Ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. La CGCE condanna l’Italia
Con Sentenza del 28/01/2020 la Corte, riunita in Grande Sezione, ha condannato l’Italia per violazione della direttiva 2011/7/UE, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali

Con Sentenza del 28 gennaio 2020 la Corte, riunita in Grande Sezione, ha constatato una prorogata violazione dell’Italia della direttiva 2011/7/UE contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali.
La sentenza è interessante perché denota anche l’atteggiamento dell’Italia di fronte ai richiami della Comunità Europea. Ma andiamo con ordine.
Anche la Pubblica Amministrazione deve pagare beni e servizi entro 30 giorni (60 in alcuni casi)
Il recepimento italiano della direttiva comunitaria contro i ritardi dei pagamenti nelle transazioni commerciali si è concretizzato nell’emanazione del D.Lgs 231/02, che prevede tassi di interessi di mora elevati per chi non rispetta i termini ivi previsti.
Tale normativa si applica non solo alle transazioni commerciali fra imprenditori ma anche a quelle poste in essere fra imprese e pubblica amministrazione, laddove per PA si intende ogni amministrazione identificabile dall'articolo 3, comma 25, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, oppure ogni altro soggetto, allorquando svolga attivita' per la quale e' tenuto al rispetto della disciplina di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163. La norma fa riferimento alle amministrazioni dello Stato agli enti pubblici territoriali, gli altri enti pubblici non economici, gli organismi di diritto pubblico, le associazioni, unioni, consorzi, comunque denominati, costituiti da detti soggetti.
Il D.Lgs., in diretto recepimento della direttiva, prescrive che il termine di pagamento di beni e servizi deve essere non superiore a 30 giorni (art. 4).
Tuttavia per la Pubblica Amministrazione viene previsto che il termine possa essere allungato fino ad un massimo di 60 giorni, con accordo con il fornitore.
L'accordo di allungamento fino a 60 giorni deve essere pattuito in modo espresso e deve essere giustificato dalla natura o dall'oggetto del contratto o dalle circostanze esistenti al momento della sua conclusione, aggiungendosi che "la clausola relativa al termine deve essere provata per iscritto".
Per legge sono, invece, sempre 60 giorni in due casi, previsti dal comma 5 dell'art. 3:
a) quando debitore è un ente pubblico tenuto "al rispetto dei requisiti di trasparenza di cui al decreto legislativo 11 novembre 2003, n. 333";
b) quando debitore è un ente pubblico riconosciuto ufficialmente quale fornitore di assistenza sanitaria.
La Pubblica Amministrazione italiana ritarda nei pagamenti in modo reiterato
Operatori economici e associazioni di operatori economici italiani avevano denunciato alla Commissione Europea la sistematica violazione dei termini di pagamento da parte delle amministrazioni pubbliche italiane.
La Commissione ha proposto ricorso alla Corte di Giustizia, non prima di aver provato ad avere risposte dall’Italia sul punto sollecitando una regolarizzazione.
Quanto segue è lo svolgersi dei fatti.
La Commissione ha inviato alla Repubblica italiana, il 19 giugno 2014, una lettera di messa in mora, contestandole l’inadempimento degli obblighi ad essa incombenti.
Forse deve esserci stato un preavviso perché, guarda caso, l’Italia solo due mesi prima aveva pubblicato il decreto-legge 24 aprile 2014, n. 66 (legge di conversione 23/06/2014, n. 89) titolato «Misure urgenti per la competitivita' e la giustizia sociale. Deleghe al Governo per il completamento della revisione della struttura del bilancio dello Stato, per il riordino della disciplina per la gestione del bilancio e il potenziamento della funzione del bilancio di cassa, nonche' per l'adozione di un testo unico in materia di contabilita' di Stato e di tesoreria.» e con il quale si istituiva un meccanismo di controllo delle tempistiche di pagamento da parte della PA. Un meccanismo complesso di premi e sanzioni a seconda del rispetto dei termini di pagamento. Inoltre i termini di pagamento vengono registrati nel portale che registra i tempi di pagamento della PA da cui poter estrarre una media (piattaforma per il monitoraggio dei crediti commerciali).
Grazie a detta emanazione, l’Italia poteva rispondere alla CE con lettera del 18 agosto 2014, comunicando alla Commissione di aver già adottato misure specifiche per lottare contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali tra soggetti pubblici e privati.
Nel novembre 2016 la Commissione chiede di avere i tempi di pagamento delle PP.AA.; l’Italia risponde inviando i dati. Il termine medio dei pagamenti del 2016 era di 50 giorni (sic!).
Peccato che a Confartigianato, all'ANCE, all’ufficio studi del Sole24ore e ad altri risultassero altri dati e che questi, anzi, chiarissero, dati alla mano, che i tempi reali di pagamento da parte della PA erano, nello stesso periodo, ben più estesi fino a tempi di pagamento di 687 giorni.
Ancora solleciti della Commissione e ancora risposte dell’Italia nel 2017. I tempi dichiarati dalla Stato italiano sono sempre quelli, una media di 51 giorni.
La Commissione, verificata la continua violazione, invia il caso alla Corte di Giustizia.
La Sentenza della CGCE
L’Italia aveva provato a difendersi asserendo che i termini si applicherebbero solamente nel caso in cui la PA operi nella sua veste pubblica mentre quando “un organo di uno Stato membro agisca su un piano di parità con un operatore privato, tale organo risponde unicamente dinanzi ai giudici nazionali di un’eventuale violazione del diritto dell’Unione, allo stesso titolo di un operatore privato”. In questo ultimo caso la questione è solamente interna e va decisa dal giudice ordinario il quale potrà condannare la PA al pagamento degli interessi di mora.
Con il versamento di interessi di mora e il risarcimento per i costi di recupero sostenuti, la Repubblica italiana avrebbe rispettato gli obblighi imposti da detta direttiva.
Sul punto insiste, lo Stato italiano, asserendo che sentenza del 16 febbraio 2017, IOS Finance EFC (C‑555/14, EU:C:2017:121) la stessa CGCE avrebbe avvallato un meccanismo normativo che consente un ritardo programmato nel pagamento dei debiti delle pubbliche amministrazioni e che “da un lato, che il diritto effettivamente garantito ai creditori dalla direttiva 2011/7 riguarda solo gli interessi di mora da essa imposti e, dall’altro, che l’obiettivo di tale direttiva, che consiste nella lotta contro i ritardi di pagamento, «è solo indirettamente (...) perseguito»”.
Argomentazioni non accolte dalla Corte Europea, la quale ricorda che le menzionate disposizioni impongono agli Stati membri obblighi non alternativi (o tempestività o interessi di mora), bensì complementari.
La Corte non manca di far la ramanzina al nostro paese: “le pubbliche amministrazioni, alle quali fa capo un volume considerevole di pagamenti alle imprese, godono di flussi di entrate più certi, prevedibili e continui rispetto alle imprese, possono ottenere finanziamenti a condizioni più interessanti rispetto a queste ultime e, per raggiungere i loro obiettivi, dipendono meno delle imprese dall’instaurazione di relazioni commerciali stabili. Orbene, per quanto riguarda dette imprese, i ritardi di pagamento da parte di tali amministrazioni determinano costi ingiustificati per queste ultime, aggravando i loro problemi di liquidità e rendendo più complessa la loro gestione finanziaria. Tali ritardi di pagamento compromettono anche la loro competitività e redditività quando tali imprese debbano ricorrere ad un finanziamento esterno a causa di detti ritardi nei pagamenti”.
La Corte conclude dichiarando “Non assicurando che le sue pubbliche amministrazioni rispettino effettivamente i termini di pagamento stabiliti all’articolo 4, paragrafi 3 e 4, della direttiva 2011/7/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 febbraio 2011, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza di tali disposizioni”.
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Di seguito il testo di
Corte di Giustizia Comunità Europea, Grande Sezione, Sentenza del 28/01/2020
LA CORTE (Grande Sezione),
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