Illegittimi i DPCM che limitano la libertà di movimento secondo il Tribunale di Pisa
Illegittimi i DPCM che limitano la libertà di movimento: non è rinvenibile alcuna fonte che attribuisca al Consiglio dei Ministri il potere di dichiarare lo stato di emergenza per rischio sanitario. Trib. Pisa Sentenza n. 419/2021

In materia di legislazione di emergenza legata al coronavirus, aggiungiamo ai precedenti pronunciamenti già pubblicati in questa Rivista 1, la Sentenza n. 419/2021 del Tribunale penale di Pisa emessa in udienza del 17 marzo 2021.
Analoghe a quanto espresso dal Tribunale di Reggio Emilia, seppur non identiche, le motivazioni addotte dal Tribunale di Pisa, il quale ultimo ha affrontato un caso di persona che in una giornata nella quale vigeva il c.d. lockdown, usciva di casa senza una necessità (per ragioni di lavoro, salute o necessità) che l’avrebbe permesso.
Il difensore dell’imputato chiedeva la pronuncia di assoluzione nella formula più ampia e favorevole al reo, perché il fatto non sussiste e non nella formula richiesta dal PM perché il fatto non era più previsto dalla legge come reato.
Il Tribunale di Pisa affronta la questione ricercando un supporto normativo che attribuisca al Consiglio dei Ministri il potere di dichiarare lo stato di emergenza sanitaria.
Medesimo approccio si era tentato nell’articolo qui pubblicato e titolato “Stato di emergenza legato al Covid-19 e il supporto normativo” nel quale si era sottolineato come la legislazione riguardante la protezione civile, unica che comprende il concetto di stato di emergenza non bellico, parrebbe riferirsi ad emergenze locali e di tipo ambientale (terremoti – alluvioni, ecc).
Analoga verifica preliminare viene posta a fondamento dell’assoluzione dell’imputato del foro di Pisa.
Si legge, infatti, in motivazione: “ ... corre l'obbligo di verificare l'idoneità dei DPCM emessi a comprimere i diritti fondamentali che hanno riguardato, a fronte della delibera del Consiglio dei Ministri del 31.01.2020, dichiarativa dello stato di emergenza sanitaria, quale atto non avente forza di legge”.
E subito aggiunge che “Sul tema diversi Presidenti Emeriti della Corte Costituzionale hanno espresso pareri negativi, evidenziando l'incostituzionalità dei DPCM, per altro affermata anche da giurisprudenza di merito, in quanto solo un atto avente forza di legge e non un atto amministrativo, come è il DPCM, può porre limitazioni a diritti e libertà costituzionalmente garantiti” 2 .
Nella ricerca della fonte normativa che attribuisca poteri emergenziali legati ad un motivo sanitario – nella quale la Corte elenca, scartandoli, i possibili candidati - il Tribunale di Pisa deve concludere per la mancanza di “ ... un qualsivoglia presupposto legislativo su cui fondare la delibera del Consiglio dei Ministri del 31.1.2020, con consequenziale illegittimità della stessa per essere stata emessa in violazione dell'art. 78, non rientrando tra i poteri del Consiglio dei Ministri quello di dichiarare lo stato di emergenza sanitaria”.
Ancora una volta il giudizio è tranchant. E rinviando alla diretta lettura del provvedimento si cita semplicemente questo significativo passo: “In conclusione, la delibera dichiarativa dello stato di emergenza adottata dal Consiglio dei Ministri il 31.1.2020 è illegittima per essere stata emanata in assenza dei presupposti legislativi, in quanto non è rinvenibile alcuna fonte avente forza di legge, ordinaria o costituzionale, che attribuisca al Consiglio dei Ministri il potere di dichiarare lo stato di emergenza per rischio sanitario. A fronte della illegittimità della delibera del CdM del 31.01.2020, devono reputarsi illegittimi tutti i successivi provvedimenti emessi per il contenimento e la gestione dell'emergenza epidemiologica da COVID.19”.
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1 - vedasi “La prima sentenza di GdP che annulla le sanzioni da Covid-19” e “Il lockdown non può confinare agli arresti domiciliari secondo il Trib di Reggio Emilia”.
2 - Si fa riferimento sicuramente anche alle posizione del Prof. Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale. Vedasi ad esempio ne Il Dubbio l'articolo "Cassese: “La pandemia non è una guerra. I pieni poteri al governo non sono legittimi"
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Di seguito il testo di
Tribunale di Pisa Sentenza n. 419 del 17/03/2021
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE DI PISA
In composizione monocratica
Nella persona di: dott.ssa Lina Manuali
Alla pubblica udienza del 17 Marzo 2021
Ha pronunciato la seguente
SENTENZA
...
Conclusioni delle parti
Il Pubblico Ministero chiede, per il reato di cui capo b) d'imputazione l'assoluzione di entrambi gli imputati perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato con trasmissione degli atti al Prefetto per la comminazione della sanzione amministrativa per il capo a) la condanna dell'Imputato Sa alla pena di mesi 6 di reclusione;
Il Difensore di fiducia chiede per entrambi gli imputati l'assoluzione con formula di giustizia per il reato di cui al capo b) d'imputazione per l'imputato ____ l'assoluzione dal reato di cui al capo a) d'imputazione perché il fatto non sussiste
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con decreto del PM del 22/07/2020 Sa e Ja venivano citati a giudizio per rispondere, il primo, al capo a) d'imputazione del delitto di resistenza a pubblico ufficiale, ed entrambi al capo b) d'imputazione del reato di cui all'art. 650 c.p., secondo l'imputazione meglio descritta in epigrafe. All'udienza del 11.01.2021, verificata la regolarità delle notifiche, veniva dichiarata l'assenza di entrambi gli imputati ed il processo veniva rinviato all'udienza del 17.03.2021 per esame dei testimoni.
All'udienza dibattimentale del 17.03.2021 si procedeva all'escussione del teste, Brig. Ef all'esito della quale veniva dichiarata chiusa
l'istruttoria e le parti discutevano e concludevano come in epigrafe ed il Tribunale pronunciava sentenza come da dispositivo.
MOTIVI DELLA DECISIONE
A carico di Sa è ascritto al capo a) d'imputazione il delitto di cui all'art. 337 c.p, perché, per opporsi al controllo posto in essere nei suoi confronti dai militari in servizio presso la Stazione CC di Cascina, usava violenza e minaccia nei confronti degli stessi, e precisamente, mentre l'imputato si trovava alla guida dello scooter tg ____, non rispettava l'intimazione dell'alt e si dava alla fuga strusciando violentemente la fiancata dell'autovettura di servizio dei carabinieri, che rimaneva gravemente danneggiata.
Gli atti e le risultanze istruttorie acquisiti nel corso del dibattimento permettono di ritenere pienamente integrato il reato contestato al Sadik a capo a) d'imputazione.
Dalla deposizione testimoniale resa dal Brig. ____ è emerso che, il giorno 19.03.2020, durante il turno di servizio antirapina - svolto in abiti civili e con autovettura civetta, munita di targa di copertura - la pattuglia composta dal Brig. S e dal Car. Ro , nel percorrere la via Tosco Romagnola del Comune di Cascina notava due individui a bordo di uno scooter all'altezza di Via Bacci, una traversa di Via Tosco Romagnola.
Poichè all'epoca vigeva il divieto di circolazione per emergenza Covid, i militari decidevano di sottoporre a controllo i due soggetti in questione e, pertanto, gli operanti di PG tornavano indietro e fermavano la propria autovettura davanti lo scooter e, qualificandosi come Carabinieri, intimavano l'alt anche con l'uso della paletta di ordinanza.
A seguito di ciò, il passeggero scendeva dallo scooter, mentre il conducente ripartiva andando addosso allo sportello della macchina dei militari che, nel frattempo, il Brig. stava aprendo per bloccare la via di fuga, rappresentata dallo spazio esistente tra la vettura medesima ed un fioriera del marciapiede, ove gli imputati erano stati fermati.
In tal modo, il conducente riusciva a dileguarsi.
Il passeggero veniva affidato ad una pattuglia normale di servizio, per essere condotto presso gli uffici ed identificato mediante permesso di soggiorno in 1a , mentre il Brig. S. ed il Car. R. mettevano alla ricerca del fuggitivo.
Nel corso delle ricerche, gli operanti di PG rinvenivano lo scooter abbandonato sulla via Nazario Sauro, a circa un km di distanza dal punto ove era avvenuta la fuga.
Dalla targa si era risaliti al proprietario, che risultava essere un marocchino residente a Calcinaia, il quale riferiva ai carabinieri, recatisi presso la sua abitazione, di aver venduto lo scooter per poche centinaia di euro in forma privata e, dunque, senza alcun passaggio di proprietà.
Con la collaborazione del marocchino, che contattava telefonicamente l'acquirente, i carabinieri riuscivano ad incontrare quest'ultimo e constatavano che si trattava del soggetto che si era dato alla fuga durante il controllo.
Il Brgi. S., in sede di deposizione testimoniale, riferiva, infatti, di aver visto in faccia il conducente dello scooter e i tratti somatici e l'abbigliamento del fuggitivo corrispondevano a quelli della persona che, poi, si era recato sul luogo dell'appuntamento, stabilito a Calcinaia a breve distanza dall'abitazione dell'effettivo proprietario dello scooter.
Il soggetto veniva, pertanto, condotto presso la stazione dei Carabinieri Cascina e, tramite fotosegnalamento con il codice CUI, veniva identificato in S.
I fatti come sopra descritti integrano a pieno titolo il reato di resistenza a pubblico ufficiale, essendo evidente come l'imputato si sia opposto con violenza (spintonando con lo scooter lo sportello dell'autovettura da dove il militare stava scendendo, costringendolo a far forza con le braccia per non essere schiacciato) allo scopo di impedire il compimento di operazioni di controllo per poi darsi alla fuga, nella consapevolezza di trovarsi di fronte a due pubblici ufficiali nello svolgimento delle loro funzioni.
E' noto come per la configurabilità del delitto di cui all'art. 337 c.p. sia sufficiente l'uso di una violenza (o minaccia) per opporsi al compimento da parte del pubblico ufficiale di un atto del suo ufficio indipendentemente dall'effetto positivo o meno di tale azione e dal concreto verificarsi di un impedimento che ostacoli il compimento di uno degli atti predetti.
La condotta tipica del delitto de quo si atteggia in atti di violenza e/o minaccia che sia tale da impedire al soggetto passivo il compimento dell'atto che sta eseguendo; è necessario per la configurabilità dell'elemento oggettivo del reato che la condotta costituisca un impedimento concreto per l'esercizio del pubblico ufficio.
Perché si integri l'elemento materiale del delitto di resistenza ex art. 337 c.p. è sufficiente la c.d. "violenza impropria", che può essere esercitata non solo sul soggetto passivo, ma anche sulle cose, consistendo in ogni comportamento teso ad impedire o ad ostacolare l'esplicazione in concreto della pubblica funzione.
La violenza deve, cioè, consistere in un'attività tendente ad impedire al pubblico ufficiale il compimento di un atto di ufficio, così che non è imprescindibile che essa sia rivolta contro la persona, in quanto anche la violenza esercitata sulle cose può integrare l'elemento materiale del reato, quando costituisca una ribellione al pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni e sia idonea a raggiungere lo scopo di impedirne od ostacolarne l'attività.
Si richiede, in ogni caso, una volontaria aggressione dei beni per operare un diretto condizionamento dell'azione degli agenti (Cfr. Cass. pen. Sez. VI, Sent.10-02-2015, n. 6069)
Nel caso di specie quindi sussistono gli estremi oggettivi del reato, poiché è provata l'azione violenta posta in essere dal prevenuto il quale, al fine di guadagnarsi la via di fuga, urtava volontariamente lo scooter contro lo sportello, nel frangente aperto dal Brig. So nell'atto di scendere dalla vettura, ed opporsi, in tal modo all'attività propria del servizio degli inquirenti impegnati, ovverosia il controllo della propria identità.
Quanto, all'elemento soggettivo del delitto di resistenza a pubblico ufficiale, esso si concreta nella coscienza e volontà dell'agente di usare violenza o minaccia per opporsi al soggetto tutelato mentre si appresta o sta compiendo, ovvero si sta adoperando per compiere, il proprio atto d'ufficio o di servizio.
Elemento che si riconosce sussistente nel caso di specie, in quanto, a seguito della qualificazione quali carabinieri da parte dei militari e l'intimazione dell'alt anche con l'uso della paletta di ordinanza, il Sa era ben cosciente di trovarsi di fronte a due pubblici ufficiali ed usava loro violenza, nella consapevolezza e con la volontarietà di sottrarsi al controllo ed al precipuo fine di opporsi al compimento dell'atto del pubblico ufficiale.
In considerazione del comportamento collaborativo alla fine tenuto dall'imputato, il quale si determinava ad incontrare i militari, una volta contattato telefonicamente dall'effettivo proprietario dello scooter, si ritengono concedili le attenuanti generiche di cui all'art. 62 bis cp.
Ai fini della determinazione della pena, in considerazione di tutti i parametri enunciati dall'art. 133 c.p. ed in particolare avuto riguardo alla personalità del prevenuto, che al momento del fatto non era gravato di alcuna condanna, si stima equa la pena di mesi 4 di reclusione (pena base mesi 6 di reclusione ridotta di 113 per le attenuanti generiche a mesi 4 di reclusione)
Il riconoscimento della penale responsabilità per il capo a) d'imputazione comporta la condanna dell'imputato Se , ai sensi dell'art. 535 c.p.p., al pagamento delle spese processuali.
Può essere concesso il beneficio della sospensione condizionale della pena, in considerazione dell'efficacia deterrente della presente condanna e della circostanza che il prevenuto non risulta gravato da precedenti condanne ed è possibile pervenire ad un giudizio prognostico a che lo stesso si astenga in futuro dal commettere reati.
Inoltre al capo b) d'imputazione è ascritto a Sa ed a J , ai sensi dell'art. 650 cp, la violazione dell'ordine imposto con DPCM dell'8/03/2020 per ragioni di igiene e sicurezza pubblica, di non uscire se non per ragioni di lavoro, salute o necessità.
Orbene, in merito al reato contestato agli odierni imputati si ritengono sussistenti i presupposti per la pronuncia di assoluzione nella formula più ampia e favorevole al reo, perché il fatto non sussiste e non nella formula richiesta dal PM perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, con trasmissione degli atti al Prefetto, in quanto non si reputa il DPCM 08.03.2020 costituente provvedimento legalmente dato dall'Autorità, come per contro richiesto dall'art. 650 cp.
Si rileva che a causa della epidemia da COVID-19, sono state emanate disposizioni che hanno comportato la compressione di alcune libertà garantite dalla nostra Carta Costituzionale, come previsti dagli artt. 13 e seguenti della stessa.
Si tratta di libertà che concernono i diritti fondamentali dell'uomo e costituiscono il "nucleo duro" della Costituzione stessa, tanto che, secondo la dottrina maggioritaria (Cfr. C. Mortati, in "Una e indivisibile", Milano, Giuffré 2007, p. 216; G. Azzariti, in Revisione Costituzionale e rapporto tra prima e seconda parte della Costituzione, in Nomos, Quadrimestrale di teoria generale, diritto pubblico comparato e storia costituzionale, n. 1-2016, p. 3.) non sono revisionabili nemmeno con il procedimento di cui all'art. 138 Cost. Revisione della Costituzione.
Vero è che a base della normativa costituzionale che ci occupa è la tutela di un altrettanto diritto fondamentale, cioè il diritto alla salute dell'individuo, nonché interesse della collettività, come da art. 32 Cost. "La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività (...), e che nella situazione venutasi a creare con la diffusione del virus denominato COVID19, si è ravvisata la necessità di contemperare la tutela dei diritti fondamentali del singolo individuo con quella della salute pubblica, tuttavia non sono affatto irrilevanti le modalità, il contenuto e da chi tale ultimo diritto viene tutelato.
Si tratta, dunque, di verificare se la compressione dei diritti fondamentali dell'individuo a favore di quello della salute pubblica sia avvenuta nel rispetto dei crismi stabiliti dalla Costituzione e se, dunque, tale compressione si fondi o meno su provvedimenti ed atti aventi forza di legge.
Non v'è dubbio che diritti fondamentali degli individui sono risultati compressi a seguito di Delibere del Consiglio dei Ministri e Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM), atti questi aventi natura amministrativa e non normativa.
Pertanto, corre l'obbligo di verificare l'idoneità dei DPCM emessi a comprimere i diritti fondamentali che hanno riguardato, a fronte della delibera del Consiglio dei Ministri del 31.01.2020, dichiarativa dello stato di emergenza sanitaria, quale atto non avente forza di legge.
Sul tema diversi Presidenti Emeriti della Corte Costituzionale hanno espresso pareri negativi, evidenziando l'incostituzionalità dei DPCM, per altro affermata anche da giurisprudenza di merito, in quanto solo un atto avente forza di legge e non un atto amministrativo, come è il DPCM, può porre limitazioni a diritti e libertà costituzionalmente garantiti.
Ciò premesso, si deve, anzitutto, rilevare che con Delibera del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020 - emessa in forza del decreto legislativo 2 gennaio 2018, n. 1, ed in particolare l'articolo 7, comma 1, lettera c), e l'articolo 24, comma 1 - veniva dichiarato per sei mesi lo stato di emergenza nazionale "in conseguenza del rischio sanitario connesso all'insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili"
Tale delibera si configura quale provvedimento non avente forza di legge, come è dato evincere dall'art. 3 — Norme in materia di controllo della Corte dei conti - della legge n. 201/1994, in forza del quale "1. ll controllo preventivo di legittimità della Corte dei conti si esercita esclusivamente sui seguenti atti non aventi forza di legge:
a) provvedimenti emanati a seguito di deliberazione del Consiglio dei Ministri;
b) atti del Presidente del Consiglio dei Ministri e atti dei Ministri aventi ad oggetto la definizione delle piante organiche, il conferimento di incarichi di funzioni dirigenziali e le direttive generali per l'indirizzo e per lo svolgimento dell'azione amministrativa;
c) atti normativi a rilevanza esterna, atti di programmazione comportanti spese ed atti generali attuativi di norme comunitarie"
Pertanto, si deve verificare se tale delibera sia stata emanata effettivamente sulla base di sussistenti presupposti normativi.
Orbene, pur non essendovi dubbio alcuno che, in forza sia dell'art. 5 , comma 1 legge n. 225/1992, così come novellato dal D.L. n. 5912012, e sia dell'art. 5 D.Lgs n. 1/2018, il Consiglio dei Ministri detiene il potere di ordinanza in materia di protezione civile, tuttavia, lo stesso D. Lgs n. 1/2018 Codice della protezione civile all'art. 7 - Tipologia degli eventi emergenziali di protezione civile (Articolo 2, legge 225/1992) individua le tipologie degli eventi emergenziali, fra le quali rientrano, lett.c), le: "emergenze di rilievo nazionale connesse con eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall'attività dell'uomo che in ragione della loro intensità o estensione debbono, con immediatezza d'intervento, essere fronteggiate con mezzi e poteri straordinari da impiegare durante limitati e predefiniti periodi di tempo ai sensi dell'articolo 24"
A sua volta, l'art. 24 disciplina la procedura di dichiarazione dello stato di emergenza:"[..] 1. Al verificarsi degli eventi che, a seguito di una valutazione speditiva svolta dal Dipartimento della protezione civile sulla base dei dati e delle informazioni disponibili e in raccordo con le Regioni e Province autonome interessate, presentano i requisiti di cui all'articolo 7, comma 1, lettera c), ovvero nella loro imminenza, il Consiglio dei ministri, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, formulata anche su richiesta del Presidente della Regione o Provincia autonoma interessata e comunque acquisitane l'intesa, delibera lo stato d'emergenza di rilievo nazionale, fissandone la durata e determinandone l'estensione territoriale con riferimento alla natura e alla qualità degli eventi e autorizza l'emanazione delle ordinanze di protezione civile di cui all'articolo 25"
E, l'art. 25 disciplina le ordinanze quali provvedimenti tesi a coordinare l'attuazione degli interventi necessari e da effettuare, che possono prevedere misure "in deroga ad ogni disposizione vigente, nei limiti e con le modalità indicati nella deliberazione dello stato di emergenza e nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento giuridico e delle norme dell'Unione europea", e, "ove rechino deroghe alle leggi vigenti, devono contenere l'indicazione delle principali norme a cui si intende derogare e devono essere specificamente motivate".
Le richiamate disposizioni, pertanto, nulla hanno a che vedere con situazioni di "rischio sanitario", qual è quello derivato dal COVID-19 (certamente evento calamitoso), riguardando altri e diversi eventi di pericolo: "eventi calamitosi di origine naturale o derivanti dall'attività dell'uomo", recita l'art. 7 sopra citato. Anche nella stessa Carta Costituzionale non è riscontrabile alcuna disposizione che conferisca poteri particolari al Governo, tranne che venga deliberato dalle Camere lo stato di guerra, nel qual caso (le Camere) "conferiscono al Governo i poteri speciali" (art. 78 Cost.).
Manca, perciò, un qualsivoglia presupposto legislativo su cui fondare la delibera del Consiglio dei Ministri del 31.1.2020, con consequenziale illegittimità della stessa per essere stata emessa in violazione dell'art. 78, non rientrando tra i poteri del Consiglio dei Ministri quello di dichiarare lo stato di emergenza sanitaria.
In conclusione, la delibera dichiarativa dello stato di emergenza adottata dal Consiglio dei Ministri il 31.1.2020 è illegittima per essere stata emanata in assenza dei presupposti legislativi, in quanto non è rinvenibile alcuna fonte avente forza di legge, ordinaria o costituzionale, che attribuisca al Consiglio dei Ministri il potere di dichiarare lo stato di emergenza per rischio sanitario. A fronte della illegittimità della delibera del CdM del 31.01.2020, devono reputarsi illegittimi tutti i successivi provvedimenti emessi per il contenimento e la gestione dell'emergenza epidemiologica da COVID.19.
Peraltro, giova rilevare come il D.L. n. 612020 conferisca al Presidente del Consiglio ampi poteri e con delega generica, come è dato evincere da semplice lettura dell'art. 2 "ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all'evolversi della situazione epidemiologica", come tale non rientrante nella previsione dell'art. 78 Cost.
In altri termini, viene delegato al Presidente del Consiglio dei Ministri il potere di attuare misure restrittive, molto ampio e senza indicazione di alcun limite, nemmeno temporale, con compressione di diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione, quali la libertà di movimento e di riunione (artt. 16 e 17 Cost.), il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa, anche in forma associata (art. 19 Cost.), il diritto alla scuola (art. 34 Cost.), il diritto alla libertà di impresa (art. 41 Cost.), e tutto ciò non con legge ordinaria, ma con un decreto del Presidente del Consiglio, che risulta inficiato da illegittimità per diversi motivi, tra cui:
a) mancanza di fissazione di un effettivo termine di efficacia;
b) elencazione meramente esemplificativa delle misure di gestione dell'emergenza adottabili dal Presidente del Consiglio dei Ministri;
c) omessa disciplina dei relativi poteri.
Anche se è stato notevolmente modificato e quasi interamente abrogato dal D.L. n. 19/2020 (Misure urgenti per fronteggiare l'emergenza epidemiologica da COVID-19), tuttavia i provvedimenti nel frattempo emanati, tra cui appunto i DPCM, in base a tale decreto, sono affetti da invalidità derivata.
Consegue, quindi, anche la illegittimità di tutti gli atti amministrativi conseguenti.
Oltre a ciò, in via assorbente, si deve rilevare, a parere di questo giudice e non solo, come da argomentazioni di eminenti costituzionalisti e ex presidenti della Corte Costituzionale (Cassese, Baldassarre, Marini, Cartabia, Onida, Maddalena), oltre che da decisioni di giudici di merito (Frosinone, Roma, Reggio Emilia), anche la indiscutibile illegittimità del DPCM del 8/3/2020 (come pure di quelli successivi emanati dal Presidente del Consiglio dei Ministri), ove viene stabilito all'art. 1 che, Allo scopo di contrastare e contenere il diffondersi del virus COVID-19 nella regione Lombardia e nelle province di Modena, Parma, Piacenza, Reggio nell'Emilia, Rimini, Pesaro e Urbino, Alessandria, Asti, Novara, Verbano-Cusio-Ossola, Vercelli, Padova, Treviso e Venezia, sono adottate le seguenti misure:
a) evitare ogni spostamento delle persone fisiche in entrata e in uscita dai territori di cui al presente articolo, nonché all'interno dei medesimi territori, salvo che per gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero spostamenti per motivi di salute. E' consentito il rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza;" e ove, all'art. 4, rubricato Monitoraggio delle misure, il mancato rispetto degli obblighi di cui al DPCM de quo viene punito ai sensi dell'art. 650 cp.
Disposizione poi estesa a tutto il territorio nazionale per effetto del D.P.C.M. 9 marzo 2020 recante misure urgenti di contenimento del contagio sull'intero territorio nazionale.
Pertanto, con tale provvedimento, avente per altro natura meramente amministrativa, si è stabilito un divieto generale e assoluto di spostamento, salvo alcune eccezioni, divieto che si configura, perciò, in un vero e proprio obbligo di permanenza domiciliare e come tale limitativo del diritto di libertà.
Orbene, le varie disposizioni contenute nel provvedimento di cui sopra si pongono in netto contrasto con diversi articoli della Costituzione: art 13 (libertà personale), 16 (libertà di circolazione e soggiorno), 17 (libertà di riunione), 18 (libertà di riunione e associazione), art. 19 (libertà di religione), 76 (delegazione legislativa) e 77 (decreto legge e potere di ordinanza).
Per la nostra costituzione uno dei diritti fondamentali, il più importante, è costituito dalla libertà personale.
Infatti, dopo l'art. 3, che sancisce la pari dignità sociale di tutti i cittadini, la Carta Costituzionale indica una serie di diritti inviolabili, fra i quali pone al primo posto quello della libertà personale, l'art. 13, il quale nei primi tre commi dispone:
"La libertà personale è inviolabile.
Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dall'autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.
In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l'autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all'autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto. [..J", sancendo così l'inviolabilità della persona (habeas corpus) nei confronti di potenziali abusi delle pubbliche autorità e richiedendo la sussistenza di precisi presupposti giuridici per poterne limitare la libertà.
Esso si presenta, cioè, non "come illimitato potere di disposizione della persona fisica, bensì come diritto a che l'opposto potere di coazione personale, di cui lo Stato é titolare, non sia esercitato se non in determinate circostanze e col rispetto di talune forme."( Corte Cost. sentenza n. 1111956)
Orbene, nel nostro ordinamento giuridico, l'obbligo di permanenza domiciliare configura una fattispecie restrittiva della libertà personale e, in
quanto tale, può essere irrogata solo dal Giudice con atto motivato nei confronti di uno specifico soggetto, sempre in forza di una legge che preveda "casi e modi".
Quindi, "in nessun caso l'uomo potrà essere privato o limitato nella sua libertà se questa privazione o restrizione non risulti astrattamente
prevista dalla legge, se un regolare giudizio non sia a tal fine instaurato, se non vi sia provvedimento dell'autorità giudiziaria che ne dia le ragioni" (Corte Cost. sentenza n. 11 del 19 giugno 1956), avendo il Costituente posto a tutela della inviolabilità personale tre garanzie:
a) la riserva di legge assoluta, per cui solo il legislatore può intervenire in materia e porre dei limiti;
b) la riserva di giurisdizione, potendo solo l'autorità giudiziaria emettere provvedimenti restrittivi della libertà personale;
c) l'obbligo di motivazione, dovendo essere esplicitate le ragioni alla base dei provvedimenti restrittivi.
Perciò, il vietare ad una persona fisica ogni spostamento anche all'interno del territorio in cui vive o si trova, configurandosi quale vero e proprio obbligo di permanenza domiciliare, a mente dell'art. 13 Cost., richiede una specifica disposizione legislativa e un atto motivato dell'autorità giudiziaria.
Consegue, allora, che un DPCM, fonte meramente secondaria, non atto normativo, non può disporre limitazioni della libertà personale, come invece disposto dal DPCM del 81312020, ove con l'art. 1, 1° comma, lett. a) (.....) sono adottate le seguenti misure:
a) evitare ogni spostamento delle persone fisiche in entrata e in uscita dai territori di cui al presente articolo, nonché all'interno dei medesimi territori, salvo che (.....)", violando così il citato art. 13 Cost..
Altro diritto che risulta violato è quello della libertà di circolazione, di cui all'art. 16 Cost., in forza del quale"Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza[...]". L'art. 16, come è dato leggere, afferma e tutela la libertà di circolazione dei cittadini, cioè la libertà di muoversi liberamente da un luogo ad un altro, senza necessità alcuna di richiedere permessi o render conto ad alcuno dei motivi dei propri spostamenti, e nel far salve le limitazioni a tale libertà pone dei limiti alla discrezionalità del legislatore, predeterminando già alcuni contenuti che la legge deve avere, c.d. principio di riserva di legge rinforzata, in quanto la libertà di circolazione e soggiorno può essere impedita solo in via generale, nel senso che l'inciso "limitazioni che la legge stabilisce in via generale" "debba essere applicabile alla generalità dei cittadini, non a singole categorie" (cfr. Corte Cost. n. 211956), e per motivi di sanità e sicurezza, principio che comunque impedisce restrizioni stabilite sulla base di atti aventi natura diversa dalla legge statale.
Le limitazioni sono dunque garantite da una riserva di legge, con la conseguenza che solo atti aventi valore primario possono prevederle (legge, decreto legge e decreto legislativo) e non provvedimenti aventi natura amministrativa, quali sono per l'appunto i DPCM.
Per altro, si devono evidenziare altri aspetti di criticità.
Il decreto legge 23 febbraio 2020, n. 6, convertito, con modifiche, dalla legge del 5 marzo n. 13, all'art. 1 - Misure urgenti per evitare la diffusione del COVID-19 - nel prevedere: "1. Allo scopo di evitare il diffondersi del COVID19, nei comuni o nelle aree nei quali risulta positiva almeno una persona per la quale non si conosce la fonte di trasmissione o comunque nei quali vi è un caso non riconducibile ad una persona proveniente da un'area già interessata dal contagio del menzionato virus, le autorità competenti sono tenute ad adottare ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all'evolversi della situazione epidemiologica.", faceva riferimento ad alcune zone specifiche, alle zone c.d. "rosse", e non già all'intero territorio nazionale e, né in sede di conversione del decreto, né con altra fonte primaria, è dato rinvenire alcuna estensione.
Consegue, allora, che le misure limitative alla libertà di circolazione di cui ai successivi DPCM risultano essere prive di fondamento legislativo, in patente violazione, quindi, della stessa riserva di legge di cui all'art. 16 Cost.
Né può costituire fonte di rango primario l'art. 2 del decreto ("Ulteriori misure di gestione dell'emergenza -1. Le autorità competenti possono adottare ulteriori misure di contenimento e gestione dell'emergenza, al fine di prevenire la diffusione dell'epidemia da COVID-19 anche fuori dai casi di cui all'articolo 1, comma 1.´) ove quel semplice rinvio a "ulteriori misure", senza specificazione alcuna in ordine alla tipologia, misure atipiche, diverse da quelle previste dall'art. 1, costituisce di fatto un vulnus ed elusione alla riserva di legge imposta dall'art. 16 Cost..
Infine, altro aspetto che emerge dall'esame dei DPCM, giova ripetere atti amministrativi, è un ricorrente difetto di motivazione.
L'art. 3 L. n. 241 del 1990, sancisce «ragni provvedimento amministrativo, compresi quelli concernenti l'organizzazione amministrativa, lo svolgimento dei pubblici concorsi ed il personale, deve essere motivato [..jLa motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'amministrazione, in relazione alle risultanze dell'istruttoria».
Il legislatore ha reso, pertanto, essenziale la motivazione, sotto l'aspetto sia testuale (deve essere motivato) che contenutistico (La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione, in relazione alle risultanze dell'istruttoria).
La motivazione dell'atto amministrativo può essere indicata anche per relationem, nel senso che essa può essere espressa anche con il riferimento ad atti del procedimento amministrativo come, ad esempio, pareri o valutazioni tecniche.
Secondo l'orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, nel caso di provvedimento motivato per relationem, sebbene non occorra necessariamente che l'atto richiamato dalla motivazione sia portato nella sfera di conoscibilità legale del destinatario, essendo invece sufficiente che siano espressamente indicati gli estremi o la tipologia dell'atto richiamato, tuttavia esso deve essere messo a disposizione ed esibito ad istanza di parte (Cfr. Consiglio di Stato sentenza n. 8276 del 3 dicembre 2019: «va ammessa la motivazione per relationem, purché l'atto [1 al quale viene fatto riferimento, sia reso disponibile agli interessati e non vi siano pareri richiamati che siano in contrasto con altri pareri o determinazioni rese all'interno del medesimo procedimento».)
In breve sintesi, l'atto amministrativo ben può fondare la propria motivazione su un altro atto, ma a condizione che l'atto richiamato sia reso disponibile agli interessati, non si faccia riferimento a pareri in contrasto con altri pareri o con determinazioni rese all'interno del medesimo procedimento.
L'art. 21 septies L. n. 241190 sancisce, a sua volta, "E' nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali"
Pertanto, alla luce di quanto disposto dall'art. 3 della L. n. 24111990, deve ritenersi invalido per violazione di legge l'atto amministrativo sfornito di motivazione ovvero non esprima compiutamente i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche alla base dell'atto, ovvero non indichi l'atto cui fa riferimento per la motivazione o non lo renda disponibile.
Orbene, i provvedimenti emanati per fronteggiare l'emergenza epidemiologica, oggetto del presente procedimento, hanno fatto uso per lo più proprio della tecnica della motivazione "per relationem", con particolare riguardo ai verbali del Comitato Tecnico Scientifico (CTS).
Però, come è notorio, vi sono stati casi in cui tali atti non solo sono stati resi noti dopo lungo tempo, o addirittura in prossimità della scadenza di efficacia dei DPCM, ma addirittura classificati come "riservati", o meglio "secretati" (come i cinque verbali datati 28 febbraio, 1 marzo, 7 marzo, 30 marzo e 9 aprile 2020, del CTS, che hanno costituito la base delle misure di contenimento adottate per l'emergenza COVID, con omissione degli allegati e documenti sottoposti alle valutazioni del CTS), vanificando di fatto la stessa procedura di accesso agli atti e rendendo impossibile la stessa tutela giurisdizionale.
In sostanza, è stata posta in essere tutta una situazione che di fatto non ha consentito la disponibilità stessa degli atti di riferimento, posti a base del provvedimento, con consequenziale invalidità dello stesso provvedimento.
Perciò, da quanto sopra esposto e argomentato, non si ritiene di poter dubitare della illegittimità e invalidità dei DPCM che hanno imposto la compressione di diritti fondamentali e, quindi, dello stesso DPCM del 81312020, che qui interessa e degli altri atti amministrativi conseguenti.
Consegue che, trattandosi di atti amministrativi e non legislativi, affermata la illegittimità dei medesimi per contrasto con gli artt. 13 e ss. Costituzione, oltre che di altre disposizioni legislative, il Giudice deve unicamente procedere alla loro disapplicazione, in ossequio dello stesso dettato dell'art. 5 della legge 2248/1865 all. E, in forza del quale "(...) le autorità giudiziarie applicheranno gli atti amministrativi ed i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi´.
In ragione di quanto sopra detto e argomentato, dovendosi procedere alla disapplicazione del DPCM del 08.03.2020, si deve concludere per dichiarazione di inesistenza di alcuna condotta criminosa ascrivibile in capo agli imputati, e si deve conseguentemente pronunciare sentenza di passoluzione, nei confronti di entrambi gli imputati, perché il fatto non sussiste, nella formula all'evidenza più favorevole al reo, anziché perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato.
Infatti, a fronte della depenalizzazione operata dall'art. 4 del D.L. n. 19120, per i fatti posti in essere prima dell'entrata in vigore dello stesso, alla pronuncia di assoluzione come richiesta dal PM, si dovrebbe poi procedere alla trasmissione degli atti al Prefetto per la comminazione della sanzione amministrativa, con pregiudizio per l'imputato, stante la palese illegittimità del DPCM del 08.03.2020.
P. Q. M.
Il Tribunale in composizione monocratica
Visto l'art. 530 cpp
ASSOLVE
SA ___ in ordine al reato agli stessi ascritto al capo B) d'imputazione perché il fatto non sussiste
Visti gli artt. 533, 535 c.p.p.
DICHIARA
SA colpevole del reato allo stesso ascritto al capo A) d'imputazione e concesse le attenuanti generiche lo
CONDANNA
alla pena di mesi 4 di reclusione, oltre che al pagamento delle spese processuali.
Visto l'art. 163 cp ordina la sospensione condizionale della pena nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge.
Visto l'art. 544 cpp Indica in giorni 90 il termine per il deposito della motivazione della sentenza.
Pisa, li 17.03.2021
Il Giudice Onorario
Dr.ssa Lina Manuali