Pari opportinutà: discriminazione di genere e distribuzione dell'onere della prova

L’art. 40 del Codice delle pari opportunità prevede un alleggerimento dell’onere della prova in favore del ricorrente. Sentenza della Corte di Cassazione

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Pari opportinutà: discriminazione di genere e distribuzione dell'onere della prova

La Corte di Cassazione, sez. lavoro, nella sentenza n. 14206 del 5 giugno 2013, si è pronunciata in materia di onere della prova nei giudizi aventi ad oggetto la violazione del divieto di discriminazione di genere sui luoghi di lavoro.
Il giudizio prende le mosse dal ricorso presentato presso il Tribunale di Roma da una dipendente di un noto istituto bancario la quale asseriva che la mancata promozione era stata frutto di una discriminazione.

La ricorrente a sostegno delle proprie ragioni rilevava di essere in possesso di tutti i requisiti necessari per il richiesto avanzamento ed allegava due interpellanze parlamentari (una del 1987, l'altra del 1995) dalle quali emergeva l'esiguità delle promozioni del personale femminile nel suddetto istituto nonché un parere del 1997 del collegio istruttorio del Comitato nazionale di parità e pari opportunità. La domanda della lavoratrice, rigettata in primo grado, veniva accolta a seguito del giudizio di appello e la banca veniva condannata al risarcimento del danno ex art. 15 Statuo dei lavoratori.

L'istituto bancario proponeva quindi ricorso per Cassazione sostenendo l'insufficienza degli elementi probatori addotti dalla lavoratrice in ordine alla dedotta discriminazione, in violazione dell'art. 40 del Codice delle pari opportunità tra uomo e donna (d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198) che pone a carico del soggetto convenuto l'onere di fornire la prova dell'inesistenza della discriminazione, nel caso in cui il ricorrente fornisca al giudice elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, circa i comportamenti discriminatori lamentati (assunzioni, trasferimenti, regimi retributivi, assegnazioni a mansioni e qualifiche, progressione in carriera, licenziamenti), purché "idonei a fondare in termini precisi e concordanti la presunzione dell'esistenza di atti, patti e comportamenti discriminatori in ragione del sesso".

La portata e l'operatività di detta disposizione è stata oggetto di dibattito in dottrina all'interno della quale hanno preso corpo due opzioni interpretative: una che ritiene che l'art. 40 ha dato vita ad una vera e propria inversione dell'onere della prova, l'altra che sostiene si tratti solo di una semplice attenuazione dell'onere della prova in favore del ricorrente.

La Cassazione per ricomporre il conflitto interpretativo richiama la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione europea che nella pronuncia in oggetto assume un ruolo dirimente. La Corte di Giustizia nella causa C- 80/1997 aveva statuito che la direttiva n. 80/1997 in materia di onere della prova nei casi di discriminazione basata sul sesso richiede agli Stati membri di adottare i provvedimenti necessari affinchè spetti alla parte convenuta di provare l'insussistenza della violazione del principio di non discriminazione qualora l'attore abbia prodotto, dinnanzi ad un organo giurisdizionale ovvero ad un altro organo competente, elementi di fatto che consentono di presumere che ci sia stata discriinazione diretta o indiretta. Perciò solamente nel caso in cui vengano provati tali fatti, spetterà alla controparte dimostrare che non vi è stata violazione del divieto di discriminazione.

Alla luce di ciò, a parere della Suprema corte, non è possibile leggere nella direttiva una esortazione al legislatore nazionale a prevedere una vera e propria inversione dell'onere della prova. Il legislatore comunitario ha disposto "un alleggerimento del carico probatorio gravante sull'attore prevedendo che questo alleghi e dimostri circostanze di fatto dalle quali possa desumersi per inferenza che la discriminazione abbia avuto luogo affinché possa scattare l'onere per il datore di lavoro di dimostrare l'insussistenza della discriminazione": in altri termini, è stato introdotto un onere probatorio "asimmetrico".

L'art. 40 richiede infatti che la presunzione derivante dagli elementi addotti dall'attore o dalla consigliera di parità abbia i caratteri della precisione e della concordanza e, diversamente da quanto previsto dall'art. 2729 c.c., non è richiesto il requisito della gravità della presunzione, pertanto l'assolvimento dell'onere della prova a carico dell'attore richiede il conseguimento di un grado di certezza minore rispetto a quello consueto. Occorrerà quindi che "il ragionamento probabilistico ed il percorso che essi seguono non siano vaghi ma ben determinati nella loro realtà storica" (requisito della precisione) e che "la prova sia fondata su una pluralità di fatti noti convergenti nella dimostrazione del fatto ignoto" (requisito della concordanza). "Inoltre - precisa la Corte - l'indicazione, quale elemento tipizzante, dei dati statistici, se non è tale da sostanziare, di per sè, il (non previsto) requisito della gravità [...] è tuttavia emblematica della serietà che deve caratterizzare gli elementi su cui fondare il ragionamento probabilistico".

Da dette premesse la Cassazione accoglie il ricorso presentato dalla banca e rigetta la domanda iniziale della lavoratrice, poichè gli elementi da essa allegati non avevano quelle caratteristiche per essere considerati fatti idonei a presumere la sussistenza di una discriminazione. In particolare le interpellanze parlamentari, atti a contenuto prevalentemente politico, non sono sufficienti a fornire elementi di prova in ordine all'esistenza di una discriminazione: essi infatti sono "privi di quella attendibilità scientifica idonea a connotarli della serietà che il legislatore ha inteso comunque richiedere a mezzo dell'espresso riferimento ai fati statistici".

Quindi, in tema di tutela contro le discriminazioni di genere l’art. 40 del Codice delle pari opportunità prevede un alleggerimento dell’onere della prova in favore del ricorrente, tenuto solo a fornire elementi di fatto idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, anche se non gravi, la presunzione dell'esistenza dei comportamenti discriminatori lamentati.


 

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