Danno da uccisione: la sofferenza morale dei congiunti è sempre presunta
Nel danno da uccisione il danno morale dei congiunti della vittima è sempre presunto e spetta all'uccisore l'onere della prova contraria Cassazione civile Ordinanza n. 3767/2018

1. La massima
«L'uccisione di una persona fa presumere da sola, ex art. 2727 c.c., una conseguente sofferenza morale in capo ai genitori, al coniuge, ai figli od ai fratelli della vittima, a nulla rilevando nè che la vittima ed il superstite non convivessero, nè che fossero distanti (circostanze, queste ultime, le quali potranno essere valutate ai fini del quantum debeatur). Nei casi suddetti è pertanto onere del convenuto provare che vittima e superstite fossero tra loro indifferenti o in odio, e che di conseguenza la morte della prima non abbia causato pregiudizi non patrimoniali di sorta al secondo».
Questo il principio indicato dalla Suprema Corte, Sezione VI, con la Ordinanza n. 3767 del 14/12/2017 - 15/02/2018 (il testo del provvedimento per esteso è in "Liquidazione del danno aquiliano: irrilevante la realtà socioeconomica".
2. Il fatto e la questio iuris
I congiunti della deceduta vittima di un incidente stradale (moglie, figli, madre e fratelli) agivano in giudizio per ottenere il risarcimento dei danni subiti dalla perdita del congiunto.
Con riferimento alla madre e ai fratelli della vittima, Il Tribunale rigettava la domanda attorea, così come la Corte d’appello1 che riteneva non provata una «effettiva compromissione di un rapporto affettivo in essere al momento del fatto», affermando che la vittima si era trasferita dalla Romania in Italia sin dal 1992, quindi «non vi è prova alcuna del permanere di rapporti con la famiglia di origine».
Nell'interposto ricorso per cassazione, per quanto qui occorre, si contestava la violazione degli artt. 2043, 2059 e 2727 c.c.. In particolare, i ricorrenti sostenevano che l'esistenza del vincolo affettivo tra una madre e un figlio o tra fratelli si presume dal rapporto di filiazione o di fratellanza ex art. 2727 c.c., senza contare che nel caso di specie non era neppure stata oggetto di contestazione di controparte.
3. Il decisum
La Suprema Corte ha ricordato che se è vero che alla vittima di un fatto illecito spetti provare i fatti costitutivi della sua pretesa, è altresì vero che tale prova può essere fornita anche attraverso presunzioni semplici fondate su massime di esperienza e sull'id quod plerumque accidit.
Nel caso di morte di un prossimo congiunto (coniuge, genitore, figlio, fratello), l'esistenza stessa del rapporto di parentela deve far presumere, secondo l'id quod plerumque accidit, la sofferenza del familiare superstite, trattandosi di una conseguenza di norma connaturale all'essere umano.
La Corte spiega che tale presunzione costituisce pur sempre una praesumptio hominis, restando possibile per la controparte dedurre e provare l'esistenza di circostanze che negano il legame affettivo tra la vittima ed il superstite, controparte su cui grava dunque l'onere di fornire la prova contraria a fronte della presunzione.
Il ragionamento contrario che esige la prova del vincolo affettivo derivante da rapporto parentale sortiscel'effetto, come nel caso di specie, di addossare ad una madre l'onere di provare di avere sofferto per la morte d'un figlio e ai fratelli di aver sofferto per la morte di un fratello. Con la conseguente violazione sia l'art. 2727 c.c., a seguito della negazione della rilevanza di un fatto di per sè sufficiente a dimostrare l'esistenza del danno (il rapporto di filiazione e di fratellanza), sia le regole sul riparto dell'onere della prova, addossando agli attori l'onere di provare l'assenza di fatti impeditivi della propria pretesa.
In ogni caso non si revoca in dubbio che la semplice lontananza non può costituire una circostanza di per sè idonea a far presumere l'indifferenza di una madre alla morte del figlio2.
Dott. Andrea Diamante
Cultore della materia in diritto processuale penale
presso l’Università degli Studi di Enna “Kore”
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1 Corte d'appello di Milano, sentenza 24.7.2015 n. 3223.
2 «Lo insegna la psicologia (dalla quale apprendiamo che la lontananza, in determinati casi, rafforza i vincoli affettivi, a misura che la mancanza della persona cara acuisce il desiderio di vederla); lo testimonia la storia (qui gli esempi sono sterminati: dal carteggio di Abelardo ed Eloisa alle lettere dei condannati a morte della Resistenza); e lo attesta sinanche il mito: quello di Penelope ed Ulisse non sarebbe certo sopravvissuto intatto per ventotto secoli, se non rispondesse ad una costante dell'animo umano la conservazione degli affetti più cari anche a distanza di tempo e di spazio».