Compossesso, animus possidendi, interversione, usucapione alla luce delle sentenze della Cassazione
Alcuni principi in materia di compossesso (iure proprio, iure hereditatis, usucapione, animus possidendi, interversione, tolleranza) espressi dalla Corte di Cassazione

Non è infrequente il caso del bene in comproprietà sul quale uno dei compossessori inizia a esercitare un utilizzo maggiore a causa dello scarso interesse da parte degli altri compossessori o per volontà di appropriarsene. Sul valore da attribuire alla mancata azione degli altri compossessori, sulla possibilità di richiamare il concetto di tolleranza o sulla possibilità di usucapire il bene per possesso esclusivo ultraventennale dell’immobile, la corte di legittimità è stata chiamata ad esprimersi continuamente.
Così pure, non infrequente è il caso del bene che cade in eredità a più soggetti dei quali solamente uno già è immesso nel possesso per prassi consolidata da prima dell’apertura della successione (tipico il caso del figlio che vive nella casa assieme al genitore fino al decesso di quest’ultimo).
Vediamo brevemente alcuni dei principi espressi dalla Corte di Cassazione in questa materia.
Detenzione e possesso: il caso del coniuge e del convivente more uxorio
Giusto per puntualizzare, è noto che l’uso della cosa può essere sorretto da un diritto/potestà ad intensità crescente. La scala di questo incremento potrebbe essere così semplificata: detenzione – possesso – altro diritto reale – proprietà.
Limitandoci alla materia che ci interessa, vale a dire il possesso, possiamo dire che la detenzione si può definire in negativo, vale a dire tutto ciò che non è possesso ed è di meno di questo. Se il possesso si manifesta quale esercizio di fatto di un diritto uti dominus, o, perlomeno, iure proprio, il detentore manca dell’animus rem sibi habendi, avendo la consapevolezza che la proprietà (o altro diritto reale) sul bene è altrui (“riconoscimento dell’altrui signoria”). Tale è il caso del locatario o del comodatario, ad esempio.
Si è anche affermato che la detenzione consiste nel comportamento d’uso tollerato (o concesso) dal possessore.
Si ritiene che la consegna delle chiavi alla firma del preliminare di vendita di immobile determini una detenzione del promittente acquirente salvo non sia espressamente usata una clausola di cessione del possesso.
Si è ritenuto che il convivente more uxorio abbia una detenzione qualificata della casa familiare di proprietà esclusiva del partner (Cassazione Sent. n. 7214/2013). Analogamente per il coniuge (“ … qualifica il coniuge utilizzatore come "detentore qualificato" e non come "possessore" … ”, Cass. Sent. 10377/2017).
Peculiare è il caso dell’acquisto per usucapione da parte del coniuge non possessore ma in regime di comunione dei beni (vedi in questa Rivista: “Comunione legale dei coniugi e acquisto per usucapione”).
Quanto al caso del compossesso “uti dominus” da parte del coniuge, utile anche ai fini dell’usucapione si cita: “ ... non può escludersi, in linea teorica, la configurabilità di un "compossesso" con riferimento ad immobile -diverso dalla casa familiare- di cui uno dei coniugi fosse già possessore esclusivo, laddove quest'ultimo non si opponesse al comune utilizzo del bene "uti dominus" da parte dell'altro coniuge” (Cass. Civile Ord. 22730/2019).
Tolleranza del compossessore
E’ principio consolidato quello che qualifica una tolleranza differenziata a seconda che le parti del compossesso siano legati da rapporti di parentela rispetto al caso in cui tale rapporto non vi sia.
Con Corte di Cassazione Civile Sez. 2, Ordinanza n. 9359 del 2021 si è avuta conferma del seguente principio in materia di tolleranza dell’erede rispetto all’estraneo:
"in tema di usucapione, per stabilire se un'attività corrispondente all'esercizio della proprietà o altro diritto reale sia stata compiuta con l'altrui tolleranza e sia quindi inidonea all'acquisto del possesso, la lunga durata dell'attività medesima può integrare un elemento presuntivo nel senso dell'esclusione della tolleranza qualora non si tratti di rapporti di parentela, ma di rapporti di mera amicizia o buon vicinato, giacché nei secondi, di per sé labili e mutevoli, è più difficile, a differenza dei primi, il mantenimento della tolleranza per un lungo arco di tempo" (così, da ultimo, Cass. 11277/2015).
Possesso esclusivo del coerede: interversione.
All’apertura della successione l’erede può già ritenersi immesso nel possesso senza apprensione materiale. L’art. 460 del Codice Civile, titolato “Poteri del chiamato prima dell'accettazione” al comma 1, infatti, recita: “Il chiamato all'eredità può esercitare le azioni possessorie a tutela dei beni ereditari, senza bisogno di materiale apprensione”. Conferma assegnata anche dall’art. 1146 c.c. (in materia di usucapione) che al primo comma recita come segue: “Il possesso continua nell’erede con effetto dall’apertura della successione”.
In presenza di più eredi, tutti acquisiscono il possesso dei beni ereditari, tuttavia può accadere che taluno usi più di altri o, addirittura, in modo esclusivo.
Abbiamo appena visto che nel caso dei coeredi il concetto di tolleranza si espande non potendosi affermare che un semplice maggior utilizzo determini un possesso uti dominus.
Il concetto di “interversio possessionis” fa scattare il termine a quo dell’usucapione e, si afferma, non possa aver luogo mediante un semplice atto di volizione interna, dovendosi estrinsecarsi in un atto o fatto (manifestazione esteriore) dal quale sia evidente che il abbia iniziato ad esercitare uti dominus e nomine proprio; tale manifestazione deve essere tale da evincersi chiaramente l’intenzione di sostituirsi al precedente possessore e, in quanto tale, deve essere specificamente rivolta contro il possessore, in modo da porre quest’ultimo in condizione di rendersi conto dell’avvenuto mutamento.
Si è affermato in Cass. Civile Ord. 8780/2020 che “ … in tema di compossesso, il godimento esclusivo della cosa comune da parte di uno dei compossessori, in mancanza di prova di un atto o di un fatto da cui possa desumersi l'esclusione degli altri compossessori, non è, di per sé, idoneo a far ritenere lo stato di fatto così determinatosi funzionale all'esercizio del possesso ad usucapionem, e non anche, invece, conseguenza di un atteggiamento di mera tolleranza da parte dell'altro compossessore, risultando, per converso, necessario, a fini di usucapione, la manifestazione del dominio esclusivo sulla res da parte dell'interessato attraverso un'attività apertamente contrastante ed inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui, gravando l'onere della relativa prova su colui che invochi l'avvenuta usucapione del bene (Cass. n. 8152 del 2001; Cass. n. 19478 del 2007; Cass. n. 17462 del 2009): non sono, in particolare, sufficienti a tal fine atti di mera gestione del bene, come la chiusura dell'accesso, consentiti al singolo compartecipante, ovvero anche atti familiarmente tollerati dagli altri, come la permanenza nell'immobile pur dopo la cessazione del periodo corrispondente al turno convenzionalmente stabilito per il relativo godimento del cespite, o ancora atti che, comportando solo il soddisfacimento di obblighi o l'erogazione di spese per il miglior godimento della cosa comune, non possono dare luogo ad una estensione del potere di fatto sulla cosa nella sfera di altro compossessore (Cass. n. 9100 del 2018)”.
Si richiama sul punto il seguente principio di diritto espresso da Corte di Cassazione Ordinanza n. 4844 del 2019 che così recita: «In una situazione di compossesso - come quella esistente tra i componenti di una comunione ereditaria in pendenza del giudizio di divisione - è ravvisabile una lesione possessoria quando uno dei condividenti abbia alterato e violato, senza il consenso e in pregiudizio degli altri partecipanti, lo stato di fatto o la destinazione del bene oggetto del comune possesso, in modo da impedire o restringere il godimento spettante a ciascun compossessore sul bene medesimo mediante atti integranti un comportamento durevole, tale da evidenziare un possesso esclusivo animo domini su tutta la cosa, incompatibile con il permanere del possesso altrui».
Possesso del coerede ad usucapionem
Si è, infine, affermato che "il coerede che, a seguito della morte del de cuius, sia rimasto nel possesso del bene ereditario può, prima della divisione, usucapire la quota degli altri eredi, senza necessità di interversione del titolo del possesso" (ex multis, Cass. 966/2019). A tal fine, però "egli, che già possiede animo proprio e a titolo di comproprietà, è tenuto ad estendere tale possesso in termini di esclusività, il che avviene quando il coerede goda del bene con modalità incompatibili con la possibilità di godimento altrui e tali da evidenziare una inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus" (Cass. 10734/2018, Cass. 7221/2009, Cass. 13921/2002), "non essendo sufficiente l'astensione degli altri partecipanti dall'uso della cosa comune" (Cass. 966/2019).
L’onere della prova gravava sempre sull'usucapiente (v. Cass. 13921/2002).