È reato commercializzare la c.d. cannabis light
In attesa della motivazione, la decisione delle Sezioni Unite sulla "cannabis light", partendo dal contrasto giurisprudenziale.

Le Sezioni Unite con sentenza resa in data 30/05/2019 hanno dato risposta al quesito di diritto posto dalla Sezione IV con ordinanza n. 8654 del 27/02/2019, circa la liceità ovvero la rilevanza penale della commercializzazione dei derivati della coltivazione della canapa, ossia foglie, infiorescenze, oli e resine della cannabis sativa L., commercializzati come "cannabis light" a causa della piccola percentuale di THC.
Nonostante ancora sia disponibile soltanto l'informazione provvisoria n. 15 relativa a tale sentenza, appare opportuno soffermarsi brevemente sul contrasto giurisprudenziale che aveva indotto la Sezione IV a rimettere la soluzione alle Sezioni Unite, quindi sul principio di diritto elaborato dalle Sezioni Unite, in attesa di poter leggere le argomentazioni dalle Sezioni Unite.
Non sembra inconferente, in via preliminare, chiarire cosa si intenda per "cannabis light", la cui commercializzazione trova il via dalla L. 242/20169.
La promozione delle colture della canapa: la legge 242/2016. Dalla coltivazione della canapa alla "cannabis light".
Per comprendere cosa si intende per "cannabis light" si deve partire dalla L. 242/2016 sulla coltivazione della canapa.
La legge 242/2016 recante "Disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa" ha perseguito l'obiettivo di sostenere e promuovere la coltivazione e la filiera della canapa (derivata dalla Cannabis sativa L.), «quale coltura in grado di contribuire alla riduzione dell'impatto ambientale in agricoltura, alla riduzione del consumo dei suoli e della desertificazione e alla perdita di biodiversita', nonche' come coltura da impiegare quale possibile sostituto di colture eccedentarie e come coltura da rotazione».
Tale sostegno e promozione riguarda la coltura della canapa finalizzata alla coltivazione e alla trasformazione, all'incentivazione dell'impiego e del consumo finale di semilavorati di canapa provenienti da filiere prioritariamente locali, allo sviluppo di filiere territoriali integrate che valorizzino i risultati della ricerca e perseguano l'integrazione locale e la reale sostenibilità economica e ambientale, alla produzione di alimenti, cosmetici, materie prime biodegradabili e semilavorati innovativi per le industrie di diversi settori e alla realizzazione di opere di bioingegneria, bonifica dei terreni, attività didattiche e di ricerca.
In questi casi non è necessaria una preventiva autorizzazione ed è possibile ottenere:
a) alimenti e cosmetici prodotti esclusivamente nel rispetto delle discipline dei rispettivi settori;
b) semilavorati, quali fibra, canapulo, polveri, cippato, oli o carburanti, per forniture alle industrie e alle attività artigianali di diversi settori, compreso quello energetico;
c) materiale destinato alla pratica del sovescio;
d) materiale organico destinato ai lavori di bioingegneria o prodotti utili per la bioedilizia;
e) materiale finalizzato alla fitodepurazione per la bonifica di siti inquinati;
f) coltivazioni dedicate alle attivita' didattiche e dimostrative nonche' di ricerca da parte di istituti pubblici o privati;
g) coltivazioni destinate al florovivaismo.
Il contenuto complessivo di THC della cannabis sativa L. coltivata non deve essere superiore allo 0,2% e comunque entro il limite dello 0,6%. Al Ministero della salute è stato invece demandato di individuare il limite di THC ammesso negli alimenti, definito nel limite di 0,2% e comunque non superiore allo 0,6%. Il superamento dei limiti è sanzionato con il sequestro e la distruzione. Limiti il cui superamento incide solo sull'agricoltore secondo la disciplina della L. 242/2016.
Dunque, la cannabis coltivabile è quella povera del cannabioide THC (delta 9-tetraidrocannabinolo, ovvero più semplicemente tetraidrocannabinolo), responsabile degli effetti psicoattivi.
In assenza del divieto esplicito nella L. 242/2016 all'uso dei derivati della cannabis sativa L. diversi dalla canapa, ha avuto inizio la commercilizzazione delle foglie, delle infiorescenze, degli oli e delle resine, tutti derivati non interessati alla produzione della canapa. Con riferimento a tali derivati, si è parlato di "cannabis light" in quanto qualificata da tale minore quantità del cannabioide THC. Una commercializzazione che ha trovato fondamento sull'asserita rivalutazione legislativa della cannabis sativa L. attraverso l'individuazione delle soglie di THC ad opera della L. 242/2016.
Il quesito di diritto: è lecita la commercializzazione della cannabis light?
La IV Sezione della Suprema Corte, con ordinanza n. 8654 del 27/02/2019, rimetteva alle Sezioni Unite il quesito di diritto così sintetizzato dalle Sezioni Unite:
«Se le condotte diverse dalla coltivazione di canapa della varietà di cui al catalogo indicato dell'art. 1, comma 2, della legge 2 dicembre 2016, n. 242, e, in particolare, della commercializzazione di cannabis sativa L., rientrino o meno , e se sì, in quali eventuali limiti, nell'ambito di applicabilità della predetta legge e siano, pertanto, penalmente irrilevanti, ai sensi di tale normativa».
Nell'ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite, la IV Sezione dava conto degli orientamenti sino a quel momento formatisi in sede di legittimità.
Un primo indirizzo interpretativo negava la liceità della commercializzazione dei derivati della cannabis sativa L. diversi dalla canapa (infiorescenze e resine), posto che la L. 242/2016 disciplina esclusivamente la coltivazione della canapa, consentendola alle condizioni ivi indicate e soltanto per i fini commerciali precipuamente elencati. Tra tali fini non compare la commercializzazione dei prodotti costituiti dalle infiorescenze e dalla resina. Invero, secondo tale indirizzo i valori di tolleranza di THC consentiti dalla L. 242/2016 si riferiscono solo al principio attivo rinvenuto nelle piante in coltivazione e non ai prodotti finiti e in commercio e incidono esclusivamente sulla posizione dell'agricoltore. Pertanto, la detenzione e commercializzazione dei derivati della coltivazione della canapa, quali infiorescenze (marijuana) e resina (hashish), rimangono sottoposte alla disciplina del D.P.R. 309/1990 (T.U. stupefacenti).
Secondo tale orientamento, la cannabis sativa L. contiene il principio attivo delta-9-THC, presentando quindi natura di sostanza stupefacente ai sensi dell'art. 14 D.P.R. 309/1990, poichè l'allegata Tabella II include la cannabis in tutte le sue possibili varianti e forme di presentazione e tutti i preparati che la contengano1.
Secondo il contrario orientamento, è nella natura dell'attività economica che i prodotti della "filiera agroindustriale della canapa" siano commercializzati e la disciplina si dirige ai produttori e alle aziende di trasformazione e non cita le attività successive semplicemente perchè non vi è nulla da disciplinare riguardo ad esse. Dalla liceità della coltivazione della cannabis deriverebbe naturalmente la liceità dei suoi prodotti contenenti un principio attivo inferiore allo 0,6%, poichè essi non possono più essere considerati, ai fini giuridici, sostanze stupefacenti soggette alla disciplina del D.P.R. 309/1990.
La fissazione del limite dello 0,6% di THC rappresenterebbe, per tale diverso orientamento, un ragionevole punto di equilibrio fra le esigenze precauzionali relative alla tutela della salute e dell'ordine pubblico e quelle inerenti alla commercializzazione dei prodotti delle coltivazioni. Per cui, se le infiorescenze sequestrate provenissero da coltivazioni lecite ex L. 242/2016 resterebbe esclusa la responsabilità penale sia dell'agricoltore che del commerciante, anche in caso di superamento del limite dello 0,6%, essendo ammissibile soltanto un sequestro in via amministrativa a norma della L. 242/20162.
Il responso delle Sezioni Unite: è reato commercializzare la "cannabis light", ferma l'offensività in concreto.
Ecco quanto si apprende dall'Informazione provvisoria n. 15 del 30 maggio 2019:
«La commercializzazione di cannabis sativa e, in particolare, di foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientra nell'ambito di applicazione della legge 242 del 2016, che qualifica come lecita unicamente l'attività di coltivazione di canapa delle varietà iscritte nel catalogo comune delle specie di piante agricole, ai sensi dell'art. 17 della direttiva 2002/53 CE del Consiglio, del 13 giugno 2002, e che elenca tassativamente i derivati dalla predetta coltivazione che possono essere commercializzati; pertanto, integrano il reato di cui all'art. 73, commi 1 e 4, d.P.R. n. 309/1990, le condotte di cessione, di vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L, salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante».
Le Sezioni Unite pare abbiano aderito al primo orientamento esposto, che nega la liceità della detenzione e cessione dei prodotti della cannabis sativa L. diversi dalla canapa. Tali prodotti, infatti, costituirebbero pur sempre sostanza stupefacente a norma del TU stupefacenti.
Le Sezioni Unite confermano l'argomento secondo cui la L. 242/2016 si riferisca in via esclusiva alla coltivazione della canapa e quindi alla coltura, non anche ai prodotti diversi, i quali possono essere detenuti e ceduti se in concreto privi di efficacia drogante. A nulla vale, dunque, la soglia 0,2-0,6% di THC ammessa dalla L. 242/2016, che non costituisce una rivalutazione legislativa della cannabis sativa L.
Avv. Andrea Diamante
Cultore della materia in diritto processuale penale
presso l’Università degli Studi di Enna “Kore”
[Aggiornamento del 25/07/2019.
Vedi ora le motivazioni della sentenza in
"Cannabis light: le motivazioni delle SS.UU. sulla cannabis sativa L."]
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1 Cass., Sez. 6, n. 56737 del 27-11-2018, Ricci; Sez. 4, n. 34332 del 13-6-2018, Durante; Sez. 6, n. 52003 del 2018.
2 Cass., Sez. 6, n. 4920 del 29-112018, dep. 2019, Castignani.