Necessità di dolo specifico dell’amministratore di diritto nel reato di omessa dichiarazione

Anche nei reati tributari va valutato l'elemento soggettivo. Nel reato di omessa dichiarazione è richiesto il dolo specifico, non rinvenibile nell'amministratore che è solo un prestanome. Cassazione penale Sentenza n. 36474/2019

- di Dott.ssa Rossana Accettella
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Necessità di dolo specifico dell’amministratore di diritto nel reato di omessa dichiarazione

Corte di Cassazione sentenza n. 36474 del 28 agosto 2019: “…In materia di reati tributari [….] per quanto concerne l’elemento soggettivo del reato, valgono i principi generali posti dagli articoli 42 e 43 c.p., per cui, attesa la natura di reato a dolo specifico – ai fini della punibilità dell’autore del reato, nella specie l’amministratore di diritto/prestanome, non è sufficiente il dolo generico […..] ma si richiede invece il dolo specifico di evasione…”.

 

Con la sentenza n. 36474 del 28 agosto 2019 la Suprema Corte ha affermato che, per la condanna dell’amministratore di diritto, in sostanza un prestanome del reale amministratore di fatto, è necessaria la sussistenza dell’elemento soggettivo del dolo specifico.

La pronuncia origina da un ricorso presentato da un legale rappresentante di una società, mero amministratore di diritto, che non svolgeva sostanzialmente alcun atto di amministrazione, a differenza dell’amministratore di fatto che materialmente si era reso colpevole del reato di omessa dichiarazione.

L’imputato era stato condannato in primo grado alla pena della reclusione di un anno e sei mesi, oltre all’applicazione di pene accessorie, in quanto ritenuto colpevole dei reati, in continuazione tra gli stessi, di omessa dichiarazione IVA e di occultamento o distruzione di documentazione contabile.

Veniva, quindi, proposto ricorso in Cassazione, mediante la presentazione di due motivi consistenti nella violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento agli articoli nn. 5 e 10 del D. Lgs. n. 74 del 2010.

Il secondo motivo di ricorso concerneva la contestazione del vizio di motivazione circa la valutazione della commisurazione della pena.

La suprema Corte ritiene fondato il primo motivo di ricorso, motivato dalla difesa dell’imputato con la circostanza che il giudice di prime cure e successivamente la Corte d’Appello, abbiano affermato la colpevolezza dell’imputato ricorrente sull’unica considerazione che questi rivestisse la carica di legale rappresentante della società. Entrambi i giudici riconoscevano, altresì, la qualifica solo formale ricoperta dall’imputato, il quale ignorava in sostanza gli obblighi connessi alla propria carica, propostagli peraltro dall’amministratore di fatto, persona della quale il primo aveva profonda fiducia e dalla quale riceveva rassicurazioni circa il buon andamento dell’attività sociale.

La difesa del ricorrente pone l’accento sulla carenza della dimostrazione, da parte dei giudici di merito, dell’effettiva sussistenza del dolo specifico, normativamente richiesto.

L’assenza della provata sussistenza dell’elemento soggettivo del dolo specifico viene contestata anche in ordine al reato di occultamento e distruzione di documentazione contabile. In relazione a tali due capi di imputazione, i giudici territoriali davano rilievo a meri fatti quali il ritiro della documentazione contabile presso il commercialista e la consegna della stessa agli organi inquirenti. Peraltro il dolo specifico veniva ravvisato argomentando due fatti dei quali non vi era riscontro negli atti di causa, ossia presunti contatti tra l’imputato e l’amministratore di fatto, dai quali si sarebbe desunta la volontà del primo a condividere l’intento criminoso di quest’ultimo.

La Corte ritiene fondato il primo motivo di doglianza con riferimento al reato di omessa dichiarazione di cui all’art. 5 del D. Lgs. 74/2010 e dell’argomentazione della corte d’Appello circa la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato. Quest’ultima, infatti, affermava come fosse ravvisabile la piena consapevolezza dell’imputato di essere il legale rappresentate della società di una società commerciale, con funzione di sostituto d’imposta in materia di IVA e che, pertanto, l’omessa dichiarazione avrebbe comportato, di conseguenza, l’omesso versamento dell’imposta diretta incassata alla vendita.

Il Supremo Collegio continua, pertanto, affermando come non possa ritenersi provata la responsabilità dell’imputato sulla base della mera circostanza che questi avesse assunto consapevolmente la qualifica di legale rappresentante, sul quale incombe l’onere di evitare la realizzazione di reati da parte di altri soggetti operanti nella società e che l’eventuale inconsapevolezza da parte dell’imputato non avesse rilievo, così come l’ignoranza inescusabile dei precetti penali. Pertanto, considerata l’erroneità di tali argomentazioni, la corte chiosa affermando la necessità di provare la coscienza e volontà di commettere un’azione e che

“… In materia di reati tributari e, segnatamente, con riferimento al reato di omessa dichiarazione fiscale – per quanto concerne l’elemento soggettivo del reato, valgono i principi generali posti dagli articoli 42 e 43 c.p., per cui – attesa la natura a dolo specifico […] ai fini della punibilità dell’autore del reato, nella specie l’amministratore di diritto/prestanome, non è sufficiente il dolo generico, e cioè la coscienza e volontà del comportamento e la previsione dell’evento da parte dell’agente quale conseguenza della sua azione od omissione, ma si richiede invece il dolo specifico di evasione, in quanto integrato dalla deliberata ed esclusiva intenzione di sottrarsi al pagamento delle imposte nella piena consapevolezza della illiceità del fine e del mezzo”.

Veniva, invece rigettato il secondo motivo di doglianza relativo all’entità della pena.

 

Accettella Rossana

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Di seguito il testo di

Corte Cassazione, Sez III penale, Sentenza n. 36474 dep. 28/08/2019

 

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