La liquidazione del danno patrimoniale da lucro cessante derivante da morte di una persona
Modalità di calcolo del danno da lucro cessante liquidato in forma capitale e non come rendita a seguito di decesso della persona. Cassazione, Sezione VI civile, ordinanza 16/03/2018, n. 6619

1. La massima
«La liquidazione del danno patrimoniale da lucro cessante, patito dalla moglie e dal figlio di persona deceduta per colpa altrui, e consistente nella perdita delle elargizioni erogate loro dal defunto, se avviene in forma di capitale e non di rendita, va compiuta, per la moglie, moltiplicando il reddito perduto dalla vittima per un coefficiente di capitalizzazione delle rendite vitalizie, corrispondente all'età del più giovane tra i due; e per il figlio in base ad un coefficiente di capitalizzazione d'una rendita temporanea, corrispondente al numero presumibile di anni per i quali si sarebbe protratto il sussidio paterno; nell'uno, come nell'altro caso, il reddito da porre a base del calcolo dovrà comunque: (a) essere equitativamente aumentato, per tenere conto dei presumibili incrementi che il lavoratore avrebbe ottenuto, se fosse rimasto in vita; (b) essere ridotto della quota di reddito che la vittima avrebbe destinato a sè, del carico fiscale e delle spese per la produzione del reddito».
2. Premessa
L'uccisione di una persona può causare ai suoi familiari un danno patrimoniale da lucro cessante, consistente nella perdita dei benefici economici che la vittima destinava loro o per legge (ad es., ex artt. 143 o 147 c.c.) o per costume sociale, a condizione che non si trattasse di sovvenzioni episodiche, che ovviamente a cagione della loro sporadicità non consentirebbero di presumere ex art. 2727 c.c. che, se la vittima fosse rimasta in vita, sarebbero continuate per l'avvenire.
Il danno permanente da lucro cessante può essere liquidato sia in forma di rendita vitalizia sia in forma di capitale, come emerge dall'art. 2057 c.c. che al contempo non consente altra alternativa. La scelta è rimessa alla discrezionalità del giudice di merito.
Dal punto di vista finanziario la liquidazione nell'una o nell'altra forma è indifferente, se correttamente individuato il coefficiente di capitalizzazione, fermo che in ogni caso quel che può essere "vitalizio" è la rendita da capitalizzazione e non certo l'operazione di capitalizzazione.
3. Liquidazione in forma di capitale
Se viene scelta la liquidazione in forma di capitale, questa deve avvenire:
a) determinando il reddito della vittima al momento della morte;
b) detraendone la quota presumibilmente destinata ai bisogni personali della vittima o al risparmio;
c) moltiplicando il risultato per:
- un coefficiente di capitalizzazione delle rendite vitalizie, se sia ragionevole ritenere che, in mancanza dell'illecito, il superstite avrebbe continuato a godere del sostegno economico del defunto vita natural durante: in tal caso il coefficiente da scegliere dovrà essere corrispondente all'età della vittima se questa sia più giovane dell'alimentato, ovvero all'età di quest'ultimo nel caso contrario;
- un coefficiente di capitalizzazione delle rendite temporanee, se sia ragionevole ritenere che, in mancanza dell'illecito, il superstite avrebbe continuato a godere del sostegno economico del defunto solo per un periodo di tempo determinato: in tal caso il coefficiente da scegliere dovrà essere corrispondente alla durata presumibile per la quale sarebbe proseguito il sostegno economico.
4. Determinazione del reddito della vittima e l'operazione di capitalizzazione
Nel determinare il reddito della vittima da porre a base del calcolo si deve tener conto del principio di indifferenza che governa l'operazione di risarcimento del danno. A mente di tale principio predicato dall'art. 1223 c.c., la liquidazione deve comprendere tutto il danno e nient'altro che il danno, pertanto all'esito della liquidazione il danneggiato non può risultare né più povero, né più ricco di quanto non sarebbe stato in mancanza del fatto illecito.
Il reddito goduto dalla vittima al momento della morte deve quindi essere opportunamente trattato per evitare sovrastime o sottostime. Ragion per cui si dovrà tener conto delle necessarie detrazioni e degli incrementi futuri.
4.1 Detrazioni
Dal reddito deve essere detratto l'ammontare delle spese per la produzione del reddito ed il carico fiscale che in assenza del fatto illecito avrebbero rappresentato voci di spesa e avrebbero quindi ridotto il reddito disponibile per i familiari. Ciò per evitare una liquidazione iniqua per il debitore che assicurerebbe ai familiari il godimento di un reddito superiore rispetto a quello che avrebbero invece goduto se l'illecito non si fosse verificato.
Merita attenzione il carico fiscale, posto che l'art. 6 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, nel disciplinare il trattamento fiscale delle somme percepite a titolo di risarcimento del danno, stabilisce che «le indennità conseguite (...) a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi, esclusi quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte, costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti». Il risarcimento del danno patrimoniale da morte o da invalidità è dunque, per scelta di politica legislativa, un reddito fiscalmente esente. Di talché se il risarcimento avvenisse in base al reddito lordo della vittima il danneggiato si arricchirebbe e per di più senza beneficio per l'erario.
D'altronde, se l'illecito fosse mancato i familiari del lavoratore avrebbero goduto del reddito residuo dopo il prelievo fiscale. Allo stesso modo, se il redito perduto deve essere sostituito da un risarcimento, quest'ultimo dovrà essere calcolato al netto del prelievo fiscale, in ossequio al criterio di indifferenza.
4.2 Incrementi futuri
Deve tenersi conto dei verosimili incrementi futuri che quel reddito avrebbe avuto se la vittima avesse potuto continuare a svolgere il proprio lavoro, a condizione che una simile circostanza venga debitamente allegata e provata anche per presunzioni. Qualsiasi reddito da lavoro, infatti, è destinato secondo l'id quod plerumque accidit a crescere col tempo (per l'affinamento delle capacità del lavoratore autonomo dovuto all'accrescimento delle esperienze, per effetto del maturare dell'anzianità del lavoratore dipendente che comporta di norma incrementi salariali, etc.).
Poiché l'operazione di capitalizzazione consiste nel trasformare una rendita in un capitale, essa potrà avvenire in base all'ultimo reddito goduto dalla vittima nel solo caso in cui sia possibile ritenere che, se la vittima fosse rimasta in vita, il suo reddito non si sarebbe incrementato. Una simile valutazione sarebbe consentita solo nel caso di morte di un lavoratore anziano e prossimo all'età pensionabile ovvero svolgente un lavoro che non gli consente alcun incremento reddituale futuro. Nel caso di lavoratori giovani corrisponde invece ad un criterio di normalità che il reddito cresca con l'andare del tempo.
Pertanto, porre a base del calcolo di capitalizzazione l'ultimo reddito goduto dalla vittima senza alcun incremento equitativo che ricomprenda gli sviluppi futuri costituisce una violazione dell'art. 1223 c.c. in quanto conduce ad una sottostima del risarcimento1.
Dott. Andrea Diamante
Cultore della materia in diritto processuale penale
presso l’Università degli Studi di Enna “Kore”
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1 . Questi principi sono stati da tempo, ed in varie occasioni, affermati da questa Corte, ed in particolare da Sez. 3, Sentenza n. 8177 del 06/10/1994, secondo cui «nella liquidazione del danno futuro per la morte di un congiunto che con certezza o con rilevante grado di probabilità avrebbe continuato ad elargire ai superstiti durevoli e costanti sovvenzioni, il giudice deve tenere conto non solo del reddito della vittima al momento del sinistro, ma anche dei probabili incrementi di guadagno dovuti (...) allo sviluppo della carriera ed ad altri consimili eventi che con prudente apprezzamento e sulla base dell'id quod plerumque accidit si sarebbero verificati».
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