si afferma che la sussistenza di idoneo elemento soggettivo possa essere ravvisata nella coscienza dell'infondatezza della domanda (mala fede) o nella carenza della ordinaria diligenza volta all'acquisizione di detta coscienza (colpa grave).
La differenza pratica della fattispecie del terzo comma rispetto a quanto previsto dai primi due commi, risiede nella dimostrazione del danno, poiché la prima "non richiede la domanda di parte né la prova del danno".
E concludono le SS.UU.: "i presupposti della mala fede o della colpa grave pur sempre indispensabili per l'applicabilità dell'art. 96, comma terzo, c.p.c. (Cass. 30 novembre 2012 n. 21570), devono coinvolgere l'esercizio dell'azione processuale nel suo complesso, cosicché possa considerarsi meritevole di sanzione l'abuso dello strumento processuale in sé, anche a prescindere dal danno procurato alla controparte e da una sua richiesta, al fine di contemperare le esigenze di deflazione del contenzioso pretestuoso con la tutela del diritto di azione".
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Di seguito il testo di
Corte di Cassazione a SS.UU. civili Sentenza n. 9915 del 20/04/2018
RITENUTO IN FATTO
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