Il recesso ad nutum nel contratto d’opera intellettuale e clausola di limitazione
Il recesso unilaterale anticipato dal contratto fra professionista e cliente avente una determinata durata temporale e mancato guadagno. Validità della clausola che limita tale diritto di recesso. Cassazione civile, Sentenza n° 25668/2018

Il fatto.
Un ente pubblico rinnovava il contratto pluriennale di consulenza con il proprio legale salvo recedere poco dopo unilateralmente adducendo la necessità di avvalersi della consulenza e difesa dell’Avvocatura dello Stato (che poi emergeva essere una facoltà e non una necessità).
Il legale reagiva contro tale recesso chiedendo giudizialmente il risarcimento dei danni per mancato guadagno. Ogni precedente opera svolta era stata già saldata da parte dell’ente.
La questione: il mancato guadagno nel recesso dal contratto d'opera intellettuale.
Il contratto di prestazione intellettuale si distingue dal similare ma diverso contratto di prestazione d’opera. L’art. 2222 del c.c., definisce il “Contratto d'opera” “Quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un'opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente, ... ”.
Per questo tipo di contratto il successivo art. 2227 c.c. titolato “Recesso unilaterale dal contratto” prescrive che “Il committente può recedere dal contratto, ancorché sia iniziata l'esecuzione dell'opera, tenendo indenne il prestatore d'opera delle spese, del lavoro eseguito e del mancato guadagno”.
In questa disciplina è espressamente previsto il rimborso del mancato guadagno.
Per la “Prestazione d'opera intellettuale” definita dall’art. 2230 (1) del c.c. il “recesso” previsto dal successivo art. 2237 c.c. la legge prevede quanto segue:
“1. Il cliente può recedere dal contratto, rimborsando al prestatore d'opera le spese sostenute e pagando il compenso per l'opera svolta.
2. Il prestatore d'opera può recedere dal contratto per giusta causa. In tal caso egli ha diritto al rimborso delle spese fatte e al compenso per l'opera svolta, da determinarsi con riguardo al risultato utile che ne sia derivato al cliente.
3. Il recesso del prestatore d'opera deve essere esercitato in modo da evitare pregiudizio al cliente”.
Nulla è previsto per il mancato guadagno.
Nel caso di specie, secondo l’avvocato, l’ente pubblico non avrebbe potuto recedere prima del previsto termine di durata del contratto. Assumeva lo stesso avvocato, altresì, che l’ “apposizione di un termine finale al contratto determinava in modo vincolante la durata del rapporto ... non avrebbe mai accettato un contratto con facoltà di recesso libera per il cliente, in considerazione della tariffa minima praticata e dei costi sostenuti”.
Secondo il legale, l'inserimento nel contratto di un termine di durata comporta una automatica rinuncia alla facoltà di recesso. L’Ente, stante tale rinuncia, avente effetto derogatorio rispetto alla previsione legislativa, non avrebbe potuto recedere.
La decisione.
Sul caso si è espressa la Corte di Cassazione civile, con Sentenza n° 25668 depositata in data 15 ottobre 2018, la quale chiarisce immediatamente che il tema della decisione cade sull’applicazione dell’art. 2237 c.c.: “una volta qualificato il rapporto come contratto d'opera non risulta più applicabile l'art. 1725, ma l'art. 2237 c.c., che consente la recedibilità ad nutum se non derogata contrattualmente”.
Aggiunge che il recesso ad nutum di cui all'art. 2237 è funzionale al fondamento fiduciario di tale tipo di rapporto contrattuale e giustifica una tutela meno intensa del prestatore, sotto il profilo della continuità del rapporto. E sarebbe attribuibile a tale profilo la conseguente esclusione del diritto al risarcimento del mancato guadagno.
Quanto alla possibilità di interpretare l’apposizione di un termine finale al contratto quale implicita rinuncia della possibilità di recesso, la S.C. ritiene che: “soprattutto in relazione a rapporti professionali di rilievo, redatti da soggetti molto qualificati con contratti sottoposti a trattativa, la rinuncia al recesso debba esprimersi contrattualmente e non sia consentita un'espansione per implicito della clausola di durata, così penalizzante per il cliente”.
E di seguito conferma il proprio orientamento (Cass. 469/16) secondo cui “in tema di contratto di opera professionale, la previsione di un termine di durata del rapporto non esclude di per sé la facoltà di recesso "ad nutum" previsto, a favore del cliente, dal primo comma dell'art. 2237 c.c.”.
Ciò non significa che non possa essere contrattualmente prevista in modo espresso una esclusione al diritto di recesso.
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1 - Art. 2230 del c.c. “Prestazione d'opera intellettuale 1. Il contratto che ha per oggetto una prestazione d'opera intellettuale è regolato dalle norme seguenti e, in quanto compatibili con queste e con la natura del rapporto, dalle disposizioni del capo precedente”.
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Di seguito il testo di
Corte di Cassazione, sez. II civile, Sentenza n° 25668 dep. 15/10/2018
Fatti di causa
La causa concerne il recesso dell'Agenzia Regionale per la Protezione dell'Ambiente del Friuli Venezia Giulia (ARPA) dal contratto di consulenza e conferimento di incarico di assistenza legale rinnovato nel febbraio 2004 con l'avvocato M.P..
Nel dicembre dello stesso anno il professionista agiva nei confronti dell'Agenzia, chiedendo che fosse accertato l'inadempimento contrattuale della convenuta, con condanna al risarcimento dei danni.
Il tribunale qualificava il rapporto come contratto di clientela - riconducibile al mandato oneroso a tempo determinato - con cui l'avvocato si era obbligato per tre anni a prestare la propria opera professionale in relazione a tutti gli affari legali dell'ente. Riteneva sussistente una giusta causa oggettiva di risoluzione del rapporto e rigettava ogni domanda di danni, dando atto che le prestazioni professionali svolte erano state già saldate.
Adìta dal professionista, la Corte di appello di Trieste rigettava il gravame.
A tal fine, con sentenza 3 aprile 2013, dopo aver discusso la questione posta dall'odierno ricorrente circa il «mandato alle liti», e dopo aver rilevato che tra le parti non c'erano «sospesi» in quanto anche l'ultima fattura era «stata pagata», la Corte di appello qualificava il rapporto come contratto d'opera. Riteneva pertanto legittimo il recesso per il «venir meno dell'intuitus personae» e per il sopravvenire dell'impossibilità sopravvenuta, da ricollegare alla sopravvenuta legge regionale che imponeva all'ente di avvalersi dell'avvocatura regionale e ai dubbi sulla legittimità del contratto derivati da pronuncia della Corte dei Conti.
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