La responsabilita' per morti da malattia professionale: il caso Eternit

Il beffardo epilogo della vicenda Eternit e il problema della contestazione del delitto di 'disastro innominato' nei casi di morti per malattie professionali o da inquinamento.

- di Avv. Francesca Fioretti
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La responsabilita' per morti da malattia professionale: il caso Eternit

Com’è noto, per il clamore mediatico che ha suscitato la notizia, il 18 novembre scorso la Corte di Cassazione ha dichiarato la prescrizione del reato di cui all’art. 434 c.p. contestato all’imputato Stephan Schmidheiny, amministratore di Eternit S.p.A. tra il 1974 e il 1986, già condannato in primo e secondo grado dal Tribunale e dalla Corte d’Appello di Torino, per disastro ambientale da cui sono scaturite malattie professionali e la morte di migliaia di persone esposte all’inalazione di polveri di amianto, sia negli ambienti di lavoro che nei territori limitrofi agli stabilimenti industriali.

La sentenza era a dir poco attesissima, non solo ovviamente dai parenti delle numerose vittime e da coloro che ancora oggi continuano ad ammalarsi di asbestosi e mesotelioma pleurico, ma anche dall’ambiente giuridico nel suo complesso, giacché si è trattato, senza dubbio, del più importante processo penale celebrato in Italia per morti e malattie amianto-correlate.

La declaratoria di prescrizione del reato pronunciata dalla Cassazione ha frustrato in maniera profonda (e forse definitiva) la legittima pretesa di giustizia delle vittime e ha aperto uno scenario preoccupante in ordine alla sorte di tutti quei processi per disastro ambientale che si stanno celebrando nel nostro Paese e per quelli che devono ancora iniziare, si pensi fra tutti al caso Ilva di Taranto.

All’indomani della pronuncia, giunta dopo due gradi di giudizio che avevano dichiarato la responsabilità penale dei vertici di Eternit per il reato di cui all’art. 434 c.p., si è assistito ad una immediata levata di scudi del mondo politico – forse purtroppo solo per la ricerca del facile consenso sull’onda dell’indignazione popolare – verso una preannunciata imminente riforma dell’istituto della prescrizione, che preveda un allungamento del tempo necessario alla sua maturazione, permettendo così di porre al riparo la pretesa punitiva nei processi per morti correlate all’amianto.

Occorre, tuttavia, sgombrare il campo da un equivoco di fondo: l’epilogo della vicenda Eternit non è dipeso da un breve termine di prescrizione o da lungaggini processuali (tre gradi di giudizio in meno di quattro anni), bensì dall’individuazione del momento consumativo del reato contestato.

La procura di Torino, infatti, ha costruito l’impianto accusatorio esclusivamente per il reato di cui all’art. 434 c.p. che, con la rubrica “crollo di costruzioni o altri disastri dolosi”, nel capo I del Titolo VI del libro II del codice penale, punisce al primo comma con la reclusione da 1 a 5 anni, “chiunque, fuori dei casi preveduti dagli articoli precedenti, commette un fatto diretto a cagionare il crollo di una costruzione o di una parte di essa ovvero un altro disastro, se dal fatto deriva pericolo per la pubblica incolumità”. Al secondo comma prevede la reclusione da 3 a 12 anni “se il crollo o il disastro avviene”: il verificarsi dell’evento rappresenta una circostanza aggravante o, secondo dottrina minoritaria, una fattispecie autonoma di reato1.

Trattasi del c.d. disastro innominato che, in contrapposizione ai delitti previsti nel primo comma e negli articoli precedenti del medesimo capo, secondo ciò che si legge nella Relazione al progetto definitivo del codice penale, sarebbe destinato a colmare le “eventuali” lacune nelle norme concernenti la pubblica incolumità “specie in vista dello sviluppo assunto dalla attività industriale e commerciale”.

L’applicazione pratica della fattispecie in parola, tuttavia, e in particolare nei casi di malattie professionali, ha mostrato, di per se stessa, numerose lacune e criticità, che, invece, il legislatore voleva colmare con la previsione di questa norma.

In primis, il problema della dimostrazione del nesso causale tra la condotta del datore di lavoro e le patologie dell’asbestosi e del mesotelioma pleurico.

La scelta operata dalla Procura di Torino, che trova le proprie radici in alcuni importanti precedenti2, pone numerosi problemi ermeneutici anche in merito al nesso causale. Il concetto di evento disastroso, infatti, – ammesso che possa anche consistere in un processo prolungato nel tempo – non può essere identificato con il danno alle persone che sono incorse in patologie mortali, giacché rispetto a queste non vi è certezza causale. Infatti, se è vero che il disastro deve essere idoneo a cagionare il danno per l’incolumità pubblica, questa idoneità non può essere intesa come probabilità sul piano scientifico, bensì nel caso concreto, laddove deve essere dato per presupposto che il danno discenda scientificamente dal disastro3.

Si è dunque all’interno di un percorso irto di difficoltà e caratterizzato dalla mancanza di leggi scientifiche univoche; detta mancanza ha determinato nel recente passato esiti giudiziari diversi.

Occorre tenere ben distinti due momenti profondamente differenti: la colpa del datore di lavoro e l’evento morte.

La violazione della regola cautelare che incombe sul datore di lavoro, infatti, non è sufficiente a provare il nesso di causa che, secondo le conoscenze scientifiche attuali, rimane incerto. L’origine del mesotelioma pleurico può essere cagionato, infatti, da una serie di fattori e possono figurarsi percorsi causali alternativi rispetto all’esposizione da amianto.

In ordine a tale problema, la giurisprudenza finora si è rifatta agli insegnamenti della sentenza Franzese4 che ha ancorato l’accertamento causale al concetto di elevata probabilità logica o credibilità razionale. La reale portata innovativa di questa sentenza sta proprio nella considerazione secondo cui, ai fini della ricostruzione del nesso causale, è decisiva la credibilità della ricostruzione del fatto concreto sorretta dalle circostanze di fatto che emergono dal processo.

Fondamentale in questo percorso interpretativo della giurisprudenza è la sentenza Quaglierini del 4 novembre 20105, nella quale si evidenzia che, mentre sembra pacifico il nesso causale tra l’esposizione all’amianto e l’asbestosi, per quanto concerne il mesotelioma pleurico si contendono il campo due leggi scientifiche alternative: la prima che considera il mesotelioma una patologia dose – dipendente, la seconda che lo qualifica come conseguenza di esposizioni anche molto basse al momento dell’innesco (c.d. dose killer) e quindi quasi indifferenti eventuali successive esposizioni. L’adesione all’una o all’altra tesi conduce chiaramente ad esiti diversi in ordine al nesso causale e conseguenti responsabilità.

La Cassazione nella sentenza Quaglierini ha stabilito che quando il giudice si trova dinnanzi a leggi scientifiche contraddittorie deve specificatamente motivare l’adozione di una piuttosto che dell’altra, dando conto del motivo della scelta. Nell’annullare con rinvio la sentenza di merito la Suprema Corte statuisce che il giudice del rinvio, nell’accertamento del nesso di causalità, deve tenere conto strettamente delle leggi scientifiche di copertura, motivando la scelta ricostruttiva del processo causale, ancorandolo ai concreti elementi scientifici raccolti. Ergo: in mancanza della dimostrazione della univocità e attendibilità della legge scientifica, si impone l’assoluzione degli imputati.

Secondo un autorevole saggio di Beniamino Deidda del 2013 (ex Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Firenze)6, la vicenda Eternit è divenuta un passaggio cruciale di qualsiasi riflessione sul c.d. “diritto penale del rischio” e la sua conclusione “segnerà il comportamento dei giudici in tutte quelle situazioni nelle quali la possibile nocività di alcuni fattori non è sostenuta da definitive prove scientifiche, ma è solo ipotizzata in seguito agli studi epidemiologici più o meno convincenti”. Purtroppo, vista la mancanza di una pronuncia nel merito da parte della Cassazione nella vicenda Eternit, si dovrà ancora attendere per trovare la la risposta ai quesiti e la soluzione alle accennate problematiche, relative alla dimostrazione del nesso causale nei processi per morti da amianto.

Secondariamente, ma solo per ordine di trattazione, l’individuazione del momento consumativo del reato nel delitto di “disastro innominato”, costituisce un problema, la cui soluzione interpretativa ha, almeno per il momento, condotto ad un nulla di fatto il processo Eternit.

Secondo la tesi che è prevalsa nella giurisprudenza più recente e che ha accolto la Cassazione nel caso Eternit, infatti, il delitto di cui all’art. 434 c.p., essendo un reato di pericolo e, quindi a consumazione anticipata, si sarebbe perfezionato con il compimento della condotta, conclusasi definitivamente nel 1986 con la chiusura dello stabilimento industriale (come confermato dal comunicato stampa della Cassazione stessa all’indomani della sentenza). Seguendo tale impostazione il termine di prescrizione è iniziato a decorrere necessariamente dal 1986 ed era, quindi, già spirato addirittura prima dell’inizio del processo, vanificando e rendendo inutili i due gradi giudizio. Si è ancora in attesa del deposito della motivazione e solo allora si potrà capire se la declaratoria di prescrizione dipende dalla qualificazione della fattispecie contestata di cui all’art. 434 c.p. come circostanza aggravante o, piuttosto dalla configurazione del delitto come reato permanente, in cui si fissa la cessazione della permanenza al cessare della condotta (chiusura dell’attività industriale).

In ogni caso sembra chiaro che la strategia processuale dell’accusa non abbia prodotto i risultati sperati: scegliere di contestare il macro evento disastro e non invece i singoli casi di omicidio ovvero lesioni, ha (forse) semplificato l’onere probatorio – seppure con tutti i limiti sopra tracciati –, che in caso contrario avrebbe dovuto portare alla dimostrazione di centinaia di nessi di causalità.

Del resto la medesima strategia processuale ha portato recentemente ad un’altra dichiarazione di prescrizione, ovvero la sentenza del caso Sacelit7 che ha confermato la medesima decisione del GUP di Barcellona Pozzo di Gotto. Secondo la Cassazione, infatti, (e molti autori prevedono che le medesime considerazioni saranno svolte dai Giudici nel caso Eternit) il reato di disastro ascritto agli imputati “si è consumato alla fine dell’anno 1975 – ergo è cessata la permanenza ex art. 158, comma 1, c.p.p. – quando è cessata da parte dei Direttori pro tempore dello stabilimento la condotta inosservante delle regole precauzionali… fermo restando che, ove anche volesse ipotizzarsi astrattamente che nemmeno in tale epoca fosse davvero cessata per volontà dei dirigenti la condotta illecita, inosservante delle regole da parte della ditta datrice, in ogni caso l’azione lesiva sarebbe comunque cessata nell’anno 1993 perché il suo compimento a quella data è divenuto definitivamente impossibile per fatto oggettivo esterno al reo, costituito dalla chiusura dello stabilimento”.

Sembra chiaro, dunque, che il ricorso alla contestazione della fattispecie di cui all’art. 434 c.p., al fine di perseguire le condotte di inquinamento esauritesi ormai da più di dieci anni, sia sostanzialmente inutile. Ciò dovrebbe indurre a ripensare in termini diversi le contestazioni in questa materia e porta a chiedersi, con preoccupazione, se gli attuali processi in corso nei casi della Tirreno Power e dell’Ilva di Taranto avranno esiti simili, anche se – va detto – le condotte inquinanti sono cessate in tempi più recenti.

Anche se non sono mancate autorevoli critiche8 alla decisione della Suprema Corte sul caso Eternit, secondo le quali “ragioni di giustizia sostanziale avrebbero dovuto spingere la Corte di Cassazione a un’interpretazione diversa sul momento consumativo del disastro (ad esempio proprio quella fatta propria dalla Corte d’Appello di Torino), evitando la prescrizione del reato”, tuttavia, a parere di chi scrive, l’unico modo per far sì che giustizia formale e sostanziale potessero coincidere era quello per cui l’accusa avrebbe dovuto procedere alla contestazione dei singoli delitti di lesioni personali e omicidio, come in tutti quei casi, analoghi a quello in esame, ove le condotte delittuose inquinanti sono cessate da lungo tempo.

È notizia di qualche giorno fa che la Procura di Torino ha proceduto alla contestazione, per la vicenda Eternit, di ben 256 ipotesi di omicidio. Rimaniamo in attesa.

Avv. Francesca Fioretti

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1 CORBETTA, Delitti contro l’incolumità pubblica, in Trattato di diritto penale – Parte speciale, Volume II, Tomo I. 2003, pag. 636.

2 Trib. di Venezia, 22 ottobre 2001, relativamente al caso del petrolchimico di Porto Marghera, in Riv. It. Dir. Proc. pen., 2005, pag. 808.

3 Roberto Bartoli, La recente evoluzione giurisprudenziale sul nesso causale nelle malattie professionali da amianto, in Diritto Penale Contemporaneo.

4 Cass. Pen., S.U., 11 settembre 2002, n. 30328.

5 Cass. Pen., sez. IV, 4 novembre 2010, n. 38991.

6 Beniamino Deidda, Causalità e colpa nella responsabilità penale nei reati di infortunio e malattia professionale, a cura dell’Osservatorio per il monitoraggio permanente della legislazione e giurisprudenza sulla sicurezza del lavoro; Olympus.

7 Cass. Pen., 28 maggio 2014 (dep. 21 luglio), n. 32170, Pres. Romis, Est. Blaiotta,, che conferma GUP Barcellona Pozzo di Gotto, 11 marzo 2013, giud. Adamo (caso Sacelit).

8 Vladimiro Zagrebelsky e Carlo Federico Grosso su “La Stampa” e Gian Carlo Caselli a “Radio 24”.

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